Il turbocapitalismo all’assalto dell’essenza della vita e dell’umanità

Vita, DNA, ricerca scientifica e dignità dell’uomo.

biotech_1_560

Sommario

1. Introduzione
2. Le sfide aperte del concetto di vita
3. La coscienza e la vita
4. L’ingegneria genetica e la vita artificiale
5. Conclusioni
6. Cenni bibliografici
7. Note


Introduzione

E’ una opinione che si sta consolidando, e che trova riscontro anche nei dati di mercato, che il capitalismo finanziario, in uscita dalla crisi, cerchi nuovi sbocchi di mercato ancora intonsi, sui quali ritagliarsi nuovi spazi. Ora, il mercato immobiliare, quello delle carte di credito e quello della spesa pubblica, sui quali questa sovrastruttura parassitaria ha fatto crescere, rispettivamente, la bolla del mattone, quella del debito privato e quella del debito pubblico, appaiono oramai non più sfruttabili. La speculazione borsistica, con la sua appendice riferita alla borsa tecnologica del Nasdaq, è oramai rischiosa, e largamente limitata dalle varie Autorità nazionali di Vigilanza. Così come quella sui tassi di cambio.

Quali spazi nuovi trovare, quali terre vergini aggredire per piazzare un cronico eccesso di offerta di capitali, che nel solo comparto degli investimenti di portafoglio, al netto delle riserve, raggiunge 1.174 miliardi di dollari nel solo anno 2007 [1], e che non può trovare sfogo soltanto sui mercati Otc dei derivati? Un campo ancora libero, dopo aver sfruttato merci e servizi? Quello dell’uomo in sé stesso, del suo corpo, della sua personalità, della sua umanità. Il mercato del corpo umano trova sfogo in un immenso giro d’affari che coinvolge l’industria cosmetica, quella dello sport e del fitness, e la chirurgia estetica e plastica. La sola chirurgia plastica ha un giro d’affari che oscilla, di anno in anno, fra i 12 ed i 20 miliardi di dollari [2].

Ma l’ambizione è molto più ampia. Si tratta di reingegnerizzare completamente l’uomo, fin nei suoi più reconditi spazi di umanità, ed in questo viene in soccorso, strombazzando, l’industria privata della genomica. La posta in gioco è sintetizzata da Steven Pinker, che, baldanzoso, annuncia che “il 2008 ha visto l’introduzione di una genomica diretta al consumatore”. Ecco: non vi piacete più? Siete poco assertivi, timidi, oppure avete il naso troppo lungo? Una risistemata al vostro DNA e vi rifacciamo nuovi! Eccheggiano le parole tetre di Francis Fukuyama, il genio che ha previsto la “fine della storia”: secondo lui, i tentativi di realizzare una razza umana “nuova e perfetta” (sulla base di quali parametri etici, psicologici, culturali non è dato sapere) saranno finalmente realizzati dalla genetica. Sullo sfondo, si intravede il mondo da incubo di Aldous Huxley, in cui una élite irraggiungibile, invisibile e chiusa di coordinatori, unici depositari della memoria storica e del progetto sociale complessivo, realizza, con gli strumenti dell’eugenetica (Huxley scrive prima della scoperta del DNA, avvenuta definitivamente solo nel 1953) un mondo in cui ogni singolo essere umano, sin dalla nascita, è programmato in vista di un inserimento predeterminato nella società. Dove il libero arbitrio, persino il concetto di destino individuale, vengono completamente svuotati di senso, da una ingegneria genetica che diviene ingegneria sociale.

le_mellieur_des_mondes

La posta in gioco è enorme. Nel 2012, le compagnie biotech mondiali hanno fatturato 89,8 miliardi di dollari, in crescita, nonostante la crisi, dell’11,4% rispetto all’anno precedente. Il segmento delle biotecnologie rosse, quelle destinate cioè all’uomo in via diretta, e che includono la ricerca farmacologica ma anche l’ingegneria genetica (che inizia negli anni Settanta, con alcune fondamentali scoperte, come la prima molecola di DNA ricombinante – che non è ovviamente un organismo vivente ma una semplice molecola – ottenuta mischiando frammenti di DNA di organismi diversi, creata nel 1972 dall’americano Paul Berg, o il primo Ogm, realizzato nel 1973 da Boyer e Cohen, ricercatori dell’Università della California, clonando, cioè copiando un forma identica, un gene di una rana tramite un batterio-veicolo) cresce più rapidamente, in termini commerciali, degli altri segmenti (ivi comprese le famigerate biotecnologie verdi, ovvero gli Ogm). Secondo il finanziere Francesco Micheli, il futuro della finanza ruota attorno alle biotecnologie. Il motivo è semplice: la ricerca biotecnologica costa moltissimo, e soprattutto ha un time-to-market, ed un punto di ritorno degli investimenti (un break even point) molto spostato in là negli anni. Dalle prime sperimentazioni all’immissione sul mercato di un farmaco biotecnologico, ci possono volere dai 10 ai 20 anni. Secondo uno studio, già datato poiché riferito al 2003, condotto dalla Bain & Co., il costo di R&S e commercializzazione di un farmaco biotecnologico è dell’ordine degli 1,7 miliardi di dollari. In tutto il lasso di tempo che va dall’idea di ricerca fino al break even point dell’investimento, l’azienda biotecnologica ha bisogno di enormi anticipazioni di risorse, che mettono in moto in modo rilevante la finanza, a fronte di guadagni futuri molto ingenti, come dimostra il rapido sviluppo del fatturato del settore.

Uno schema che mostra l’industria biotech e le sue ramificazioni applicative

Uno schema che mostra l’industria biotech e le sue ramificazioni applicative

Il tutto è ottenuto tramite una vera e propria mercificazione del concetto di vita umana. Riporto testualmente un passaggio del “Dossier Ogm” (A. Gallippi, Aracne Editrice, 2009): “la possibilità di considerare la vita come servizio e bene commerciabile ha ampliato notevolmente le prospettive della biotecnologia”. Il tutto ovviamente grazie ad una ossequiosa obbedienza della politica. Nel 1980 il governo degli Stati Uniti approva il Bayh–Dole Act, che incoraggia esplicitamente le università a brevettare e privatizzare i risultati delle ricerche nel campo biotecnologico. Il 16 giugno dello stesso anno, la Corte Suprema degli Stati Uniti emette un’importante sentenza, che decreta la possibilità di brevettare un organismo vivente ottenuto con le tecnologie del DNA ricombinante, cioè le tecnologie che danno luogo agli Ogm. Il 12 maggio 1998, Parlamento e Consiglio Europeo hanno approvato la direttiva sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, anche se il mercato agricolo europeo è ancora (penso molto temporaneamente) al riparo dall’invasione degli Ogm (ricordo che uno dei punti principali del negoziato attuale del Transatlantic Trade And Investment Partnership è la richiesta statunitense di aprire il mercato agricolo ed alimentare europeo alle sementi Ogm prodotte negli USA).

Questa mercificazione porta ad un concetto riduzionista, anzi, direi volgarizzante, della vita umana, e che è ben rappresentato da quel vero e proprio pioniere della vita artificiale per conto del profitto privato che è Craig Venter. Il reduce di guerra del Vietnam, oggi fondatore e capo di Celera, una bio-tech acquisita dalla multinazionale Quest Diagnostics nel 2011, ci dice che “è ora di cambiare non solo il modo in cui concepiamo la vita, ma la vita stessa”. Gli fa eco il filosofo Dan Dennett: “quando non ci sarà più bisogno di mangiare per restare vivi o di procreare per avere figli, o di mezzi di locomozione per avere una vita piena di avventure, quando gli istinti residui di queste attività potranno essere disattivati con semplici ritocchi genetici, forse non esisterà più una natura umana immodificabile”. Non sembrano esserci limiti: secondo l’ardito Marine Venter, si potrà creare ex novo batteri che non esistono in natura, e che potranno, ad esempio, divorare il petrolio sversato in mare da una petroliera, produrre energie alternative, disinquinare l’aria, ma anche inventare speciali stampanti del DNA, sulle quali stampare il patrimonio genetico di batteri responsabili di un’infezione, e progettare in tempo reale il DNA di un organismo batteriofago in grado di mangiarli, o addirittura inviare e stampare il DNA di un organismo alieno scoperto in un altro pianeta, e riprodurre tale organismo in laboratorio, sulla Terra.

Torniamo con i piedi…per terra. E scansiamo subito un equivoco. Questo articolo non è affatto contrario alla ricerca scientifica e biotecnologica. Non adotta logiche decresciste o reazionarie. Un utilizzo mirato e sapiente delle biotecnologie in ambito medico, industriale, ambientale ed energetico può avere grandissimi impatti positivi nel curare malattie oggi incurabili, eliminare la sofferenza legata alle malattie genetiche, migliorare la qualità della nostra vita, contribuire positivamente all’ambiente. Quello che intendo affermare è che non è ammissibile una ricerca scientifica slegata da considerazioni etiche, nel senso proprio del termine “etico”, ovvero “costume”, “consuetudine sociale”, “comportamento”. Non è cioè ammissibile una ricerca scientifica che sia slegata da un’idea generale di società, di collettività, di bene comune. E’ dentro tali categorie che si deve scegliere, ad esempio, se sia lecito sperimentare ed utilizzare sementi transgeniche che vanno ad introdursi dentro la catena biologica ed alimentare.

E se l’etica, in senso kantiano, non è teleologica, non è cioè legata alle conseguenze finali dell’azione, ma è a-priori ed assoluta, essa allora dovrà discendere da idee generali su che cosa sia la vita e che cosa sia l’uomo. Parafrasando Levi, verrebbe da chiedersi “se è questo un uomo”, considerato alla stregua di un insieme di pezzi genetici combinabili o sostituibili, e se la sua natura, e quindi più in generale la natura della vita, sia semplicemente un insieme di led, attivabili o disattivabili a piacere, ristrutturabili a piacere. Come dice Monsignor Carlo Rocchetta, “Brevettare le sequenze geniche significa brevettare organismi viventi, e brevettare organismi viventi è brevettare la vita, con il rischio di ridurla alla fine ad un manufatto, a un qualcosa che è prodotto dall’uomo, e perciò commerciabile come ogni altro oggetto di consumo. È legittimo tutto questo?”

Questo è il punto sul quale dobbiamo ripiegarci.


Le sfide aperte del concetto di vita

Quali sfide, allo scienziato, vengono poste dal confrontarsi con il concetto di vita? La definizione scientifica della vita organica c’è già, ed è pienamente soddisfacente per finalità di ricerca scientifica. Deriva, in larga misura dalle speculazioni del grande fisico Erwin Schroedinger.

Erwin Schroedinger

Erwin Schroedinger

Un sistema vivente, in base a questa definizione, che risale al 1944, è quel sistema che mantiene un “disequilibrio statico” rispetto alla seconda legge della termodinamica che, come è noto, implica che un sistema isolato accresca la sua entropia in funzione del passare del tempo. Un sistema vivente, invece, non accresce la sua entropia, rimanendo, fino alla sua morte, in disequilibrio stazionario, perché sostituisce l’energia che perde alimentandosi con energia esterna (“entropia negativa”, secondo la definizione di Schroedinger). Questo “steady state” presuppone un ordine interno di carattere informativo, perché è questo ordine informativo che contrasta la crescita dell’entropia, che per definizione è disordine. Ecco spiegato perché la vita organica (cioè basata su una qualche associazione interna di carbonio a livello molecolare) ha bisogno di un codice genetico, cioè, in ultima analisi, di un codice informativo ordinato. Tale ordine informativo interno deve potersi, parzialmente, trasmettere da un sistema vivente ad un altro, in parte modificandosi per via dell’evoluzione, perché costituisce la parte immanente allo stesso concetto di vita. Quindi il sistema vivente deve sapersi riprodurre, in modo da trasmettere ad un nuovo esemplare il suo patrimonio informativo. Ecco perché un virus non è una forma di vita, perché, seppur dotato di un codice genetico a DNA o a RNA, e seppur in grado di riprodursi, ma non autonomamente rispetto all’organismo ospite, non assimila energia esterna, se non tramite l’organismo ospite (gli stessi mimivirus, che forse potrebbero rappresentare l’anello di congiunzione con i procarioti, non riescono a fare autonomamente la sintesi proteica e i processi energetici).

Da un punto di vista biologico, fisico, chimico, tale definizione di vita è pienamente soddisfacente. Ma lo è dal punto di vista di una disamina completa del concetto di vita? Lo stesso Schroedinger è costretto ad abbandonare il piano meramente materiale, quando afferma che “la mia vita cosciente è connessa alla natura e al funzionamento del mio organismo (soma), e in particolare al sistema nervoso centrale; questi sono d’altronde in diretta relazione causale e genetica con la natura e il funzionamento d’altri organismi precedentemente esistiti (…). Proprio la conformazione di quello che io chiamo il mio Io cosciente è nella sua essenza frutto diretto di avvenimenti ancestrali, ma non esclusivamente e non principalmente dei miei concreti predecessori” (La Mia Visione del Mondo, 1960). Risuona chiaramente il concetto filosofico dell’Unus Mundus, una realtà unificante, che prescinde e supera il singolo, e la sua coscienza individuale, e che tutto avvolge, tanto che, affermerà l’alchimista cinquecentesco Gerhard Dorn, è Dio ad aver bisogno di redenzione, non l’uomo che, di per sé, non esiste se non dentro una realtà unificante di ordine superiore.

Possiamo accedere a questa teoria, che di fatto unifica il corpo e lo spirito? Jung, che in definitiva parifica l’anima universale all’idea di una psiche presente ovunque nel mondo, come un pneuma vitale che lo permea, afferma che “la psiche non può essere totalmente altro dalla materia; altrimenti come potrebbe muoverla? E la materia non può essere totalmente estranea alla psiche; come potrebbe altrimenti produrla? Il mondo di psiche e materia è il medesimo e l’una partecipa dell’altra, altrimenti l’interazione sarebbe impossibile.” (Aion, 1950). La fisica ci dice che, in definitiva, alla radice della materia vi è l’energia. Due formule semplicissime bastano a tal fine: la prima è la notissima formula di base della relatività, per la quale e = mc2. Di fatto significa che, al netto del fattore costante di conversione (c2, il quadrato della velocità della luce) materia ed energia sono la stessa cosa, e che la materia rappresenta una quantità di energia immensamente superiore alla sua massa. La seconda formula è la definizione termodinamica dell’entropia, per cui dS = d Qrev/T, ovvero la variazione di entropia S è pari al rapporto fra la variazione di calore ceduta in un dato passaggio di stato di un sistema (Qrev) e la temperatura T in cui avviene questo passaggio di stato. Ciò significa che in un passaggio di un corpo da uno stato all’altro, l’energia di questo corpo non si distrugge, ma una parte di questa energia si disperde, per cui in un sistema la quantità totale di energia (quindi la materia) cambia, in parte diventa qualcosa di non riutilizzabile fisicamente (va in entropia) ma non si distrugge mai, quando passa da uno stato all’altro. Quindi la materia non è altro che energia molto concentrata, e l’energia non si distrugge mai, quando subisce un cambiamento di stato.

Se si supera la divaricazione fra materia ed energia, fra corpo ed anima, che in fondo è il portato dell’educazione cattolica, si supera anche un riduzionismo materialistico della concezione di vita, che ci aiuta, e molto, a respingere la commercializzazione della stessa, che Venter e i suoi colleghi ci vogliono propinare. Forse il miglior interprete di un riduzionismo intelligente è il neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux. I suoi esperimenti hanno contribuito in modo enorme ad un progresso complessivo del funzionamento del cervello, aiutandoci a localizzare l’area, quindi la base biochimica, dei ricordi e della coscienza, riducendola in termini di epifenomeno neurobiochimico.

Nel modello completo di funzionamento cerebrale che Changeux ricostruisce in modo chiarissimo, anche per un profano, il neurone, grazie alla separazione della sua membrana, scambia atomi di sodio e di potassio, generando elettricità, tramite un enzima-pompa, l’ATP. Il neurone agisce da pila elettrica e da oscillatore, emanando ondate di impulsi elettrici tramite i nervi e le connessioni cerebrali, attivando i processi mentali coscienti, ed anche quelli inconsci (quando dormiamo e sogniamo, l’attività elettrica cerebrale è molto intensa).

Sappiamo perfettamente che la coscienza ed il comportamento sono gravemente modificati da danni cerebrali. In particolare, la ricerca criminologica ci spiega che lesioni al lobo frontale stimolano l’aggressività e l’incapacità di formulare pensieri logici di fronte a stimoli ambientali, lesioni al lobo temporale pregiudicano memoria ed affettività, lesioni all’amigdala provocano difficoltà a gestire la paura e distorcono le emozioni. Numerosi serial killer psicopatici presentano lesioni cerebrali, o hanno una storia di ferite o malfunzionamenti dell’apparato neuropsichico.

Quindi la base organica della coscienza è un dato scientificamente inoppugnabile, così come lo è la sua natura di epifenomeno di processi biochimici e bioelettrici che avvengono nel cervello e nel sistema nervoso. Il che, però, è del tutto coerente con il concetto di fondo dell’Unus Mundus, di una identità di fondo fra energia, materia e spirito, in manifestazioni esterne evidentemente diverse, ma non intrinsecamente separate.

brain


La coscienza e la vita

D’altra parte, lo stesso riduzionismo di Changeux dice cose molto interessanti. Ad esempio, conversando con il filosofo Paul Ricoeur nel bellissimo libro “What makes us think?”, sostiene la tesi, tipica degli empiriocriticisti, secondo la quale il cervello è un sistema proiettivo, che proietta continuamente le sue ipotesi sul mondo esterno, dando un significato a ciò che i sensi percepiscono, arrivando persino, a volte, a dare significato anche a ciò che non ha significato, come nel caso di superstizioni magiche o religiose. In altri termini, sembrano esservi delle rappresentazioni cerebrali “precedenti” all’esperienza diretta del mondo, che vengono messe dialetticamente in confronto con quest’ultima, dandole un significato, in realtà già presente a monte nelle rappresentazioni intrapsichiche, e che forse potrebbero, con qualche forzatura, assimilarsi agli archetipi dell’inconscio collettivo della teoria junghiana.

Questo modello inficia alla base la possibilità che il cervello umano funzioni come l’intelligenza artificiale, che invece è basata su un più semplice modello di tipo input-output, nel quale non vi è una sedimentazione di significati “innati”. Ed è una conclusione estremamente importante, perché significa che l’intelligenza artificiale non potrà mai replicare quella umana, che c’è un “quid”, che rende umana la coscienza, che l’intelligenza sintetica non può possedere. D’altra parte, è possibile obiettare a tale considerazione che le intelligenze artificiali potranno, in futuro, incorporare funzioni di auto-apprendimento, con software auto-didattici in grado di incorporare nella memoria sintetica ogni nuova esperienza, non prevista ex ante dai programmatori, ed in base ad algoritmi interni, in grado anche di fornire delle regole di comportamento nuove, da adottare a fronte di tali eventi, quando si dovessero ripetere. In questo modo, l’intelligenza artificiale arriverebbe, progressivamente, ad incorporare un set di significati preesistenti, come quelli del cervello umano.

Interviene però un teorema fondamentale della logica matematica, ovvero il primo teorema di Gödel (1931). Detto teorema, in parole semplici ma chiare, afferma che in ogni sistema matematico formalmente coerente (cioè dotato della proprietà secondo cui i teoremi possono essere sviluppati a partire dall’insieme degli assiomi alla base del sistema stesso) ci sarà sempre almeno una proposizione sintatticamente corretta che non potrà essere né dimostrata né confutata all’interno del sistema stesso. Il corollario è che solo i sistemi inconsistenti (cioè i sistemi affetti da assiomi iniziali in contraddizione l’uno con l’altro) possono dimostrare qualsiasi affermazione. Il teorema di Gödel ci fornisce il limite estremo insuperabile dell’intelligenza artificiale. Il sistema informatico o la rete neuronale che rappresentano la base dell’intelligenza artificiale funzionano sulla base di algoritmi, sono cioè sistemi matematici coerenti, costruiti a partire da un set di assiomi, che sviluppano da questi assiomi regole logicamente coerenti. Tali sistemi sono quindi intrinsecamente limitati dal fatto che incontreranno sempre proposizioni che non saranno in grado di elaborare, e che non potranno quindi incorporare nella loro base cognitiva e comportamentale. Ciò infatti esclude a priori la possibilità che le macchine possano un giorno acquisire la coscienza del proprio Io, ovvero la consapevolezza della propria esistenza e quindi del proprio libero arbitrio. Poiché la macchina opera con un sistema di regole, cioè con un sistema formale coerente e consistente, essa non è in grado di dimostrare la veridicità dell’affermazione “siccome opero, allora esisto, e quindi sono libera di fare della mia esistenza ciò che voglio”, perché il suo sistema coerente impedisce di formulare un algoritmo che neghi alcune delle regole di funzionamento della macchina. Noi umani, ad esempio, possiamo sempre essere liberi di negare la validità di un comportamento derivante da un apprendimento impartitoci durante la nostra infanzia. La macchina non può negare la validità di una delle sue regole comportamentali inserite nel suo software o nella sua rete neuronale, perché ciò equivarrebbe a privare di coerenza (e quindi di validità funzionale) il suo sistema formale di intelligenza.

La coscienza potrebbe quindi avere qualcosa di sfuggente, di “umano”, non replicabile, non costruibile a priori in forma sintetica? E ammesso che ci sia, lo possiamo chiamare anima personale? Si. La possiamo chiamare coscienza individuale? Anche. Qualcosa che si esprime su una base organica di meccanismi biochimici, che ha quindi base materiale, e dunque energetica (perché fra le due non vi è differenza, se non esteriore) e che quindi può cambiare stato, ma non disperdersi insieme alla disgregazione dell’ordine dell’organismo vivente dopo la sua morte, che forse, per via della sua conseguente caduta in entropia, può perdere i suoi legami interni di percezione, analisi, attribuzione di significato e determinazione di una risposta ai vari livelli (fisico, emotivo, intellettuale, ecc.)? E che quindi, forse, spingendoci un po’ più in là con l’immaginazione, diventi una sorta di coscienza a circuito chiuso, autoriflettente ed eternamente ripiegata a rimuginare sui significati preconsci acquisiti in vita (dall’osservazione dei suoi sogni e di una sua esperienza pre-morte, Jung ipotizzò che la vita serva ad assimilare esperienze, nozioni e significati, cioè il substrato di rappresentazioni a-priori, poiché l’anima dopo la morte non apprende più niente, ed in qualche modo si limita a riflettere eternamente su tali rappresentazioni)? Sono tutte domande ovviamente a cui nessuno ha una risposta, perché travalicano il campo della scienza, e finiscono nella fede. Ma, sulla base degli studi di Changeux, possiamo dire che la coscienza umana non adotta il metodo input/output dell’intelligenza informatica e cibernetica. E possiamo ritenere che la vita e la coscienza non si riducano unicamente ad un patchwork di sequenze di DNA liberamente ricombinabili in modo da fornire ad un frustrato cliente il carattere che vuole, assortito da un catalogo (della serie: “vuoi il carattere coraggioso di Arnold Schwarzenegger? Oppure il carattere sognante ed introverso di un grande poeta romantico? Oppure potresti gradire la personalità di Rodolfo Valentino”).

Persino le lesioni a determinate parti del cervello possono portare ad esiti diversi, cioè ad avere individui più aggressivi, oppure no, in funzione di elementi psicologici, educativi e di ambiente sociale in cui i diversi individui sono immersi. Persino lo studio psichiatrico delle schizofrenie suggerisce, stante l’enorme variabilità delle combinazioni sintomatologiche, che si sia in presenza di una famiglia di psicosi, e non di una malattia specifica. E sebbene la radice genetica della schizofrenia sia stata molto studiata, anche per il tramite di fattori ereditari, oltre che di correlazioni statisticamente significative, ad esempio con fenomeni di delezione del cromosoma 22, così come sia ben documentata la sua radice organica (si riscontrano in almeno la metà dei casi differenze organiche nel cervello dei pazienti, così come determinate patologie subite allo stato fetale favoriscono l’insorgenza della malattia) essa si sviluppa, generalmente, in un ben preciso “set” di fattori sociali ed ambientali. Una ricerca del 2006 ha stabilito che circa due terzi dei pazienti con schizofrenia avevano sperimentato eventi di violenza fisica e/o sessuale durante la loro infanzia [3]. Altre ricerche hanno evidenziato robuste correlazioni con fattori come l’isolamento sociale e le avversità sociali dovute all’immigrazione, la discriminazione razziale, problematiche familiari, la disoccupazione e condizioni abitative precarie (Picchioni, Murray, 2007; Selten, Cantor-Graae, Kahn, 2007).

Diventa allora molto difficilmente argomentabile, di fronte a tali evidenze, che la coscienza umana non abbia una componente individuale immutabile, non ricostruibile/modificabile a piacere in laboratorio, su una base puramente materiale. Anche supponendo di aver perfettamente delimitato la base genetica ed organica della schizofrenia, o di qualsiasi altro disturbo psicotico, così come anche dei comportamenti umani “normali”, rimarrebbe da spiegare il grande mistero sul “come” l’ambiente familiare e sociale, l’educazione, il vissuto personale, inibiscano o incentivino, a parità di condizioni genetiche ed organiche, lo sviluppo di una determinata personalità, sia essa psicotica o clinicamente sana.

Qual è la fonte, l’origine del déclic che porta ad uno sviluppo della personalità di un certo tipo?

Solo la metà dei casi di schizofrenia presentano modifiche organiche al cervello. Le recentissime scoperte di alcuni “geni della schizofrenia”, cioè di alcuni elementi del genoma che ,se alterati, favoriscono statisticamente l’insorgere della malattia, al netto dei fattori sociali ed ambientali, lascia intatti molti interrogativi. Fargnoli et al. (2011) evidenziano come “l’ipotesi dell’origine genetica della schizofrenia non trova conferme definitive né negli studi epidemiologici condotti su popolazioni di gemelli e figli adottivi, né negli studi di biologia molecolare. Anche dagli studi di Genome wide association, a tutt’oggi la metodica più promettente, è emerso che benché siano numerosi i geni candidati a determinare una suscettibilità genetica alla schizofrenia, nessuno di questi ha mostrato fattori predittivi elevati e anche volendo trascurare questo dato epidemiologico è emerso che la maggior parte dei genotipi mutati non è in grado di fornire un contributo preponderante nella patogenesi della malattia. Si tratta infatti di geni cosiddetti “a piccolo effetto” codificanti cioè per molecole il cui ruolo è sottoposto a meccanismi regolatori estremamente complessi. L’individuazione della relazione fra alterazione molecolare e malattia risulta pertanto macchinosa e troppo spesso del tutto aspecifica essendo tali mutazioni riscontrate anche nel contesto di malattie neurologiche. I punti deboli di tali ricerche riguardano non solo gli aspetti più strettamente metodologici delle indagini statistiche, ma soprattutto i criteri diagnostici in base ai quali le popolazioni indagate sono selezionate. La diagnosi di schizofrenia effettuata con i criteri diagnostici del DSM-IV è stata ripetutamente criticata perché ad essa manca un fondamento psicopatologico, un criterio che consenta di individuare il cosiddetto nucleo generatore della psicosi”.

Inoltre, uomini geniali come Martin Heidegger o il matematico John Nash, vincitore del Premio Nobel per l’Economia del 1984 per le sue ricerche sulla teoria dei giochi, erano o sono affetti da schizofrenia diagnosticata. Nonostante ciò, la psicosi non ha impedito loro di effettuare ricerche molto importanti e complesse, o di arrivare a realizzazioni creative molto elevate. E ciò sembra destituire di fondamento l’ipotesi di un “deficit cognitivo” associato a determinate aberrazioni, malfunzionamenti o lesioni neurocerebrali. Vi è di più: il nostro John Nash guarisce dalla sua schizofrenia da solo, dopo il 1970, smettendo di ingerire i farmaci psicotropi prescrittigli, semplicemente, come dirà sua moglie, grazie al fatto di poter “vivere una vita tranquilla”, e di essere accettato dentro una comunità terapeutica in cui la sua malattia non era considerata una stranezza inquietante, degna di isolamento, ma un fatto normale ed accettato. La storia dell’infanzia del nostro genio della teoria dei giochi è invece una storia di solitudine, isolamento dagli altri.


L’ingegneria genetica e la vita artificiale

Allora, è possibile accettare la tesi riduzionista dei due fondatori della genetica, ovvero Watson e Crick, secondo cui “la caratterizzazione chimico-fisica di un sistema biologico è sufficiente a spiegarne le proprietà ed il comportamento, ovvero che i livelli di organizzazione al disopra di quello molecolare diventano irrilevanti o ridondanti”?

Questo paradigma riduzionistico, nato con la nascita stessa della genetica, che ne ha condizionato tutta la storia, fino a pervenire alle tesi di Craig Venter, secondo le quali è possibile manipolare la coscienza arrangiando un po’ il genoma, per cui non esiste una “umanità per sé”, è la base sulla quale gli stessi Watson e Crick hanno costruito la cosiddetta “legge aurea” della genetica. Secondo tale legge, semplice e lineare, i geni contenuti nel DNA trascrivono l’informazione in una molecola più semplice, di RNA, che la trasporta fin ad una struttura della cellula che è responsabile della produzione di un determinato enzima, e che si chiama ribosoma. Gli enzimi prodotti sulla base di questa sollecitazione assemblano una sequenza di aminoacidi, che sono il “mattone” costitutivo delle proteine. Queste ultime, una volta prodotte, vanno a costituire il tratto biologico ed il comportamento caratteristico di ciascuno di noi.

In realtà, questa legge aurea, che per di più è considerata, inizialmente, a direzione unica (si va dal DNA all’RNA, agli enzimi, agli aminoacidi, alle proteine, ed infine alle caratteristiche fisiche e comportamentali), è clamorosamente smentita dalle scoperte successive, che ad esempio isolano i retrovirus, dei virus a filamento di RNA, che sono caratterizzati dalla trascrittasi inversa, cioè da un flusso di informazioni che non codifica l’RNA dal DNA, ma fa il percorso inverso. Più in generale, come sottolinea il biologo statunitense Richard Strohman, “l’illegittima estensione di un paradigma genetico dal livello relativamente semplice della codificazione e decodificazione genetica a quello complesso del funzionamento cellulare rappresenta un errore epistemologico di prima grandezza”.

In altri termini, la genetica tradizionale, e qui vi è il suo grande, enorme limite, non tiene conto della complessità. Come ci dice F. Capra, negli organismi eucarioti la semplice corrispondenza “un gene, una proteina”, tipica della legge aurea, non esiste più. Negli organismi superiori ai semplici batteri, infatti, i geni che codificano le proteine non sono più in sequenza continua, ma frammentati, inframmezzati da lunghe ripetitive sequenze che non codificano niente, e la cui funzione ci è oscura. Le sequenze codificanti possono dunque essere ricombinate in modi diversi, e dare luogo ad una pluralità di proteine diverse, ed inoltre, tramite una molteplicità di meccanismi, la cellula può modificare la proteina prodotta, per renderla funzionale ad uno scopo preciso piuttosto che ad un altro. Inoltre, pur essendo il genoma complessivo identico per tutte le cellule, esse sono altamente differenziate: abbiamo cellule muscolari, epatiche, nervose, ematiche, ecc. Quindi, pur avendo lo stesso genoma, le diverse categorie di cellule lo attivano con schemi diversi, che lo differenziano.

Tra l’altro, pur avendo un patrimonio genetico molto simile, per non dire quasi identico, l’uomo, lo scimpanzé, il topo ed il maiale sono animali molto diversi fra loro.

Il colmo è che il meccanismo di attivazione del genoma che specializza le cellule e differenzia moltissimo animali con un patrimonio genetico di base quasi identico, non è nemmeno di tipo genetico, ma risiede nella rete epigenetica della molecola, nella quale sono coinvolte numerose strutture della cellula, ma anche ormoni, reti di enzimi e molecole complesse, formate da una pluralità di proteine semplici, come la cromatina. Tutte queste componenti strutturali della cellula influenzano l’attivazione ed il funzionamento dei geni con azioni non lineari, dove il feed-back è la regola e non l’eccezione.

Come quindi ci avvertono i genetisti più preparati, la questione non può risolversi nei termini semplicistici con i quali la pone Venter: “datemi la sequenza genetica di un batterio o di un virus responsabili di una malattia, ed io realizzerò un controvirus che li distrugga”, oppure “datemi la sequenza genetica di una cellula cancerogena, ed io la modificherò, in modo da evitare che si duplichi”. Nel caso di malattie alle coronarie, ad esempio, sono stati identificati più di 100 geni che a qualche titolo hanno una responsabilità, e che agiscono dentro una complessa rete epigenetica cellulare, piena di retroazioni ed effetti non lineari. Lo stesso vale per molte malattie genetiche (nella distrofia muscolare, agisce un solo gene, che però codifica una proteina molto complessa, costituita da 1.500 aminoacidi, e tale gene può mutare in circa 400 forme diverse, in base ai meccanismi di attivazione della rete cellulare, e una sola di queste mutazioni è responsabile della malattia). Lo stesso vale per la schizofrenia, malattia in cui i geni responsabili vengono attivati in forme molto complesse dalla rete cellulare, forme che sfuggono al campo di conoscenza della genetica in senso stretto, e che hanno a che vedere con complessi fenomeni chimici e biologici intracellulari, ed intercellulari.

Questa complessità, ancora molto poco esplorata, potrebbe forse essere, almeno in parte, individualizzata, cioè assume forme diverse da individuo ad individuo, anche all’interno di una specifica specie, e può, in termini scientifici, rappresentare gran parte della diversità biologica e comportamentale che osserviamo da uomo ad uomo. Cioè quell’umanità che ci è propria, e che sfugge ad un semplice esame del DNA individuale, che anch’esso presenta differenze distintive, minime ma misurabili, da uomo ad uomo.

In sintesi, dunque, ecco le sfide principali che il concetto di vita pone allo scienziato:

– Potrebbe non esservi soluzione di discontinuità fra materia ed energia, e potremmo immaginare che l’energia si conservi, sia pur in forme diverse ed entropiche, quindi non ordinate, dopo un passaggio di stato fondamentale;

– La vita, in un certo senso, per preservare il suo disequilibrio stazionario, viola il secondo principio della termodinamica, per cui è dotata di funzioni omeostatiche che contraddicono il principio secondo il quale il funzionamento di un sistema accresce la sua entropia nel tempo. Non esiste alcuna macchina che possa violare il secondo principio della termodinamica, in quanto tale principio è generale, ed è matematicamente dimostrabile;

– Quanto sopra impedisce di poter considerare la vita come una ”macchina anatomica”, fabbricabile in laboratorio. Qualsiasi macchina, infatti, produrrebbe nel tempo un aumento dell’entropia, esattamente ciò che la vita non fa;

– La vita funziona in base ad un proprio codice informativo, costituito dal DNA, ma nelle forme di vita più complesse del regno degli eucarioti, cui apparteniamo anche noi uomini, sembra impossibile stabilire una relazione diretta fra codice genetico e tratto biologico e comportamentale, in quanto il funzionamento del patrimonio genetico è intermediato da una rete molto complessa di azioni e reazioni a livello cellulare, rispetto alle quali abbiamo ancora una conoscenza molto precaria e modesta; ciò vale a relativizzare moltissimo anche la possibilità di curare le malattie genetiche e le altre malattie, del corpo e della mente, soltanto mediante interventi di ingegneria genetica, che non tengano conto della complessità della rete epigenetica cellulare;

– Analizzando le forme di vita complesse e dotate di coscienza, ed in particolare il funzionamento psichico dell’uomo, esso non sembra essere meramente proiettivo, ma sembra invece procedere da significati preesistenti alla percezione, acquisiti ereditariamente, che in gergo junghiano potremmo identificare con gli archetipi dell’inconscio collettivo, e che di fatto rendono impossibile costruire, con gli strumenti “input-output” tipici dell’intelligenza informatica, forme di coscienza sintetica analoghe a quelle umane;

– Peraltro, il primo teorema di Goedel impedisce all’intelligenza artificiale, anche quando dotata di strumenti di auto-apprendimento, di andare oltre un funzionamento meramente algoritmico, come è invece quello della mente umana;

– Non appare possibile, alla luce dell’esperienza psichiatrica e psicoanalitica, spiegare il comportamento e la personalità umana, sia nell’ambito della normalità che della psicosi, senza passare per fattori sociali, ambientali e culturali, che possono, forse, lasciare un segno organico nel sistema nervoso e nel cervello, ma che, ovviamente, nella loro molteplice diversità ed individualità non sono replicabili in laboratorio. Poiché una parte fondamentale della coscienza è determinata da fattori ambientali, e tali fattori non sono interamente riproducibili in laboratorio, non è possibile costruire in laboratorio una coscienza umana.

Quelle sopra sintetizzate sono le sfide cui dovrebbe rispondere un programma di ricerca volto a creare la vita ex nihilo. Non ho l’intenzione di minimizzare gli straordinari progressi scientifici che i prodotti della ricerca di Venter hanno messo in campo, e tantomeno le grandi prospettive che si schiudono tramite tali risultati. Però chiederei molta più cautela nell’affermare, come fa lui, che “la vita alla fine è abitata da macchine biologiche guidate dal DNA. Tutte le cellule viventi girano con questo ‘sistema operativo’ che dirige centinaia di migliaia di robot chiamati proteine. Disegneremo e ridisegneremo gli organismi”: oppure che “dato il carattere digitale dell’informazione, saremo in grado di ‘teletrasportare’ questi dati ovunque in tempo reale, per assemblare a distanza proteine, virus, cellule viventi”.

Mettiamo un po’ di ordine. Cosa ha fatto Venter, con la sua società, nel 2010? Ce lo racconta il suo ricercatore-capo, Hamilton Smith: “abbiamo sequenziato in maniera accurata il genoma del Mycoplasma mycoides (un batterio che vive nei polmoni di alcuni ruminanti, causando malattie polmonari, Nda), che consiste di un po’ più di un milione di coppie di basi, e l’ abbiamo messo in una banca dati. Abbiamo poi ridisegnato al computer il genoma, cancellando alcuni geni, aggiungendone altri, e inserendo delle watermarks, “filigrane”. Questo per far sì che la cellula sintetica non fosse esattamente uguale a quella originaria (le filigrane, che non fanno parte del genoma del batterio, sono triplette di nucleotidi, dette codoni, riordinate nel DNA batterico in un ordine tale da rappresentare una frase o un messaggio, e rappresentano il “trademark”, la “firma d’autore”, che Venter ha voluto metter per far riconoscere il DNA così rielaborato come frutto della sua società, Nda). A questo punto abbiamo chiesto alla Blue Heron Biotechnology di sintetizzare il nostro genoma. E loro ce l’ hanno restituito suddiviso in 1078 pezzi, ciascuno dei quali era lungo un migliaio di basi e si sovrapponeva al successivo o al precedente per 80 basi. Abbiamo dovuto assemblarlo in un’ unica catena. Ci siamo accorti che, mettendo i vari pezzi dentro una cellula di lievito, l’ assemblaggio avveniva automaticamente. In altre parole, non l’ abbiamo dovuto fare noi, e ce lo siamo fatti fare dal lievito. Abbiamo impiantato questo DNA, originario del Mycoplasma Mycoides, in un Mycoplasma Capricolum (cioè un altro batterio, appartenente alla stessa specie, quindi caratterizzato dal più stretto livello biologico di parentela esistente, tanto da poter ottenere una prole feconda in caso di incrocio, un po’ come l’Homo Sapiens e l’Uomo di Neanderthal, NdA). Abbiamo così ottenuto due genomi, quello originale e quello impiantato, che vengono segregati nella divisione cellulare, ed eliminato le cellule col genoma originale mediante un antibiotico. Le cellule col genoma originale sono eliminate dall’ antibiotico, e quelle col genoma sintetico sopravvivono. Alla fine, rimangono solo quelle. Come verifica finale, abbiamo sequenziato il loro genoma, e controllato che fosse effettivamente quello che ci avevamo messo noi. Aveva tutti i cambiamenti che avevamo fatto noi, comprese le filigrane. Ma c’ erano state delle mutazioni. Una era stata prodotta dal lievito, nel processo di incollamento dei pezzi. Altre otto erano avvenute nel processo di copiatura, ovviamente nessuna letale”.

Il Mycoplasma mycoides di partenza

Il Mycoplasma mycoides di partenza

Il Mycoplasma Capricolum usato come veicolo

Il Mycoplasma Capricolum usato come veicolo

L’ibrido che ne è risultato

L’ibrido che ne è risultato

 

Sostanzialmente, quindi, un DNA di un organismo, riprodotto al computer, e modificato aggiungendovi e togliendovi geni “non essenziali”, cioè geni che non influiscono sul processo vitale (un po’ come i geni inutili del genoma umano, di cui ho parlato prima) e aggiungendovi basi di DNA di riconoscimento (le filigrane), è stato inserito in un organismo biologicamente e zoologicamente molto simile a quello di partenza, ottenendo un organismo ibrido, in grado di vivere e di riprodursi.

Naturalmente non è stata creata la vita ex nihilo. Il termine di “vita sintetica” attribuito a tale esperimento è fuorviante. E’ stato preso un organismo vivente già esistente in natura, il suo patrimonio informativo è stato modificato, limitandosi però soltanto a toccare geni inattivi e privi di una funzione vitale, o a riordinare in un ordine diverso altri geni (per costruire la filigrana), ed è stato inserito dentro un altro organismo vivente, creando un ibrido. Non c’è assolutamente niente di sconvolgente, ma in fondo una evoluzione, in ambiente controllato ed in laboratorio, di fenomeni che si verificano anche in natura. In natura un processo simile dà luogo all’evoluzione dei batteri.

Poiché i batteri non si riproducono per via sessuale, ma per divisione, la loro evoluzione è garantita da due meccanismi principali: quello delle mutazioni e quello delle ricombinazioni. In particolare, nel meccanismo della ricombinazione, un batterio donatore trasferisce delle sequenze nucleotidiche al batterio ricevente, che le integra nel proprio genoma. Tutto ciò porta all’acquisizione di nuovi caratteri, come la capsula, la capacità di produrre particolari tossine, fattori di resistenza agli antibiotici ecc. Cioè da luogo ad un nuovo batterio.

Tra l’altro, tutto l‘esperimento ha avuto luogo partendo da due organismi viventi preesistenti, e non da materiale non vivente, elaborato in modo tale da dar luogo alla vita. Quindi non si è creata ex nihilo la vita. Come spiega onestamente lo stesso Smith, con onestà intellettuale “abbiamo dovuto accontentarci di usare il repertorio della natura. Ci vorrà molto tempo, prima che si riesca a fare un gene veramente artificiale. Non siamo ancora così intelligenti da progettare una proteina da soli. Per ora solo la natura e l’evoluzione lo sanno fare”.

Di conseguenza, va molto qualificata, per poterla considerare corretta, l’affermazione di Venter, a commento del suo esperimento, per cui “è abbastanza sorprendente vedere, quando sostituisci il “software” Dna nella cellula, come questa immediatamente inizi a leggere il nuovo software, e inizi a produrre un nuovo set di proteine; in breve tempo tutte le caratteristiche della prima specie scompaiono e iniziano a emergere le peculiarità della nuova cellula batterica. Quando guardiamo alle forme di vita, tendiamo a vederle come entità fisse. Ma questa ricerca mostra come in realtà siano dinamiche, come cambino da un istante all’altro. La vita è principalmente il risultato di un software, di un processo informatico”. Innanzitutto parliamo di vita batterica, che ha, ovviamente, una coscienza, in quanto essa è coessenziale alla vita (come dirò meglio tra breve), molto diversa da quella umana. Non avendo cervello e sistema nervoso, i batteri hanno una coscienza che muove da linee evolutive ed ereditarie, e che appare ampiamente “collettivizzata”, condivisa cioè all’interno dell’intera colonia batterica, e non individuale, come nel caso degli animali superiori. Inoltre, l’esperimento di Venter ha riguardato due batteri biologicamente molto simili tra loro (cfr. anche per un confronto visivo, le due immagini sopra riportate delle due sottospecie di mycoplasma utilizzate), appartenenti ad una medesima specie, con materiale genetico e biologico pressoché identico, quindi in larga misura “compatibile”. In questo contesto, ed esclusivamente in questo contesto, si può affermare, con una certa approssimazione al vero, che il DNA funziona come un software, che modifica il funzionamento del batterio. Peraltro un software non del tutto funzionante secondo i desiderata di chi lo programma, atteso che genera, sin da questo stadio così elementare e controllabile, mutazioni del tutto impreviste.

Ma in generale, ancora una volta, non c’è niente di sconvolgente: già in natura i batteri mutano, evolvono, cambiano, per processi già analizzati di mutazione e ricombinazione, che fanno cambiare il funzionamento delle nuove generazioni rispetto alle precedenti (ad es. si creano nuovi ceppi che iniziano a produrre sostanze chimiche, che li rendono immuni agli antibiotici). Questa forma non è altro che la forma con cui si sviluppa la coscienza di quelle forme di vita. E Venter non ha fatto altro che riprodurre questo sviluppo naturale in laboratorio. Il cambiamento della vita che Venter osserva non è altro che il frutto dell’evoluzione, che possiamo copiare, riprodurre ed in parte modificare (fino ad un certo punto: anche l’ibrido prodotto in laboratorio da Venter, ove rilasciato in natura, dovrebbe seguire le leggi naturali dell’evoluzione e della selezione della specie).

Le forme di vita più complesse, cui apparteniamo come uomini, possiedono, lo abbiamo già discusso lungamente, reti epigenetiche di funzionamento che di fatto costruiscono una coscienza che supera il semplice meccanismo di azione/reazione ad apprendimento ereditario, e l’aspetto meramente collettivo e non individuale, tipico della coscienza batterica. Per stadi superiori di complessità della vita, mi dispiace, la metafora del software genetico non funziona. Non è semplicemente vera.


Conclusioni

Il mistero della vita, il mistero profondo di essa, dunque, non è stato toccato in nessun modo. Gli esperimenti che tentano di riprodurre in laboratorio la vita, dalle sue condizioni iniziali, a partire dal pionieristico lavoro di Miller ed Urey del 1953, sinora non hanno condotto a nient’altro che alla produzione delle molecole, inanimate, che sono alla base della vita, ma che di per sé non sono vive: monomeri di aminoacidi, di adenina (un composto presente dentro gli acidi nucleici), membrane chiuse che ricordano quelle delle cellule. Il problema è che nessuno è in grado di aggregare questi elementi, di passare da monomeri ai polimeri, fino a strutture più complesse come la cellula. Ci manca cioè completamente la capacità di passare da molecole semplici e inanimate a cellule complesse e viventi. Non abbiamo la capacità di ricostruire la complessità e l’ordine interno, che differenzia un organismo vivente da qualsiasi altro sistema che, funzionando, produce entropia crescente. Dobbiamo convenire con ciò che Teilhard De Chardin chiama la legge di complessità e coscienza, ovvero, nelle sue parole, l’osservazione secondo cui “più un essere è complesso, in base alla nostra Scala di Complessità, più esso è centrato su se stesso e per questo diventa più consapevole. In altre parole, più elevato è il grado di complessità in un essere vivente, maggiore è la sua coscienza; e viceversa”. In altre parole, la complessità della vita, che alla scienza sfugge ancora, è legata in modo crescente allo sviluppo della coscienza, in modo tale per cui, per dirla con Bergson, la coscienza diviene coestensiva alla vita stessa.

Per terminare questa lunga riflessione, possiamo dunque dire che la vita è coscienza, nelle sue varie scale di complessità, da quella rudimentale di una colonia batterica a quella evoluta dell’uomo. E la coscienza non può essere costruita a partire dalla materia, perché, come ci avverte sempre Bergson, “la vita porta con sé qualcosa che ci allontana dalla materia bruta. In condizioni determinate, la materia si comporta in un modo determinato, niente di ciò che essa fa è imprevedibile (…) La materia è inerzia, geometria, necessità. Ma con la vita è apparso il movimento imprevedibile e libero. L’essere vivente sceglie o tende a scegliere”. Noi oggi sappiamo che persino i batteri più primordiali, simili alle primissime forme di vita sul nostro pianeta, pur essendo privi di cervello e sistema nervoso, hanno, entro certi limiti, la capacità di adattare le loro strategie di sopravvivenza, e mutare, in funzione dei parametri dell’ambiente in cui si trovano. Recenti scoperte hanno addirittura messo in evidenza sistemi chimici di comunicazione fra i batteri appartenenti a colonie. E ricordiamolo, a costo di essere ripetitivi: l’esperimento di Venter sui mycoplasma ha prodotto mutazioni impreviste, non controllabili dagli sperimentatori. Cioè ha creato un microrganismo ibrido le cui caratteristiche genetiche e biologiche non sono determinabili a priori al 100%, perché c’è quel quid di imprevedibilità che la vita stessa produce.

Se la vita è coscienza, che evolve con l’evolvere della complessità, e segna un momento radicale di discontinuità dalla pura materia, allora possiamo avere una ragionevole certezza, e direi anche una speranza, che non si potrà mai costruire la vita in laboratorio, e che non si potrà mai determinare sperimentalmente una coscienza. E che questo è il vero tesoro che ci separa da un monomero di aminoacidi o da una pietra. Qualcosa che va al di là della materia inerte, e che vola, potremmo dire, con le ali dell’anima.

E se così è, allora troviamo anche un limite a ciò che può fare il capitalismo nella sua evoluzione verso la conquista della biologia e della vita: può costruire sementi geneticamente modificate partendo da materiale genetico preesistente, con effetti potenzialmente disastrosi sull’ambiente e la vita umana; può, manipolando tale materiale, produrre nuovi principi attivi a fronte di nuove malattie, spesso indotte dal progresso; può modificare un genoma; potrà influenzare la coscienza degli uomini riprogettando gli elementi ambientali e culturali entro i quali essi vivono e crescono; ma non potrà mai creare ex nihilo una coscienza in provetta, in tutto e per tutto controllabile e parametrizzabile, non potrà mai creare, come nel racconto di Huxley, uomini programmati a priori per diventare piloti, piuttosto che funzionari di banca. In breve, non potrà mai riprodurre la vita, che resterà sempre un passo avanti ogni possibile programmazione, ogni possibile determinazione sperimentale, ogni possibile teoria che la spieghi.

E se così è, allora non possiamo più permetterci la privatizzazione della ricerca in ambiti così fondamentali come la genetica. Non possiamo pensare di brevettare la vita. Né di affidare la ricerca sulla vita a considerazioni meramente basate sul profitto. Se solo pensiamo che, per un soffio, non vi è stata l’appropriazione privatistica della sequenza dell’intero genoma umano, e le conseguenze che una simile privatizzazione avrebbe avuto sulla medicina, la farmaceutica, la salute umana, allora dobbiamo prendere pubblicamente e chiaramente posizione in difesa della ricerca pubblica, in questo campo.


Cenni bibliografici

Bauman Z. (2010), Vite che non possiamo permetterci, Laterza, Bari, 2010

Schrödinger E., La mia visione del mondo, a cura di B. Bertotti, Garzanti, Milano 1987

Jung C.G. (1950), Aion – Ricerche sul simbolismo del Se, in Opere, Vol. IX, Boringhieri, Torino 1982

Changeux J.P. (1983), L’Uomo Neuronale, Feltrinelli 1993

Changeux J.P., Ricoeur P. (2002) What Makes Us Think? A Neuroscientist and a Philosopher Argue about Ethics, Human Nature, and the Brain, Princeton University Press

Hammersley, Read (2006), “ Are child abuse and schizophrenia linked?”, in Newscientist, nr. 2556

Picchioni M., Murray R. (2007) “Schizophrenia”, in BMJ

Selten J.P., Cantor-Graae E., Kahn R.S. (2007), “Migration and schizophrenia”, in Current Opinion in Psychiatry (marzo 2007)

Fargnoli F., Belli S., Zanobini V., Bisconti P., Fargnoli D. (2011) “La schizofrenia è una malattia genetica? Considerazioni a margine di una lettera alla rivista Nature”, in http://domenicofargnoli.com/2012/11/23/la-schizofrenia-e-una-malattia-genetica-considerazioni-a- margine-di-una-lettera-alla-rivista-nature/

Capra F. (2002), Tra scienza e vita, BUR, 2009

Henri Bergson (1896), Materia e memoria, Laterza, Bari-Rona 1996

Ricci L. “L’era della vita artificiale ha avuto inizio?”, in Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2010


Note

1 World Bank
2 W. Saletan, Nbs, Aprile 2008
3 Hammersley-Read (2006), “ Are child abuse and schizophrenia linked?”, in Newscientist, nr. 2556.


6 commenti per “Il turbocapitalismo all’assalto dell’essenza della vita e dell’umanità

  1. fabriziaccio
    5 Giugno 2014 at 19:57

    Veramente un bel saggio, da un approccio epistemologico, il mio preferito.
    Avrei qui e lì delle annotazioni, e considerazioni, ma al di là di sfumature non sono lontano dalle sulle conclusioni.

    Ottimo.

  2. Roberto
    6 Giugno 2014 at 0:56

    Secondo me la biotecnologia riuscirà a produrre la vita artificiale solo quando sarà in grado di ricostruire entità biologiche complesse come quelle che già oggi esistono. Parafrasando sembra una competizione tra Uomo e Dio solo per poter dire: “Lo so fare pure io”. Ma non serve a niente o meglio, serve solo a chi ci specula, finanziariamente e politicamente, a detrimento del popolo. Sarebbe molto meglio se si limitassero a trovare una vera cura per il cancro senza ambizioni da Creatore. Che senso ha essere capaci di clonarci senza essere capaci di curarci?

  3. Alessandro Giuliani
    13 Giugno 2014 at 9:44

    Caro Riccardo grande articolo, complimenti ! Mi ha fatto poi molto piacere la tua citazione al vecchio Strohman che da trenta e più anni mette l’accento sul fatto che la riduzione della biologia al solo dato molecolare e informazionale è una sola.
    Infatti il punto è tutto qui: aldilà dei mega-investimenti, la biotecnologia semplicemente non funziona, il numero di nuovi farmaci immessi sul mercato è in caduta libera dagli anni ottanta e quei pochi che ancora si producono si riferiscono a ricettori scoperti negli anni 50:

    http://www.nature.com/nrd/journal/v5/n12/full/nrd2199.html

    La cosa ha che vedere con il concetto di rete e una conseguente spiegazione matematica,

    http://www.ingentaconnect.com/content/ben/cad/2011/00000007/00000003/art00006

    http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0014579305008811

    detta in parole povere, i singoli effettori che ‘colpiti’ (se bersagli farmacologici) o ‘modificati’ (se geni) che possano esitare in un effetto fenotipico macroscopico (insomma qualcosa di rilevante per il padrone del gene) sono una strettissima minoranza e probabilmente ce li siamo già tutti ‘giocati’ con i farmaci prodotti tra gli anni cinquanta e sessanta, ora abbiamo di fronte il campo incognito dei ‘farmaci di rete’, degli ‘effettori allosterici’ che comportano una scienza totalmente diversa e ancora di là da venire in termini di applicazione, questo tacitamente gli esperti lo sanno e se lo dicono da tempo, l’articolo che segue è proprio esplicito, dicendo,
    da un pulpito molto importante come la rivista BioEssays, basta investimenti in biotecnologia !

    http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/bies.20685/full

    Il punto è che a essere sballata (o perlomeno molto manchevole) è proprio l’idea di Schroedinger sulla vita che è un’idea del tutto immateriale e spiritualista (consona alla feroce astrattezza della meccanica quantistica) che assegna ‘il comando’ a una disincarnata ‘informazione’ dimenticandosi la materia.
    Detto in poche parole, se io ho due metri di molecola (tanto è lungo il DNA umano), impacchettato in uno spazio di pochi micron, non posso certo considerarlo come una macchina di Turing o una RAM comunque accessibile di un computer. Qui abbiamo un problema dell’ordine di tirar fuori l’Everest racchiuso in una pallina da golf e quindi prima di iniziare a chiaccherare di informazione, dobbiamo porci dei problemi seri e ancora largamente irrisolti) di folding/unfolding allo stato solido, di transizioni colloidale ecc. altrimenti siamo nella pura magia, ben lontani dalla scienza…in questo fisica teorica e biotecnologia fanfarona alla Venter sono pericolosamente vicine come con alcuni amici abbiamo provato a raccontare:

    http://www.hindawi.com/journals/tswj/2011/297124/abs/

    Detto questo il punto è che se da una parte potremmo stare tranquilli (chiacchere al vento e deliri), dall’altra lo siamo molto meno, per il perverso effetto delle menzogne in una società come la nostra. Ormai la finanza ha di molto superato la produzione in termini di ricchezza, i soldi arrivano ‘raccontando che si fa una cosa’ non facendola veramente, d’altra parte se le persone si convincono che ipotetici scienziati stregoni sono arbitri del loro destino, anche se non è vero, le conseguenze saranno lo stesso devastanti….
    Per questo caro Riccardo la nostra lotta è importante, ed estremamente importante è ripetere, ognuno con la sua particolare inclinazione e preferenza che, ora e sempre , il Re è nudo.

    • Riccardo Achilli
      14 Giugno 2014 at 11:14

      Caro Alessandro, premetto di non essere un biologo. Sono un economista e uno statistico, quindi, nonostante il fatto che tali temi mi appassionano e cerco di documentarmi il più possibile (a proposito: grazie dei link che mi hai mandato) non posso parlare con la competenza di un genetista. Credo che però siamo d’accordo sul punto fondamentale della questione: il DNA non è un insieme di informazioni in un codice informatico, come quelle di un computer, per cui, una volta decriptato il codice, si può modificare il tutto a piacere. La complessità incredibile dei processi epigenetici, che agiscono a livello cellulare (e che potrebbero addirittura agire in modo leggermente diverso da individuo ad individuo) mette in secondo piano la mera informazione genetica. Premetto di essere religioso, e quindi evidentemente ciò influenza il modo con cui guardo alla questione. Se accettiamo l’idea bergsoniana che la vita è coscienza, e quindi intimamente imprevedibile, perché la coscienza non cessa mai di autoriflettersi e modificare le sue scelte, allora possiamo dire che la complessità, e forse entro certi limiti l’unicità della catena dei processi epigenetici di ogni individuo impedirà ai “venteristi” di riprodurre la vita e la coscienza in laboratorio, e preserverà per sempre quel mistero che si annida dentro di noi, e che un cattolica chiamerebbe anima. Rimane però aperta una questione: se il capitalismo vede il nostro corpo, il nostro cervello, la nostra natura più intima ed unica come una merce qualsiasi, dimostra un profondo disprezzo per la stessa vita umana. Possiamo vivere dentro un sistema che disprezza la vita umana?

      • alessandro giuliani
        15 Giugno 2014 at 10:50

        Ciao Riccardo io sono un biologo che si occupa di modelli statistici e religioso proprio come te. Anche per me lo scenario è inumano ma credo anche che la scienza correttamente intesa (e qui la statistica ha un ruolo cruciale) sia un’arma per il bene

        Buona Domenica
        Alessandro

  4. jimmie
    30 Giugno 2014 at 3:55

    Molto interessante. Ma, “…La vita, in un certo senso, …,viola il secondo principio della termodinamica, per cui è dotata di funzioni omeostatiche che contraddicono il principio secondo il quale il funzionamento di un sistema accresce la sua entropia nel tempo.” Ricordo come il mio professore di termodinamica ritenesse questa osservazione errata. Nel senso che se le singole funzioni ed operazioni, che insieme costituiscono quanto descriviamo come “vita”, fossero scomposte e individualmente analizzate, si troverebbe che ciascuna funzione osserva rigidamente il secondo principio della termodinamica – dell’appiattimento dell’energia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.