I recenti Giochi Olimpici
a Parigi sono stati, come sempre ogni quattro anni, sotto
l’attenzione di milioni di persone e moltissimi commentatori. D’altra
parte, si tratta di una manifestazione a carattere mondiale, l’unica
in cui si vedono atleti di quasi tutto il mondo (206 paesi questa
volta) gareggiare insieme in quasi tutte le discipline sportive. La
nostra cultura molto calcio-centrica per qualche momento si è aperta
anche agli altri sport spesso trascurati o misconosciuti, eppure
praticati in altre nazioni massicciamente fino a creare icone da noi
sconosciute. Non sono mancate polemiche e contrapposizioni stavolta
l’attenzione è stata principalmente sulla partecipazione di atlete
intersessuali, quasi evocata in quella sorta di manifesto
dell’Occidente che gli organizzatori hanno voluto imporre al
mondo nella cerimonia di aperture. Potremmo dirle certo Olimpiadi
neoliberali, in quanto tutta questa ideologia è stata pompata
all’interno delle gare, insieme ad una verbosa magniloquenza, molto
francese, che le ha definite Olimpiadi dell’Inclusione.
D’altra parte, non si deve dimenticare che i costi di queste
manifestazioni sono talmente elevati che solo pochi paesi al mondo
ormai possono permettersi un’organizzazione seria [1], che anche in
Francia in qualche caso è venuta clamorosamente a mancare (vedasi le
critiche al villaggio olimpico privo di aria condizionata o le
questioni relative all’inquinamento della Senna). Tanto che le
prossime Olimpiadi torneranno per la terza volta a Los Angeles (2028)
e poi saranno a Brisbane (2032), quindi sempre nella parte del mondo
dominata dall’Occidente anglosassone. Non basterebbero dei libri ad
esaminare tutti gli aspetti del ruolo giocato dallo sport nelle sue
varie discipline e nei suoi addentellati con il mondo contemporaneo,
per cui qui mi limiterò a gettare qualche traccia di alcune
possibili analisi [2].
Autonomia
In sé che cosa è il
gesto atletico? Per quale motivo esso ci attira così tanto e qualche
volta ci turba quando esso realizza qualcosa che ci sembra
impossibile qualche attimo prima? La risposta va a mio avviso cercata
nel fatto che il gesto atletico sottende la cessazione della
rappresentazione simbolica in cui siamo immersi quotidianamente per
concentrarsi sul momento intrinseco dell’azione in cui la realtà non
è più mediata dal linguaggio ma viene ad essere in primo piano in
quel preciso istante.
Tutti noi percepiamo il
mondo non in modo immediato, ma attraverso la rappresentazione
simbolica del linguaggio che apprendiamo dai nostri genitori fin da
piccoli, con le differenze dovute alla lingua e alla cultura, quando
osservo qualcosa essa ha un “nome” e in linea di massima ad ogni
cosa può essere attribuito un predicato verbale, i.e. un’azione, che
può essere anche semplicemente una copula, ossia la semplice
esistenza. Questa rete di simboli ci imprigiona, ma è anche la
caratteristica intrinseca della natura umana che consente cose come
l’immaginazione e quindi crea la cultura e la storia. Grazie al
linguaggio noi possiamo pensare al passato e al futuro. Questo ci
differenzia dagli animali, che non hanno questa capacità, o se la
hanno (primati e poche altre specie) la realizzano in modo molto
elementare.
La cosa interessante del
gesto atletico è che esso può essere codificato in modo simbolico,
ma nella sua realizzazione pratica esso richiede la completa
dimenticanza della rappresentazione simbolica che coinvolge il
linguaggio, esso si produce come ripetizione infinita dello stesso
gesto, un rito, fino al raggiungimento della (quasi) perfezione. Si
realizza attraverso l’attenzione focalizzata, o concentrazione,
dell’atleta che sfiora la trance, per cogliere quell’attimo in cui la
realtà è esperita in modo pieno senza il filtro del linguaggio:
questa attenzione o concentrazione è stata detta anche
“assorbimento” [3]. Da un punto di vista dialettico potremmo
affermare che lanciare, colpire, saltare sono inizialmente gesti
naturali, che possono essere rappresentati nel gesto atletico in modo
simbolico, un compito che ricade sugli allenatori, ma che nell’attimo
della loro realizzazione essi tornano ad essere liberi dalla rete di
rappresentazione simbolica diventando estrema ripetizione di un gesto
(quasi) rituale, che nel campione diventa esteticamente perfetto a
chi osserva. Il gesto atletico non è istintivo come la corsa di un
ghepardo, perché esso è codificato, anche chi corre i cento metri
piani ha necessità di imparare (sparo, uscire dai blocchi,
progressione) eppure ha bisogno di quella trance in cui corpo e mente
devono essere “assorbiti” totalmente per realizzare la
prestazione agonistica. Negli animali non esiste il concetto di
prestazione agonistica, non ha alcun senso perché essi non vivono
mai in un mondo di simboli linguistici, per cui solo con difficoltà
escono dalla percezione qui ed ora del reale. La natura umana ne è
invece completamente immersa, la natura umana stessa è
qualcosa che viene descritta mediante concetti simbolici. Mentre nel
gesto atletico la rappresentazione simbolica del linguaggio è del
tutto inutile e viene sospesa, mentre diventa centrale la percezione
della realtà immediata al di sotto della rappresentazione simbolica.
Il raggiungimento della
prestazione impeccabile non è per tutti, ma il gesto atletico ci
attrae proprio per la sua perfezione quando è riuscito. È
sorprendente che il cervello ha la possibilità di apprenderlo anche
attraverso un altro meccanismo non simbolico che sono i c.d. Neuroni
specchio. L’attivarsi di questo meccanismo fa si noi possiamo imitare
il gesto atletico di altri (naturalmente ci riescono molto meglio i
bambini e gli adolescenti che le persone mature), per poterlo
perfezionare però abbiamo bisogno dell’allenamento, della
ripetizione, e della spiegazione tecnica che ci può dare un maestro
ovvero un allenatore. La prestazione eccezionale richiede all’atleta
grandi sacrifici, per cui non è scorretto a mio avviso parlare di
rito e ascesi [4]. Per gli sportivi di alto livello la vita diventa
dominata dalla realizzazione del gesto, ai livelli attuali la
differenza di pochi centesimi di secondo, persino millesimi, in certi
casi può essere determinante. Campione è colui che perfeziona il
gesto all’estremo, superando tutti gli altri.
Il cervello, anche per
mezzo dell’attivazione dei neuroni specchio, risuona in tutti noi ed
è forse uno dei motivi per cui questa “meccanica” non simbolica
[5], ma che tocca la vera realtà materiale, ci intriga e ci
affascina, diventa perciò esteticamente bella in modo che non
riusciamo a volte nemmeno a descrivere [6]. Come è probabile che
esistono molti livelli di trance agonistica da quella del campione
fino a quella del dilettante occasionale che è meno profonda e meno
necessaria della codifica. Fin dall’antichità l’attuarsi del gesto è
considerato un modello estetico, ad esempio, condensato da Fidia nel
famoso discobolo. È curioso notare che Plinio criticò la serenità
del volto del discobolo che aveva solo un minimo un accenno di
concentrazione, ma molti dei gesti atletici riusciti sono appunto
realizzati quasi come se l’atleta fosse libero dalla tensione dello
sforzo (vedi nella nota [3] Mushin). Forzare, in effetti, è
atto della volontà, e quindi esso implica l’intervento di una
rappresentazione simbolica estranea all’apparente semplicità del
gesto atletico, spesso una creazione umana tutt’altro che semplice.
Eteronomia
La passione per la
perfezione del gesto atletico comporta che un evento come le
Olimpiadi estive sia seguito da milioni di persone e, venendo a cosa
è al di fuori del gesto in se, quale migliore mezzo per dimostrare
al mondo la propria ideologia? Le appena terminate Olimpiadi
dell’Inclusione seguono fedelmente il programma neoliberale
volendo dimostrare che solo l’occidente democratico può essere
davvero inclusivo. L’altra faccia di questa medaglia autoimpostasi è
una forma di neocolonialismo quando si fa campagna acquisti nelle
nazioni meno fortunate per prendere le promesse locali e farle
diventare atleti di una nazione ricca. Peraltro, questa migrazione
ha colpito in queste Olimpiadi anche molti atleti russi, messi
ipocritamente al bando a causa della guerra, che si sono per così
dire riciclati in altre nazioni [7].
Fin dalla nascita le
Olimpiadi moderne sono state terreno di confronto inizialmente tra i
nazionalismi europei e successivamente delle stesse economie-mondo,
basti ricordare l’enorme investimento fatto dalla Germania nazista
nelle Olimpiadi del 1936 e le sfide tra blocco orientale e
occidentale durante la guerra fredda. L’atleta “migliore” il
campione era anche il rappresentante di una determinata idea politica
e sociale per quanto egli si potesse dire non interessato a farlo. E
per fare questo non si è lesinato anche nell’uso di pratiche
illecite come il doping [8]. Con l’esclusione della Russia anche
queste Olimpiadi hanno un significato alterato, come già fu nel 1980
a Mosca e nelle successive del 1984 a Los Angeles, quando il
boicottaggio causò la prevalenza nel numero di medaglie del blocco
sovietico nelle prime e di quello occidentale nelle seconde.
Nelle Olimpiadi
dell’Inclusione non potevano comunque mancare le polemiche
intorno al caso della pugile algerina Imane Khelif, e della meno nota
atleta taiwanese Yu Ting, entrambe poi medaglia d’oro nel pugilato.
L’ideologia gender, mainstream in occidente, ha naturalmente fatto
suo il caso, anche se si tratta in effetti di atlete intersessuali
non dei trans come inizialmente la notizia era stata diffusa. In
particolare, il Comitato Olimpico Internazionale (Comité
International Olympique o CIO) ha soprasseduto alla squalifica
inflitta alla Khelif dall’International Boxing Association (IBA) per
i suoi valori alti di testosterone, accontentandosi in questo caso
del sesso anagrafico. L’IBA è stata disconosciuta dal CIO [9] e
definita un’associazione d’incerta natura legale e filorussa tanto
per far piacere ai molti odiatori della Russia soddisfatti per la sua
esclusione dai giochi. Allo stesso modo il CIO ha invitato le
federazioni nazionali a creare una nuova federazione internazionale.
Poco hanno potuto le atlete sconfitte dalla Khelif che hanno fatto la
“X”, indicando il cromosoma X, per contestare questa decisione.
Il presidente del CONI Malagò ha avuto una posizione pilatesca di
fatto lavandosi le mani dichiarandosi vicino ad Angela Carini, la
prima sconfitta da Khelif, ma sostenendo la posizione del CIO.
Sorge il sospetto che
però questa polemica fosse tesa alla dimostrazione assurda che
atlete con alti valori testosterone (anche prescindendo dall’assetto
cromosomico) potessero gareggiare tra le donne, con una velata
allusione al fatto che lo potevano fare anche i trans MtF. È noto
che la Federazione Internazionale Atletica Leggera (World Athletics)
ha dei limiti ben precisi sul testosterone (5 nmol/l [nanomoli per
litro]) per identificare con certezza le atlete che possono
gareggiare tra le donne, mentre il CIO ha una regola più ampia (10
nmol/l). La posizione del CIO però non sembra prendere in
considerazione alcun limite, ma solo il fatto che le due boxeur hanno
sempre gareggiato come donne. D’altra parte, era probabilmente
l’IBA disconosciuta che avrebbe dovuto certificare i loro livelli,
quindi ragioni geo-politiche si sono intrecciate alle questioni di
genere.
In un altro comunicato il
CIO ha definito i test IBA illegali. Ma allora anche quelli della
World Athletics sarebbero illegali? Ci si può basare solo
sull’anagrafica?
Ovviamente la campagna
montata dalla destra contro la Khelif è sbagliata, non è lei che
dovrebbe essere attaccata ma le regole che si è dato il CIO. L’aver
montato il caso contro di lei l’ha fatta diventare una vittima e non
un’atleta sulla quale, in assenza di informazioni certe, esistono
comunque dei dubbi sulla liceità della sua partecipazione
[10].Giustamente una delle pugili che lei ha poi sconfitto,
l’ungherese Anna Hamori ha detto: Secondo la mia modesta opinione,
non credo sia giusto che questo concorrente possa competere nella
categoria delle donne. Ma non posso preoccuparmi di questo ora. Non
posso cambiarlo, è la vita. Posso prometterti una cosa… Farò del
mio meglio per vincere e combatterò il più a lungo possibile!
[11].
La questione infatti non
è chiusa, anche secondo quelli che sono favorevoli a Imane: c’è una
crescente necessità di maggiori indicazioni e standardizzazione nel
modo in cui gruppi come il CIO prendono decisioni sul genere, il che
contribuirebbe notevolmente a stroncare speculazioni infondate come
quelle avvenute con Khelif. Eric Vilain, direttore dell’Institute
for Clinical and Translational Science presso l’Università della
California a Irvine, consulente del CIO afferma che, sebbene il
supporto del CIO a Khelif sia fondamentale, in futuro potrebbero
prevenire la tempesta di domande che Khelif ha dovuto affrontare,
essendo più chiari sui criteri utilizzati per consentirle di
combattere a Parigi [12]. Vedremo cosa accadrà, quel che è
certo è che nella nostra piccola nazione ci si accapiglia su emerite
idiozie come tanto per cambiare la solita solfa tra Vannacci e i
difensori della italianità di Paola Egonu, o altra miseria umana
come il contare le medaglie d’oro degli uomini e delle donne
separatamente, come se queste ultime gareggiassero contro gli uomini
e non contro altre donne.
[1] Le Olimpiadi di
Parigi sono costate 8.8 mld di euro (trascurando i costi della
sicurezza e di altre cose come la “pulitura della Senna”
altrimenti si arriva anche a 12 mld), le precedenti di Tokyo, anche a
causa del covid, 10 mld di euro, per quelle di Los Angeles nel 2028
sono già stati previsti 7 mld di dollari di spesa, ma sicuramente
aumenteranno.
[2] Peraltro il titolo di
questo articolo è stato pensato molti anni fa, riflettendo appunto
sullo sport in generale, come traccia di un possibile scritto ancora
da venire sul fenomeno. Nella prima parte si inserisce anche in una
critica del costruttivismo volendo mostrare come la natura umana non
può essere in alcun modo ridotta solo all’esistenza della
rappresentazione simbolica del linguaggio.
[3] Queste considerazioni
sono basate sul testo dell’orientalista J. Bronkhorst, Adsorption,
ma a
simili considerazioni si può arrivare anche utilizzando la teoria
del flow
dovuta allo psicologo Mihaly Robert Csikszentmihalyi (1970).
Il termine flow, adesso spesso usato anche dai commentatori, è
un equivalente di “attenzione focalizzata”: In essence, flow
is characterized by the complete absorption in
what one does. In parte ci si può rifare anche al concetto Zen
di Mushin (senza mente o la “mente senza la mente”) che è
usato in riferimento alle Arti Marziali orientali come assenza di
concettualizzazione (ovvero assenza della rappresentazione
simbolica nei termini detti sopra). La profondità e la durata
dell’assorbimento o del flow dipendono dal tipo di
azione che si compie e dai livelli di concentrazione richiesti che
possono variare da un evento all’altro o farlo nel corso dello stesso
evento.
[4] Pur in modo stupido
si può pensare che il “ritiro” delle squadre di calcio durante
l’estate in fondo abbia a che fare con il “ritiro” in un
monastero, il termine è lo stesso, le differenze ci sono ovviamente,
ma non sono poi così grandi. È anche interessante notare come i
bravi allenatori sono spesso paragonati a dei “guru”, ossia dei
maestri non solo nella pratica ma anche spirituali.
[5] È noto da tempo che
nessun gesto atletico, umano o animale, quindi codificato o
istintivo, fa uso di una qualche teoria matematica del moto.
[6] Il rapporto tra
musica e sport è molto stretto, in alcuni sport come la ginnastica
artistica o il nuoto sincronizzato è diretto. In altri spesso si
paragonano le prestazioni di una squadra con quella di un’orchestra.
La ripetizione di parole può avere l’effetto di un mantra, che
aumenta la concentrazione (cfr. su questo anche J. Bronkhorst cit. o
il concetto di flow che può essere applicato anche
nell’esecuzione musicale).
[7] La finale della Lotta
Libera tra l’albanese Valiev e il tagiko Rassadin era in realtà la
finale tra due atleti ex-russi.
[8] I due blocchi della
guerra fredda si dividono ancora i quattro record mondiali dei 100,
200, 400 e 800 metri piani femminili. Tutti record sospetti di doping
e mai più raggiunti da altre atlete dagli anni 80 fino ad oggi. I
primi due sono della statunitense Florence Griffith Joyner e gli
altri due di Marita Koch (ex DDR) e di Ludmila Kratochvílová (ex
Cecoslovacchia).
[9] Precisamente il
presidente del CIO Thomas Bach ha dichiarato: Abbiamo due pugili
che sono nate donne, che sono cresciute come donne, che hanno
passaporti femminili e che hanno gareggiato come donne per anni.
Questa è una chiara definizione di donna. Non c’è mai stato il
minimo dubbio al riguardo.
[10] Il caso di Imane
Khelif è molto simile a quello di Caster Semenya, mezzofondista
sudafricana, di cui si conosce esplicitamente per sua ammissione che
è una donna intersex. Dopo i successi purtroppo per lei sono venuti
i problemi, perché il nuovo limite imposto dalla IAAF (5 nmol/l) le
ha di fatto impedito di gareggiare senza prendere farmaci
anti-testosterone che, anche in precedenza aveva preso, ma con esiti
non positivi soprattutto a livello psicologico.
[11]
Khelif
being in women’s boxing not fair, says next opponent, BBC Sport, 2
agosto 2024,
[12]
‘My
Dignity and My Honor Is Above Everything.’ Boxer Imane Khelif
Addresses Gender Controversy After Winning Olympic Gold,
Time, 10 agosto 2024.