Il libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia[1],
è del 2024 e si inserisce nel filone dei suoi testi politici di cui fanno parte
Elites e populismo[2],
del 2019, L’assoluto e la storia[3],
del 2023, e Categorie della politica[4],
del 2023. Nel blog Nella fertilità cresce il tempo (un verso di Pablo
Neruda dal Canto General[5]), questi libri sono stati
letti in altrettanti post[6]. Rispetto a questi,
tuttavia, il testo sembra aprire un altro e nuovo filone di ricerca che si
collega probabilmente con alcuni altri del medesimo autore, inseriti nella
tradizione fenomenologica di cui Costa è uno dei principali cultori[7]. Si tratta comunque di un
testo ambizioso: il tentativo, per ora abbozzato di creare una sorta di economia
politica delle emozioni.
Ci sono alcuni bersagli polemici, più che altro rilevabili
dai termini e dalle formule a volte tranchant adoperate: il primo è la
cosiddetta “svolta linguistica” e la successiva “svolta argomentativa”, quindi
Habermas che le traduce entrambe in prescrizioni politiche e sociali negli anni
Novanta; il secondo è il materialismo marxiano. E c’è un oggetto centrale: l’emergenza
del legame sociale, ovvero dell’ordine sociale.
Il problema che Costa sente è la disgregazione del senso
nella società contemporanea, ovvero del senso socialmente costituito e
condiviso. Quindi il problema che sente è quello dell’anomia e delle sue conseguenze
sociali e psicologiche.
La “produzione del legame sociale” per l’autore deriva
dalle emozioni, ovvero dalla loro creazione sociale, emergenza e circolazione.
Ma quali emozioni? Produzione e riproduzione dell’ordine sociale è in questa
interpretazione l’effetto di un’articolazione emozionale, e non principalmente dell’articolazione
linguistica o discorsiva. Il problema habermasiano del coordinamento rivolto
all’intesa, basato sul riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità
criticabili, pur di lunga tradizione nel razionalismo occidentale, è quindi scalzato
alla sua radice. L’intesa è, in altri termini, sempre prediscorsiva prima di
essere riscattata linguisticamente. Quando c’è coesione, lungi dall’essere
all’opera una intesa razionale e discorsiva, una intesa, esiste già un piano nel
quale preesiste consonanza e risuonano insieme le rispettive aperture al mondo
(percezioni e cognizioni): quello delle emozioni. In assenza di una qualche
sintonia emozionale non è possibile, per Costa, intesa meramente razionale. Tra
queste, le emozioni che creano società sono connesse sul piano sociale con il sentirsi
al sicuro, riconosciuti e protetti; in questo senso dall’insieme della
società vengono creati e poi distribuiti “benefici emozionali”. Formula
straordinaria, che rappresenta, per così dire, la ‘moneta di conto’ dello
scambio sociale emozionale. Il ‘valore’ (emozionale) è quindi creato in comune
ed in comune distribuito, socialmente prodotto per effetto della sua stessa
natura. Le emozioni sono, infatti, dei prodotti essenzialmente sociali. E sono dei
prodotti che sono ‘ripartiti’; e che, nell’esserlo, generano di per sé legami.
Restando alla metafora dell’economia politica emozionale (formula che
flirta con Marx, come questo faceva con Hegel), le emozioni sono le ‘merci’ che
ci scambiamo reciprocamente.
Scrive Costa, in una formula sintetica e centrale:
“una società è allora innanzitutto
un modo di produzione e distribuzione delle emozioni. Funziona quando la
ripartizione emozionale genera legami sociali e implode quando una parte
della società non trae sufficienti benefici emozionali”[8].
Se non c’è scambio
di benefici emozionali il legame sociale collassa. Quel che viene opposto
tradizionalmente a questa proposizione, che pone al centro le emozioni, è la
ricerca della razionale egemonia discorsiva; la costruzione di soggettività
prive di emozioni che siano radicate in tradizioni. È qui che si prendono le
distanze da tutta una tradizione del razionalismo occidentale che risale almeno
a Hobbes[9], oltre che
dall’esplicitamente citata Teoria dell’agire comunicativo[10].
Tutto lo sforzo della modernità occidentale, richiamata da Habermas come
illuminismo incompiuto, è rivolto a superare gli assetti consuetudinari,
razionalizzandoli. Si tratta di un processo, usualmente attribuito all’emergere
della classe dei ‘borghesi’ in contrapposizione alla vecchia nobiltà della
terra, nel quale una idea di ragione ricondotta alla preminenza della
razionalità-diretta-allo-scopo, è rivendicata come più avanzata e progressiva.
Sullo sfondo di una potente filosofia della storia, a partire almeno da Vico,
ogni cosa è esposta alla fredda logica del calcolo. Anche se l’erede della
tradizione francofortese (ma anche di quella ermeneutica) pone in campo un più
ampio concetto di razionalità, e dei processi connessi, indubbiamente il
concetto-cardine di “mondo della vita” adoperato si espone alla critica di
Costa. Si tratta, infatti, di porre l’enfasi in quelli che chiama “legami
sociali comunicativi”, ovvero la comprensione non pienamente consapevole di
linguaggi, idee, valori. La comprensione, in processi rivolti all’intesa non
coatta, muove qui dalla previa condivisione di un corpus di conoscenze ed
interpretazioni scontate[11]. Per Habermas, “il mondo
vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate
ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione”[12]. Esso è costituito da contenuti cognitivi, più
o meno complessi, retti dalla “impalcatura” di “concetti del mondo” e
corrispondenti “pretese di validità”, presupposti come provvisoriamente
aproblematici dagli attori in interazione. Ancora con le parole di Habermas:
“il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni
precedenti; esso é il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso
che sorge in ogni processo effettivo dell’intendersi”[13].
L’obiettivo
di tutta l’impresa è la creazione di orientamenti all’azione che siano
innovativi, condivisi, riflessivi e razionali. Tramite, precisamente, l’operato
interpretativo di partecipanti che lo svolgono in comune, motivando
razionalmente le intese raggiunte senza ancorarsi semplicemente alle pur
presenti ovvietà culturali, tradizione, norme. Un simile processo,
schematizzato, genera “razionalizzazione sociale” che si fonda su una “zona
critica” in cui una “intesa conseguita in modo comunicativo dipende da autonome
prese di posizione del tipo si/no su pretese di validità criticabili”[14]. Pretese che, se accolte
dai parlanti, implicano una sorta di ‘decentramento’ progressivo, o
tema-per-tema, della comprensione del mondo. Secondo il diagramma teorico di
Habermas la razionalità di una comunicazione è, da leggere, in rapporto con la
sua capacità di attivare le potenzialità comunicative implicite nella comunità verso la quale è diretta e la cui azione
intende contemporaneamente normare, sviluppare in senso espressivo ed orientare in quello cognitivo. Ciò significa che la razionalità è in rapporto con la criticabilità e la capacità di
fondazione.
L’esplicito
obiettivo, chiarito in Il pensiero post-metafisico[15],
è determinare in modo non coattivo, ma sotto la spinta della razionalizzazione,
da una parte la perdita dei sostegni convenzionali e, dall’altra, la
emancipazione dalle forme naturali di dipendenza. Ciò si oppone alla
comprensione della modernità come ampliamento di ambiti di opzione per decisori
razionali e disfacimento, senza resti, dei tradizionali “mondi della vita” per
prendere in considerazione solo prestazioni funzionalmente specifiche. Ma anche, e questo è il punto, ogni
tentazione di ricaduta nel calore e nella protezione di luoghi chiusi ed
avvolgenti esperienze “comunitarie”.
Rispetto a questa influente posizione, e lunga tradizione,
Costa prende la distanza dalla centralità del discorso sui ‘valori’, i quali
funzionano disgregando le “comunità emozionali”. Con questa formula, che
rinvia ad un’adesione reciproca preriflessiva tra vicini e ‘parenti’, viene
attaccata tutta la proposta di doveri astratti, che agiscono tramite colpa e
vergogna, e che agiscono per ‘assorbire la vita emotiva in quella razionale’.
La vita emotiva implica, dunque, una situata apertura
storica e la concezione dell’esistenza come punto di concrezione di specifici
modi di sentire e articolazioni emozionali. Al contrario, in questo ripetendo
in modo mutato una mossa che viene dalla tradizione habermasiana, i discorsi
sui valori, sganciati dal sentire-in-comune, divengono spontaneamente strumenti
per creare un’egemonia fatta di inibizione, e di ‘colonizzazione discorsiva’
dell’esistenza. Si ha a che fare, in tal caso, con dispositivi che, di fatto,
finiscono per dire come si dovrebbe sentire, generando una sorta di “alienazione
emozionale”. Ovvero, generando il distacco dalle proprie emozioni che si
trovano ad essere alla fine esterne al proprio sé; in qualche modo
reificate ed imposte socialmente. Emozioni che sono connesse con il senso che
la propria vita è in mano ad altri e fuori della propria disponibilità.
Di qui, articolando un discorso che fa leva in sostanza sull’esperienza
di messa a rischio della vita e di esposizione alla sua durezza, che molti
fanno nell’attuale società neoliberale, Costa individua nei discorsi sui valori
e nelle altre strutture discorsive agitate nella sfera pubblica la fonte della
alienazione emozionale denunciata. Si parla qui, concretamente, della sfera del
discorso woke e dell’uso disciplinare del “politicamente corretto”[16], o di quella che Sahra Wagenknecht,
chiama la ‘lifestyle-linke’[17]. Di discorsi fatti per
produrre effetti di distinzione tra chi, facendoli, mostra di avere i buoni
valori è eletto e chi, subendoli, è al contrario respinto tra i rozzi, reazionari,
arretrati, falliti. Ovvero tra i colpevoli.
Questi discorsi muovono e provocano, al contempo, la citata
‘alienazione emozionale’. E agiscono attivamente sulle distribuzioni e
articolazioni delle emozioni preriflessive che, in sostanza, ordinano la
società. Nel senso che attivano o inibiscono azioni, plasmano la vita sul
piano che più conta, quello emozionale.
Ma quale è, quindi, l’origine sociale di questo sentimento
di ansia, di questo stato permanente che avvolge la vita di molti? L’origine sociale
dell’ansia è l’intera atmosfera determinata dalle società contemporanee che è
intervenuta man mano che la precarietà si è fatta strada. Quando ognuno si è
trovato crescentemente esposto al rischio di essere valutato, e il successo in
assenza di strutture stabili (familiari e altro) si è trovato interamente
esposto alla meccanica del giudizio sociale. L’ansia si è imposta, quindi, come
anticipazione di una vergogna possibile e la sua produzione è diventata una
specifica tecnica di potere. Nel senso specifico che gli uomini ansiosi ed
esposti sono sempre costretti ad essere iperattivi; si trovano sempre sull’orlo
del fallimento esistenziale e per questo sono sempre pungolati, disperati,
mobili e anche, al contempo, artatamente felici. Nel senso che una parte del
ruolo sociale che ognuno è chiamato a rivestire impone di dover tassativamente
vestirsi di un abito di felicità. Essendo la rabbia, la depressione, l’ansia
manifesta spia del fallimento.
Questa epidemia di ansia, circola, viene in un certo
senso quindi ‘capitalizzata’, si fa “motore stesso del modo di produzione
capitalistico”[18].
Questa è quella che l’autore chiama la “insicurezza ontologica”. Un’insicurezza
che deriva direttamente dalla sottrazione del futuro, quindi della capacità di
progettarsi, di inserirsi in un progetto[19]. Di fuggire alla
sensazione di un’esistenza che si libra nel vuoto. Un’esistenza che finisce per
essere sola e assediata contemporaneamente. Ovvero soli anche se con gli altri
e, al contempo, assediati dagli altri.
Allora, oltre ad attivarsi, il soggetto ansioso è portato a
produrre e consumare quanto più possibile, per aumentare il proprio rango e
distaccarsi in una società sempre più ineguale e sempre più ingiusta. Una
società nella quale è il concetto di meritocrazia (un’impossibilità ontologica,
dal momento che ogni sé, e ogni dotazione è costruita socialmente e non
individualmente) a fare da attivatore del senso di competizione di tutti verso
tutti. Una competizione sentita sia come normale sia come legittima. Nel quale
contesto anche il sapere stesso è acquisito e percepito come una sorta di arma,
rivolta contro gli altri[20].
Questa dinamica, proseguendo la metaforizzazione del gergo
marxiano condotta durante tutto il testo, determina una “lotta di classe
emozionale”. Ovvero, la lotta condotta agendo le emozioni, e suscitandole,
come elemento di distinzione della classe. Per cui avere certe emozioni,
sentirsi superiori, colti, riusciti e felici, è elemento della distinzione, del
rango. Fare certi discorsi, brandire dei termini, dei concetti, delle frasi, è
indicatore certo dell’appartenenza alla classe (superiore). Al converso, farne
altri, scivolare su termini diversi e ‘retrogradi’, toccare dei tasti, produrre
delle frasi, è il segno dell’appartenenza ad altra classe. Quella da
combattere e inferiore.
Ma, al contempo, occorre anche combattere il legame
ascrittivo, quello che si è trovato nascendo o venendo socializzati, quello che
non si è scelto individualmente. Di cui non ci si è liberati, disincantandosi.
Combattere, cioè, il legame che protegge. Chi vince la “lotta di classe
emozionale” non ha infatti bisogno di sicurezza, non chiede protezione (se non
per il gruppo elettivo, al quale ha scelto di aderire, che è invariabilmente
sia giusto sia vittimizzato). Produce una sorta di torsione, per così
dire, alla necessità di fondare l’io, il problema centrale della modernità
almeno occidentale, su autointerpretazioni esplicite, scegliendo cosa è di
importanza cruciale e cosa non lo è; definendo la propria mappa morale. La
torsione deriva dalla gestione individualista del processo, per cui si scelgono
insieme le narrazioni e gli interlocutori (escludendo altri). Ma, per usare qui
le parole di Taylor: “una società di persone tese all’autorealizzazione e le
cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili, non può
sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà
pubblica richiede”[21].
Come ricorda una vasta letteratura[22], la sicurezza che l’unico
modo per evitare l’epidemia di ansia socialmente prodotta, è un prodotto di una
riconosciuta dipendenza reciproca che può essere solo in parte ‘scelta’, ma è
anche ‘trovata’[23].
Nella società dell’insicurezza ontologica e sociale,
viceversa, si cerca di essere indipendenti, si vive come sconfitta ogni
relazione profonda e si percepisce il sé come in lotta con gli altri, comparato
sistematicamente con essi, e vincente per forza. Quindi, per affermarsi in
questa autopercepita lotta, è necessario esibire i simboli del successo. Sia
materiali, sia morali ed esistenziali, è indispensabile mostrarsi felici,
riusciti, carichi di emozioni positive.
Emozioni che sono prodotte sia socialmente, sia nella
interna fabbrica personale. Sono simulate e quindi create; attivate da processi
di causazione alla cui radice c’è questo desiderio disperato di gestire l’ansia
da prestazione. Di sfuggire alla depressione sempre alla porta. Tra depressione
ed ansia, dice Costa, c’è una relazione interna di somiglianza, l’una guarda
all’altra e l’una, la depressione, è la soluzione all’altra, l’ansia che
altrimenti si affaccerebbe.
Quindi, l’esistenza ansiosa, creata dalla società
dell’insicurezza sistematica, al contempo la distrugge. C’è qui una retroazione
(anche essa di sapore marxiano riscritto) per la quale la produzione sociale
dell’ansia distrugge le proprie condizioni materiali di produzione e incammina
la società verso la finale dissoluzione.
L’alternativa, di fronte al baratro al quale ci affacciamo,
è nella logica del dono[24], e nella comprensione
della circolazione della ricchezza, da riattivare, come circolazione delle
emozioni e creazione di una diversa economia politica delle stesse.
[1] –
Vincenzo Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth edizioni, Roma 2024
[2] –
Vincenzo Costa, Elites e populismo. La democrazia nel mondo della vita,
Rubettino editore, Soveria 2019
[3] –
Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da
Husserl, Morcelliana Brescia 2023
[4] –
Vincenzo Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas
edizioni, Roma 2023.
[5] – Si
veda il post “Nella
fertilità cresce il tempo”, 30 novembre 2013.
[6] –
Rispettivamente, nel novembre 2022 Elite
e populismo, nel dicembre 2023 L’assoluto
e la storia, nel gennaio 2024 Categorie
della politica.
[7] – Tra
questi almeno, Costa, V., Fenomenologia dell’intersoggettività.
Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010; Costa, V., Distanti
da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011;
Costa, V., Esperienza e realtà. La prospettiva fenomenologica,
Morcelliana, Brescia, 2021.
[8] – Costa,
La società dell’ansia, cit, p.10
[9] – Si
veda, ad esempio, il De cive, in cui le facoltà ‘della natura umana’
sono ricondotte a quattro ‘generi’: forza fisica, esperienza, ragione, passioni.
La “naturale inclinazione degli uomini a provocarsi a vicenda”, quindi, deriva
dalle passioni e dalla ‘falsa stima di sé’, cosa che, unita al ‘diritto’ porta
alla famosa formula per la quale “lo stato naturale degli uomini, prima che si
riunissero in società, era la guerra; non solo, ma una guerra di tutti contro
tutti” (Thomas Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 87).
[10] –
Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986
(ed.or. 1981).
[11] –
Habermas, op.cit.
[12]–
Idem.
[13]– Idem.
[14]–
Idem.
[15] –
Jurgen Habermas, Il pensiero post metafisico, Laterza
[16] – Cfr,
ad esempio, Jonathan Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Milano,
2018.Cfr, il relativo post
del giugno 2018.
[17] –
SahraWagenkhnect, Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, 2022,
Roma.
[18] –
Costa, La società dell’ansia, op. cit., p. 54.
[19] – Si
può pensare per questo concetto all’opera di Charles Taylor. Ad esempio,
Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari, 1994; e
Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli,
Milano1993.
[20] –
Costa, La società dell’ansia, cit., p. 98.
[21] –
Charles Taylor, Radici dell’Io, op.cit., p. 617.
[22] – Sia
psicologica, sociologica, come di filosofia morale.
[23] –
Costa, La società dell’ansia, cit., p. 104.
[24] – Qui si torna ovviamente, e sempre, a Marcel Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 1965 (ed.or. 1950); e KarlPolanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1994 (ed.or. 1945).