Il 25 aprile si
avvicina e la retorica di Stato e dei partiti subisserà il valore etico della Resistenza
tra banalità e contestazioni; è il tempo
di pensare l’impotenza del nostro tempo che avanza tra guerre, riarmo,
disintegrazioni delle relazioni e volgarità impensabili. Dinanzi allo stupore
che provoca il male che sembra inarrestabile è opportuno pensare in modo
genetico e olistico alla nostra disperazione venata d’impotenza non per
crogiolarsi al suo sole freddo e nero, ma per capirla e per oltrepassarla dialetticamente. La categoria del dialettico
come la categoria del politico sono la
speranza materiale di ogni popolo, ma nel nostro tempo a capitalismo integrale
sono sostituite dai suoi succedanei: la chiacchiera e il narcisismo contestatario
in cui l’apparire conta più della parola e la posa più della testimonianza. Tutto
è menzogna, al punto che la verità è valutata come un impedimento all’ordinario
ritmo degli affari.
Il primo passo da
effettuare sulla grande muraglia che ci conduce fuori dallo stato di
reificazione e impotenza è congedarsi da coloro che “appaiono” testimoni
dell’alternativa, ma che ripetono con l’immagine la grammatica del nostro
presente: l’io narcisista non costruisce comunità di speranza, ma usa immagini
e slogan per tenere la scena e ingannare i popoli con le false alternative. In
questi decenni si sono succeduti leader (termine detestabile) che, non
hanno mai segnato l’alternativa, ma sono stati abili strumenti del potere per
confermarlo mediante illusioni di cambiamento. La politica spettacolo è parte
del grande gioco degli inganni, non a caso nulla è accaduto di rilevante, non a
caso il tempo ciclico dello politica spettacolo ha difeso, sempre, il capitale
e mai il popolo e le vite nella loro inesauribile espressione storica,
materiale e di classe.
Il 25 aprile che ci
accingiamo a ricordare cade in un momento in cui bisogna avere il coraggio di
dirsi la verità e di comunicarla, anche con il rischio di non essere compresi. Verità che in realtà in molti conoscono e
tacciono perché addestrati alla resilienza. L’impotenza, di conseguenza, si è trasformata in disaffezione e la caduta
della speranza ha partorito mostri ordinari. L’individualismo e l’indifferenza
regnano sovrani. Il popolo preso dalle ganasce dell’impotenza e condizionato da
media, social e TV si è disciolto in una giustapposizione di individualità
senza progetto e comunità teso solo a sopravvivere nel presente e a congedarsi
dal futuro.
Il tempo della
Resistenza, invece, è stato tempo
progettuale; solo nell’orizzonte politico l’essere umano si ritrova in
relazione con la propria classe e con il proprio quotidiano che riacquista, in
tal maniera, la fertile vitalità dei creatori. Sentirsi parte integrante di una
classe significa ridisegnare i confini reali della propria umanità storica per
dischiudersi all’umanità. Il 25 aprile e
il nostro tempo, dunque, si
contrappongono, benché i manipolatori
del linguaggio, presentano il nostro tempo in continuità con esso.
Gli eroi della
Resistenza, furono resistenti al loro
tempo. Resistere al nemico e combatterlo con la forza delle idee, dell’agire
politico e della fiducia nel compagno di lotta significa affidarsi e ritrovarsi
nella propria natura storica solidale. Chi resiste vive la tensione con il proprio
tempo, lo analizza, ne coglie le contraddizioni dolorose, soffre e mai dispera,
perché la sofferenza non è mai impotente
ma portatrice di idee. Il dolore dei resistenti
ha aperto al futuro, è stato visionario, essi hanno pensato
l’impensabile e l’impossibile. Hanno posto come ideale il ribaltamento delle relazioni di forza. Il
nazifascismo in quanto evento storico
non è stato giudicato insuperabile. Il male è nella storia e pertanto ci invoca
ad essere responsabili del bene. Non si trattava semplicemente di contrapporre la forza alla
forza, ma di una postura etica che si contrapponeva all’incontestabile
immoralità del nazifascismo. L’adesione politica al progetto comunista era
dunque non un’adesione di necessità, ma di libertà, in quanto la totalità di se
stessi aderiva alla Resistenza con la coscienza che il bene e la giustizia
chiedono di discernere senza compromesso il bene dal male e di testimoniarlo
fino al laico martirio. Coloro che entrano in contatto tanto fortemente con la
vita, non temono la morte e vincono la paura e il terrore del nulla, in quanto
sentono che dopo di essi l’esistenza continuerà in coloro che vivranno le loro
parole e i loro gesti. Ognuno lascia un deposito di verità, se ha vissuto nella
verità. Il resistente sa che lascerà la sua testimonianza e che essa sarà
conservata nella carne dei sopravvissuti e di coloro che penseranno il mondo che verrà già vivente
nella Resistenza.
Il nostro tempo è
disperato e impotente, in quanto la cultura della Resistenza è stata sostituita
dalla resilienza (r minuscolo). La resilienza è la cultura di scarto del
capitale che umilia e mortifica i vincenti come i perdenti. La resilienza,
qualità dei materiali, è la capacità poco virtuosa di adattarsi sempre. Mai
cambiare il mondo, ma sempre se stessi fino al punto da disperdersi tra gli
imperativi “mai etici del mercato”. Il culto della resilienza è
anticostituzionale, in quanto la Repubblica è stata fondata sulla Resistenza
che non si adegua al male, ma lo combatte. Educare alla resilienza dovrebbe
essere bandito, in quanto si sostituisce la critica con il tatticismo senza
strategia. La resilienza constata la presenza del male, lo registra, ma non osa
porsi in contraddizione. I resilienti imparano a rispondere alle sue prerogative, perché non
c’è alternativa. Per i resilienti non esiste il bene e il male in sé, ma solo
il proprio bene (momentaneo). In questa cornice il vincente è sconfitto come il
perdente, in quanto vince chi più si adegua. Il perdente, anzi, è sollecitato
dalla sconfitta a riflettere su se stesso, mentre il vincente di vittoria in
vittoria naufraga nel nulla della
disperazione. Depressioni, suicidi e dipendenze sono l’ordinaria verità
esistenziale dei resilienti vincenti. Le cronache ci riportano storie cupe di
uomini e di donne che sembravano avere
tutto, ma ciò malgrado terminano nella tristezza i loro giorni. Imparare ad
essere resistenti nel nostro tempo non è facile. Gli eroi sono stati sostituiti
dagli influencer e dalla presenza
infiltrante dei vip. Il logos è oggi
solo chiacchiera colta che ci insegna
che alla gabbia d’acciaio non si può sfuggire.
Si addestrano i sudditi alla resilienza, tale parola non è pensata nel
suo valore corrosivo e nichilistico e, pertanto, è ripetuta ossessivamente a
scuola e nei luoghi di formazione dalle vestali del sistema, il cui compito è
tenere accesa la corrente fredda della
resilienza.
Inclusione e
resilienza sono le parole con cui il sistema rigetta la Resistenza e la riduce
ad un giorno d’aprile in cui niente è autentico, ma tutto è retorico e
distante. Generazioni che hanno imparato ad essere resilienti non possono che
percepire l’abisso che li divide da coloro che dissero “no” con la loro vita,
mentre essi vivono per dire il fatale e
irriflesso “sì” al sistema di cui conoscono le menzogne e i messaggi
ambivalenti e ricattatori. Se non sei resiliente, se non ti adatti sarai
espulso dal mondo dei “vincenti” per essere un paria sociale. Tali parole in
modo strisciante circolano e intossicano la mente dei più giovani.
Resistenza contro
resilienza, questo è il dramma; questa è la tragedia. Tale contrapposizione non
è resa dialettica e critica, in quanto il potere non solo si presenterà come il difensore dei
valori della Resistenza, ma userà la
retorica dei soli diritti civili (preziosi con i diritti sociali, ma scissi
sono solo privilegi di classe) come
strumento per rendere il 25 aprile un giorno adialettico fra i tanti. Lo scopo
è sempre il medesimo: necrotizzare il pensiero, assimilare e omologare.
In questo 25 aprile, in
cui la verità del sistema è palese – guerra, riarmo e tagli sono ormai le
parole che i resilienti devono imparare senza mediazione della ragione etica –
aiutiamoci l’un l’altro a pensare la Resistenza mediante la resilienza. Il
potere è intessuto di parole che dobbiamo imparare a decriptare e a
decostruire. Per tale processo cognitivo, linguistico, storico ed etico
necessitiamo di meditare nei giorni che precedono il 25 aprile per non cadere
ancora una volta nelle trappole linguistiche del dominio.
A ciascuno di noi
parlarne ovunque, al fine di mostrare che i valori della Resistenza ci invocano
ad essere resistenti e non resilienti. Restituiamo ai signori e padroni delle parole le loro
grammatiche lessicali e riappropriamoci della Resistenza per farne paradigma da
cui trarre la linfa politica ed etica per resistere. La cura delle parole è già
cura delle persone e delle comunità. Eroi ed eroine che hanno donato la vita attendono
di vivere con noi nel nostro presente. I resistenti hanno nel cuore scolpite le
parole del frammento B18 di Eraclito
che i resilienti non potranno comprendere, in quanto sono chiusi alla vita e
alle vite:
«ἐὰνμὴἔλπηθαι ἀνέλπιστον οὐκἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητονἐὸν καὶ ἄπορον.
» «Se l’uomo non spera l’insperabile non lo troverà, poiché esso è introvabile
e chiuso alla ricerca.»
I resistenti sperarono l’impossibile e ci donarono il tempo nuovo della democrazia progressiva che il capitalismo con i suoi mezzi di dominio ci sta portando via. Resistenza è cura della democrazia progressiva nella quale la parola è vera e unisce verso il comune orizzonte della giustizia sociale.
Fonte foto: Storia in Rete (da Google)