Riceviamo e volentieri pubblichiamo
(lettere al futuro 9)
Il
messaggero giunse trafelato/ disse che ormai correva/ solo per
abitudine/ il rotolo non aveva più sigilli/ anzi non c’era rotolo,
messaggio,/ non più portare decrittare leggere/ scomparse le parole/
l’unica notizia essendo/ visibile nell’aria/ scritta su pietre
pubbliche/ in acqua palese ad alghe e pesci./ Tutto apparve concorde
con un giro/ centripeto di vortice/ un senso precipite d’abisso.
(B.Cattafi,
La notizia)
1.
Introduzione: un mondo condannato
L’attuale
civiltà planetaria si sta avviando all’autodistruzione, a un
collasso generalizzato che porterà violenze e orrori. Una
organizzazione economica e sociale che ha come essenza della propria
logica di azione il superamento di ogni limite è ormai arrivata a
scontrarsi con i limiti fisici ed ecologici del pianeta. Non potendo
arrestarsi, essa devasterà l’intero assetto ecologico del pianeta
prima di collassare. Il fatto che questo sia il percorso sul quale è
avviata la società globalizzata contemporanea emerge con chiarezza
da molte ricerche, interessanti in sé e anche perché svolte da
studiosi di formazione scientifica (nel senso delle scienze “dure”)
e lontani da impostazioni teoriche legate al marxismo o in generale
all’anticapitalismo. Uno dei centri di ricerca di questo tipo è lo
Stockholm Resilience Center dell’Università di Stoccolma [1]. Al
suo interno viene sviluppata da anni la ricerca relativa ai “limiti
planetari” che la società umana non deve superare per non
rischiare la devastazione degli ecosistemi planetari e quindi, in
ultima analisi, l’autodistruzione. Gli studiosi del Resilience
Center hanno individuato nove di questi limiti (fra i quali, ad
esempio, la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico,
l’acidificazione degli oceani). Nelle prime versioni di tali studi
[2] questi limiti non erano tutti quantificati in termini di un
parametro oggettivo, mentre recentemente questo obbiettivo è stato
raggiunto [3]. La buona notizia è allora che oggi è possibile
misurare tali parametri e avere un’indicazione oggettiva sul
superamento dei limiti planetari individuati dagli studiosi. La
cattiva notizia è che sei su nove di questi limiti sono stati
superati, vale a dire che la società umana contemporanea si sta
muovendo in una zona altamente pericolosa.
Ulteriori
interessanti considerazioni si possono trovare in un recente libro di
Vaclav Smil [4]. L’autore mostra con molta chiarezza mostra come le
basi concrete, materiali, della nostra attuale civiltà consistano in
una massiccia produzione di alcuni materiali fondamentali: acciaio,
cemento, ammoniaca (per i fertilizzanti), plastica. Senza questa
produzione massiccia, che richiede enormi quantità di energia, non è
pensabile poter fornire cibo, riparo, indumenti agli otto miliardi di
esseri umani attualmente viventi (e in procinto di diventare nove o
dieci); non è possibile, possiamo aggiungere, se intendiamo
mantenere l’attuale organizzazione economica e sociale. Ma questa
produzione massiccia e crescente è esattamente l’origine materiale
di quel superamento dei limiti planetari del quale si è sopra
parlato, e quindi dell’attuale crisi generalizzata degli ecosistemi
terrestri. Ulrike Herrmann [5] e Andrea Fantini [6], d’altra parte,
mostrano come non ci si possa aspettare una miracolosa soluzione
tecnologica che ci permetta di continuare il “business as usual”,
magari con qualche piccola correzione, come l’uso dell’auto
elettrica al posto di quella tradizionale. Ad esempio, nota Herrmann,
le fonti di energia rinnovabile (eolico, solare) hanno problemi di
intermittenza, ben noti, che al momento non sappiamo come superare,
e che rendono impossibile pensare che l’attuale struttura economica
e sociale possa basarsi sul loro uso esclusivo. Un’altro problema
significativo sta nel fatto che l’energia solare arriva sulla Terra
con una intensità molto bassa. Per farne la base dell’attuale
struttura industriale ed economica “avremmo bisogno di trasformare
completamente i nostri attuali sistemi di cattura e stoccaggio
dell’energia, creando una massiccia infrastruttura (di pannelli
solari, turbine eoliche, impianti bioenergetici, turbine mareomotrici
e, soprattutto, tecnologie per immagazzinare quell’energia, come le
batterie) basata su risorse materiali che, a differenza della luce
solare, non sono rinnovabili. Un’economia basata sul solare può
contare solo sui materiali esistenti e dunque, a lungo termine, la
sua crescita sarà limitata”[7].
Questi
sono solo alcuni esempi dei problemi che sorgono se si vuole pensare
una crescita economica indefinita nel rispetto dei vincoli posti
dalla necessità di preservare gli ecosistemi terrestri. Ma questo
vuol dire semplicemente che l’ecosistema planetario, che è
l’ambiente nel quale la civiltà umana può esistere, non è in
grado di reggere la crescita economica tipica del capitalismo,
crescita che non può ammettere limiti. Di conseguenza, l’ecosistema
planetario è sul punto di crollare, e le misure necessarie non
possono essere ulteriormente dilazionate. Per fare l’esempio del
cambiamento climatico (che è solo uno degli aspetti dell’incipiente
crollo ecosistemico), alcuni obiettivi di riduzione delle emissioni
dovrebbero essere raggiunti già entro il 2030, e al momento gli
impegni assunti dai vari paesi non sono sufficienti. Come ricorda il
rapporto UNEP 2022 dedicato a questi problemi (che si intitola
significativamente “The closing window”) “si calcola che le
politiche attualmente in essere, senza azioni ulteriori, porteranno
ad un riscaldamento globale di 2,8 gradi nel ventunesimo secolo”
[8].
Date
queste premesse, che ci dicono in sostanza che la crescita illimitata
del capitalismo porta al collasso degli ecosistemi terrestri e quindi
all’autodistruzione della civiltà umana, la risposta, almeno sul
piano teorico, sembra facile: è necessaria una rivoluzione che
abbatta l’attuale organizzazione sociale ed economica capitalistica
e al suo posto costruisca una società che rinunci alla crescita
infinita, al superamento di ogni limite, e sappia comunque assicurare
a tutti gli esseri umani una vita dignitosa; e per poterlo fare,
dovrà essere una società molto più egualitaria dell’attuale. È
questa la risposta che viene data, in un modo o nell’altro, da
parte delle varie correnti di pensiero che, in tutto il mondo, si
richiamano a una qualche versione di “ecomarxismo”. Si tratta di
correnti di pensiero di grande valore: a mio parere, si può anzi
affermare che esse producono alcune fra le più valide elaborazioni
teoriche della cultura contemporanea [9]. Se si approfondisce
l’abbondante letteratura che possiamo far rientrare nella categoria
dell’ecomarxismo contemporaneo, emergono però con chiarezza alcuni
problemi, che nel complesso privano queste acute analisi teoriche di
efficacia politica. Un elenco approssimativo di tali problemi
potrebbe essere il seguente: in primo luogo, non è affatto chiaro
come possa essere concretamente organizzata una società non
capitalista, equa, sicura, entro i limiti di sostenibilità degli
ecosistemi terrestri. In secondo luogo, non è chiaro quali possano
essere le forze sociali su cui basarsi per indirizzare l’attuale
civiltà planetaria verso un superamento ecosocialista del
capitalismo. In terzo luogo, le riflessioni ecomarxiste sono sempre
piuttosto vaghe e generiche quando si viene al tema del “che
fare?”, cioè alla proposta di un percorso politico concreto che,
partendo dalla situazione attuale, riesca realmente a incidere sulla
dinamica sociale. È abbastanza evidente che questi problemi, che ho
appena elencato come se fossero punti distinti, sono in realtà
strettamente collegati fra loro, sono sfaccettature diverse dello
stesso problema: così, la mancanza di un’idea di società futura
implica la difficoltà di pensare un percorso politico concreto, e
questo comporta l’impossibilità di coinvolgere forze sociali
significative, che possono aderire a un progetto politico solo se
questo esiste. D’altra parte, è proprio la mancanza di un impegno
da parte di grandi forze sociali che impedisce la creazione di
immagini della società futura e di progetti politici concreti.
È
chiaro che continuare la discussione sul piano di questi diversi
fattori e delle loro interazioni ci porterebbe a restare imprigionati
in un circolo di rimandi nel quale A causa B che causa C che a sua
volta però causa A, e così via. Per uscire da questo circolo, e
arrivare una comprensione unitaria della situazione fin qui
descritta, ritengo sia necessario tentare la strada di un’ipotesi
unitaria in base alla quale comprendere i vari fenomeni. Per arrivare
a questo, mi sembra utile focalizzare quel carattere dell’odierna
realtà sociale al quale abbiamo già accennato, cioè la sua
“illimitatezza”, intesa come superamento di ogni limite. Questo
aspetto, che è in contrasto con ogni forma di cultura umana
precedente il capitalismo (anche con la cultura occidentale
premoderna, fra l’altro) è chiaramente legata alla natura del
rapporto sociale capitalistico. Il capitalismo è accumulo incessante
di profitto, senza fine e senza fini; nella sua incessante ricerca di
sempre nuove occasioni di profitto deve necessariamente superare ogni
limite, naturale o sociale, che si trovi davanti. È proprio in
questa “illimitatezza” che si trova la radice della crisi
ambientale contemporanea, e questo punto è ben messo in luce dalla
letteratura ecomarxista cui facevamo riferimento poc’anzi.
L’ipotesi
che propongo è allora la seguente: questo rifiuto di ogni
limite è stato assorbito e fatto proprio dall’umanità
contemporanea.
Questa
ipotesi, fondamentale per il resto della mia argomentazione, è a sua
volta la specificazione di una tesi generale dovuta al compianto
Massimo Bontempelli: si tratta della tesi della sussunzione della
personalità umana sotto il capitalismo, nell’attuale fase storica
[10]. La tesi di Bontempelli è cioè che il
capitalismo nella fase attuale arriva a plasmare la personalità
secondo la propria logica, in modo che, anche quando cercano di
contrapporsi all’esistente, gli oppositori ne condividono la logica
profonda:
“Così
il sistema socioeconomico vigente ha avuto il suo funzionamento
sempre più assicurato dagli automatismi comportamentali di massa,
paradossalmente proprio da quando le sue contraddizioni lo hanno reso
più vulnerabile, e da quando ha pienamente mostrato di non poter
funzionare se non trascinando il genere umano nel baratro del
disfacimento sociale e del collasso ambientale (…).
I suoi oppositori per lo più non sanno comprendere la plasmazione
capitalistica della loro personalità, e non ne sanno quindi
correggere le determinazioni immediate.”[11].
La
tesi che propongo è quindi che una forma di manifestazione della
“plasmazione capitalistica della personalità”,
teorizzata da Bontempelli, è l’assunzione generalizzata, da parte
dell’umanità contemporanea, di quel rifiuto dei limiti che è
intrinseco
alla logica capitalistica di crescita illimitata. Un aspetto
concreto e molto evidente di questo rifiuto del limite è il
consumismo, che è ormai diventato un dato praticamente universale
dell’umanità contemporanea, naturalmente in forme diverse nelle
varie situazioni: nei ceti superiori è consumo di merci di lusso,
nei ceti inferiori consumo di merci povere, nei paesi poveri è
aspirazione al modello di vita occidentale e, appunto, ai suoi
consumi. Il problema allora sta nel fatto che uscire dal capitalismo
e cercare una forma sociale non distruttiva degli ecosistemi
significa, fra molte altre cose, anche reintrodurre dei limiti. Ma
questo, data l’attuale organizzazione della società, comporta
cambiamenti radicali in ogni aspetto dell’organizzazione sociale e
di conseguenza in ogni aspetto della vita quotidiana. Per di più,
nessuno è in grado prevedere in maniera precisa quali potrebbero
essere tali cambiamenti. Fuoriuscire dal capitalismo e costruire una
società alternativa, e tutto questo in una situazione di crisi
ecologica ormai attiva, è un’impresa talmente gigantesca che rende
impensabile l’idea di poter preventivare quale sarà la realtà
complessiva che potrebbe risultarne. In sostanza, l’impresa che
l’umanità dovrebbe tentare si configura in primo luogo come la
rinuncia ad una organizzazione della vita basata sui consumi, che per
molti è diventata, in forma implicita o esplicita, l’unico modo di
concepire una vita umana decente; in secondo luogo, come l’assunzione
del rischio di muoversi in una direzione della quale non si sa
esattamente dire dove porti. La situazione fin qui descritta presenta
naturalmente aspetti diversi per i ceti dominanti e per quelli
subalterni, ma la conclusione è in ambo i casi la stessa: nessuno
vuole realmente questo tipo di radicale cambiamento. È per questo
che mancano le forze sociali che potrebbero essere la base su cui
costruire un movimento storico di superamento del capitalismo. È
dunque facile prevedere che l’attuale sistema sociale, ormai esteso
all’intero pianeta, proseguirà la sua spirale distruttiva e
autodistruttiva fino al collasso sociale generalizzato.
Cerchiamo
adesso di esaminare le diverse modalità con le quali questa dinamica
di fondo si manifesta nelle diverse situazioni. Cercheremo di
mostrare, con qualche argomento in più rispetto a quanto fin qui
detto, perché non ci si può aspettare che qualche significativo
strato sociale prenda in carico il compito della trasformazione
necessaria a salvare la civiltà umana. Discuteremo separatamente
ceti dominanti e ceti subalterni, nelle due sezioni seguenti. Faremo
poi qualche rapida osservazione su altri aspetti della situazione
attuale (passaggio al mondo multipolare, impotenza del radicalismo
accademico) e chiuderemo con qualche parola sulla situazione
italiana.
2.
I ceti dominanti
In
questa sezione riprendo alcuni degli argomenti già esposti in
interventi precedenti [12]. Il dato di fondo è comprendere che i
ceti dominanti, in tutto il mondo, sono immersi in dure lotte di
potere. Per schematizzare, ogni gruppo dominante nazionale, oltre a
essere attraversato da divisioni interne, deve da una parte riuscire
a controllare i ceti subalterni del proprio paese, dall’altra
scontrarsi, in molte forme diverse, fra cui quella militare, con i
gruppi dirigenti degli altri paesi. Iniziamo esaminando il secondo
punto, cioè il tema dello scontro con i ceti dominanti degli altri
paesi, che si traduce naturalmente in scontro fra Stati o fra
alleanze di Stati. Dopo due anni di guerra in Ucraina, credo non ci
sia bisogno di insistere sull’importanza di questo tipo di
dinamiche. Il punto teorico da comprendere qui è in fondo semplice:
negli scontri, militari o no, in cui sono immersi i ceti dominanti,
ciò che conta è la forza di cui si dispone, nelle sue varie
dimensioni, fra cui quella militare. Ma il carattere illimitato del
capitalismo e della sua crescita assicura, a chi lo cavalca, una
crescita continua di forza (militare ed economica, e politica come
conseguenza). È allora evidente che nessuna frazione statale dei
ceti dominanti può neppure pensare a superare il capitalismo e
costruire una organizzazione sociale che rispetti i limiti
ecosistemici: farlo sarebbe un suicidio, perché significherebbe
limitare il proprio potere di fronte agli avversari. Significherebbe
avere meno carri armati, missili e aerei, e averli meno efficienti.
Significherebbe essere sconfitti e spazzati via, negli scontri già
in atto e in quelli che si preparano. I ceti dominanti non possono
rinunciare alla crescita capitalistica. Non possono pensare a ciò
che succederà alle generazioni future, perché il loro orizzonte è
ristretto al breve periodo. E questo non dipende da limiti
individuali (certo presenti), ma è una necessità logica: se negli
scontri in atto oggi tu corri il rischio di essere spazzato via, non
puoi pensare al futuro ma devi concentrarti sulla vittoria, perché
la sconfitta implica che tutti i tuoi progetti sul futuro scompaiono
assieme a te. È facile rendersi conto di questi fatti, nell’essenza
piuttosto ovvi: nella guerra in corso, Ucraina e Russia usano tutti i
mezzi a loro disposizione, e i loro alleati li riforniscono di tali
mezzi, senza che nessuno, in tutto questo, si preoccupi di
salvaguardia dell’ambiente o di emissioni di gas serra. Non se ne
preoccupano nemmeno quei ceti dirigenti dell’Unione Europea che nei
giorni pari parlano con molta serietà di riduzione delle emissioni,
e nei giorni dispari di aumento della produzione di armi.
Naturalmente, l’attuale guerra prima o poi finirà, ma non
finiranno le tensioni e gli scontri, piccoli o grandi, e quindi non
finirà la necessità, per i ceti dirigenti, di ottenere il potere
che solo la crescita illimitata del capitalismo può dare.
Per
quanto riguarda i problemi interni a ciascun paese, cioè lo scontro,
attuale o potenziale, di ciascuna frazione nazionale dei ceti
dominanti con i propri ceti subalterni, il ragionamento si sovrappone
largamente a quello appena svolto: i ceti dominanti sono impegnati in
aspre lotte interne per il potere, sia sul piano politico sia su
quello economico, e non possono permettersi scelte politiche che
effettivamente incidano sullo sviluppo illimitato della logica
capitalistica, perché questo si tradurrebbe in una perdita di
competitività (in un senso ampio, non solo economico, della parola)
e in sostanza in una sconfitta e in una perdita della propria
posizione dominante.
Per
queste ragioni, non è dunque sensato immaginare che una svolta verso
una società che accetti di vivere entro i limiti ecosistemici possa
venire dai ceti dominanti dell’attuale società capitalistica
globalizzata.
3.
I ceti subalterni
I
ceti subalterni sono quelli che maggiormente soffriranno del collasso
prossimo venturo, e di conseguenza sono quelli che maggiormente
dovrebbero sentire la necessità di attivarsi per evitarlo. È
abbastanza evidente che non è quello che sta succedendo. Esistono
certamente, in tutto il mondo, forme di resistenza e di lotta contro
il degrado mortifero degli ecosistemi, generato dal capitalismo, e
tali lotte talvolta possono persino ottenere qualche successo. È
però evidente che quello che manca è la capacità di trasformare
queste meritorie lotte in difesa del “locale” in capacità
politica di contrastare il carattere distruttivo “globale” del
capitalismo. Talvolta possono persino nascere, nei ceti subalterni,
momenti di protesta quando misure penalizzanti nei loro confronti
vengono giustificate con motivazioni di tipo ecologico: l’esempio
più noto è quello della massiccia mobilitazione dei “gilets
jaunes” francesi. In questo atteggiamento di rifiuto, da parte dei
ceti subalterni dei paesi occidentali, vi è un elemento di verità:
il fatto cioè che le politiche ecologiche dei ceti dominanti
occidentali si configurano molto spesso come uno scaricare i costi
della transizione sui ceti subalterni, preservando una situazione di
profonda e ripugnante disuguaglianza. È chiaro che, per rendere
accettabili le politiche di restaurazione dei limiti, che sono
necessarie per preservare il funzionamento degli ecosistemi,
bisognerebbe per prima cosa incidere sulle disuguaglianze sociali:
bisognerebbe cioè, per essere espliciti, che a pagare per la
transizione ecologica fossero, per primi e per la maggior parte,
proprio i ceti superiori delle società occidentali. Di nuovo, è
abbastanza evidente che i ceti dominanti non hanno nessuna intenzione
di procedere in questa direzione. Potrebbe cambiare questa
situazione? Dopotutto la storia del secondo dopoguerra mostra come
sia stato possibile, per i ceti dominanti dei paesi occidentali,
proporre ai ceti subalterni un compromesso avanzato, che non metteva
in questione il loro dominio ma faceva ampie concessioni ai bisogni
delle classi inferiori. Si potrebbe pensare che un nuovo compromesso
di questo tipo dovrebbe essere possibile, di fronte all’evidenza
sempre più angosciante del crollo degli ecosistemi terrestri.
Purtroppo, sembra che questa sia una speranza non ben fondata. I
“trent’anni dorati” del compromesso socialdemocratico del
secondo dopoguerra hanno potuto basarsi su alcuni dati di realtà che
oggi appaiono scomparsi e non più ripetibili. Senza tentare qui
un’analisi dettagliata, mi concentro su due punti: in primo luogo
si era in presenza, in quegli anni, di una crescita economica
vigorosa che forniva la ricchezza necessaria per dare una base
materiale al compromesso; in secondo luogo i paesi europei e il
Giappone, dovendo recuperare vigore economico dopo il trauma della
guerra, non erano in grado di esprimere una concorrenza che mettesse
in questione l’egemonia statunitense. Entrambi questi dati di
realtà sono radicalmente cambiati: l’economia capitalistica non è
più in grado, da decenni, di esprimere i livelli di crescita del
secondo dopoguerra, e lo sviluppo economico dei paesi europei e del
Giappone (a cui si sono poi aggiunti altri paesi di più recente
industrializzazione) ha portato ad una lotta economica durissima. La
debolezza delle economie capitalistiche implica che ci sono poche
risorse da mobilitare, e la durezza della concorrenza fra capitali e
ceti dirigenti implica che tali risorse vanno indirizzate
nell’acquisire posizioni in questa lotta: di conseguenza, non vi
sono le risorse necessarie per un compromesso di tipo
“socialdemocratico”. Il glorioso riformismo socialdemocratico,
che ci ha dato il Welfare State, è stato spazzato via e non potrà
tornare.
Si
potrebbe allora pensare che, se non sono più possibili le riforme,
l’unica alternativa sia la rivoluzione. In effetti è proprio così.
Il problema è che oggi la rivoluzione anticapitalista appare
altrettanto impossibile delle riforme interne al capitalismo. Non
esiste né una forza politica organizzata e incisiva che sia lo
strumento di una tale rivoluzione, né un significativo corpo di
militanti, magari al momento disorganizzati, che possano costituire
il nerbo di una tale forza politica, né uno strato sociale
combattivo dal quale possano emergere militanti e ceti dirigenti
della rivoluzione, né un’ideologia di riferimento sulla base della
quale possano unirsi i militanti. Si può certo pensare che questa
situazione sia solo una fase transitoria, e tutto quello che oggi non
c’è possa sorgere in futuro. Ma a questo punto, dopo decenni di
sconfitte e arretramenti subiti dai ceti subalterni, è forse il
momento di cercare di capire perché le cose sono andate così male.
Una semplice spiegazione potrebbe forse essere la seguente: se non
c’è nessuno degli elementi necessari ad una rivoluzione
anticapitalista, è probabilmente perché una tale rivoluzione
anticapitalista non la vuole nessuno. E questo perché, secondo
l’ipotesi che facevamo sopra, anche i ceti subalterni hanno
introiettato il carattere “illimitato” del capitalismo, e non
sono interessati a costruire una realtà sociale che rinunci alla
crescita senza limiti. Non possiamo sapere come potrebbe essere una
società post-capitalista in equilibrio con l’ambiente, ma è certo
che essa non potrà oltrepassare le soglie di sostenibilità che
rendono possibile il funzionamento degli ecosistemi planetari.
Sarebbe una società sicuramente molto più egualitaria dell’attuale,
ma in essa sarebbe impossibile il consumismo che oggi è la forma di
vita ormai universale, come aspirazione se non come realtà. Ebbene,
dobbiamo ripetere che una simile società, egualitaria e solidale, ma
non consumistica, una società di “abbondanza frugale” (la bella
espressione è di Serge Latouche), non la vuole nessuno, dove
“nessuno” va inteso come “nessuno strato sociale significativo
sul piano numerico, e capace di azione effettiva sul piano politico”.
Se
tutto questo suona astratto, possiamo fare un esempio concreto,
quello delle discussioni sull’auto a motore elettrico, che viene
sostenuta da alcuni come un passaggio necessario alla transizione
ecologica verso una società non distruttiva dell’ambiente, ma
viene criticata da altri con vari tipi di argomentazioni. Ciò che mi
sembra interessante è il fatto che buona parte della discussione
verte sulle prestazioni e sulle comodità o scomodità dell’uso
dell’auto elettrica. Coloro che criticano l’idea di un passaggio
generalizzato all’auto elettrica sostengono, fra le altre cose, che
essa è meno “performante” o più scomoda o più costosa rispetto
all’auto a motore termico tradizionale. Questo a me pare
interessante perché mette in grande evidenza il punto di cui stiamo
discutendo. Infatti queste argomentazioni, per stare in piedi,
richiedono un’ovvia premessa, che viene lasciata implicita: la
premessa che i mutamenti tecnologici o di altro tipo, necessari alla
transizione ecologica, devono lasciare immutata la vita quotidiana.
Se volete che io usi l’auto elettrica, è la premessa implicita,
questa deve funzionare esattamente come quella a motore termico, in
maniera tale che io non debba cambiare nulla della mia vita e delle
mie abitudini. Dovrebbe essere evidente che il punto è proprio
questo, come abbiamo sopra spiegato: poiché è l’intera
organizzazione sociale ed economica delle nostre società che si sta
autodistruggendo, è l’intera forma di vita che in esse si sviluppa
che va radicalmente cambiata. Per cui, tornando al problema dell’auto
elettrica, è ovvio che dovremo, in un modo o nell’altro, passare
dai motori termici ai motori elettrici, ma questo sarà solo un
aspetto, e non il più importante, di una radicale riorganizzazione
del nostro modo di vivere, che quasi sicuramente implicherà un
abbandono sia dell’auto come elemento integrante della vita
quotidiana, sia della forma di vita legata all’auto che si è
imposta nel secondo dopoguerra. Le attuali discussioni sull’auto
elettrica dimostrano il fatto che questi radicali cambiamenti sono
esattamente ciò che nessuno vuole. E questo vale per l’auto e per
ogni altro aspetto della nostra attuale organizzazione economica e
sociale.
Come
nel caso dei ceti dominanti, anche nel caso dei subalterni questo
atteggiamento di sostanziale accettazione dell’esistente non deriva
da limiti morali o cognitivi dei singoli, o almeno non in modo
decisivo: si tratta di una scelta che ha una sua razionalità, almeno
nel breve periodo. La vita dei ceti subalterni, nei paesi
occidentali, nonostante il consumismo, è in realtà una vita
difficile, stretta da infiniti vincoli, vita di persone sempre di
corsa e sempre con l’ansia di non farcela. È chiaro allora che
qualsiasi proposta di cambiamento della vita quotidiana genera
sospetti, perché si ha paura che la renda ancora più difficile. È
cioè naturale che la persona media si chieda se l’auto elettrica
ha, oppure no, lo stesse prestazioni di quella tradizionale, perché
una diminuzione di tali prestazioni può significare gravi
complicazioni nella vita quotidiana. Ma, seguendo il filo di questa
osservazione, in sé corretta, si torna sempre allo stesso punto:
questa obiezione è sensata solo se si accetta l’attuale
organizzazione della vita quotidiana come l’unico orizzonte
possibile della vita stessa. Se si capisce che ciò che è richiesto
per salvare la civiltà è il radicale cambiamento di ogni aspetto
della vita, si capisce che le obiezione sopra riportate perdono
completamente la loro rilevanza. Ma questo cambiamento radicale è
appunto quello che nessuno vuol fare, perché tutti (ceti dominanti e
subalterni) hanno fatto proprio l’assioma che non si dà vita al di
fuori del capitalismo.
Concludendo:
non ci sarà nessuna rivoluzione diretta a sostituire il capitalismo
con una società ecosocialista, perché i ceti subalterni hanno
introiettato il capitalismo e la forma di vita ad esso associata come
dati imprescindibili, che non possono essere messi in discussione.
4.
Ci salverà il mondo multipolare?
È
ormai un luogo comune delle analisi geopolitiche il fatto che il
mondo stia passando da una fase unipolare, cioè egemonizzata da
un’unica superpotenza mondiale (gli USA), ad una fase multipolare
caratterizzata da più forze in precario equilibrio (l’Occidente
globale egemonizzato dagli USA, la Cina, la Russia, l’India, forse
altre ancora). Mi sembra si tratti di un’ipotesi ragionevole, e in
questo scritto non la esamino criticamente ma la prendo come base per
la discussione. Partendo da questa ipotesi si potrebbe pensare che
si aprano delle possibilità per un cambiamento radicale del rapporto
fra le società umane e la natura. I momenti di transizione sono
nella storia appunto quelli in cui diventano concretamente possibili
svolte storiche prima quasi impensabili. Inoltre, è chiaro che oggi
gli USA sono l’architrave fondamentale del capitalismo globalizzato
ecocida, e se ne potrebbe dedurre che un loro relativo indebolimento
comporti un rallentamento della distruzione ecologica oggi in corso.
Purtroppo, mi sembra si possa affermare che queste speranze appaiono
irrealistiche.
In
primo luogo, è del tutto ovvio che il passaggio che stiamo
considerando comporterà un periodo di vere guerre, piccole e grandi.
Non è mai successo che un paese egemone si rassegni alla perdita
dell’egemonia in maniera pacifica. Basta ricordare, a questo
proposito, la classica ricostruzione fatta da Arrighi ne “Il lungo
ventesimo secolo” [13]: in esso, la storia moderna viene esaminata
come storia del succedersi delle egemonie di vari paesi, e i passaggi
da una egemonia all’altra sono appunto sempre segnati da guerre.
Per quanto riguarda la realtà contemporanea, è del tutto palese che
si sta aprendo una fase di confronti militari. È però chiaro, e lo
abbiamo già ricordato parlando della guerra in Ucraina, che la
guerra è la situazione meno adatta possibile per operare i profondi
cambiamenti economici e sociali che sono necessari per evitare il
crollo degli ecosistemi planetari. Essa, tutto al contrario, spinge
al saccheggio e al dispendio sempre maggiore delle risorse, perché
ovviamente se si è in guerra la vittoria è l’obbiettivo
fondamentale e tutto il resto passa in secondo piano. Si può
aggiungere che il passaggio ad una società meno distruttiva
richiederebbe una forte collaborazione internazionale fra le maggiori
potenze, che è esattamente ciò che viene meno in una fase di
scontri per l’egemonia.
in
secondo luogo, occorre ricordare che le potenze impegnate nello
scontro egemonico fanno comunque riferimento ad una economia di tipo
capitalistico, in forme naturalmente abbastanza diverse: in
particolare, è chiaro che in Cina (e anche in Russia, forse in grado
minore) lo sviluppo capitalistico è sottoposto a un forte controllo
politico. Non so se questo sia sufficiente a parlare di “socialismo”
nel caso della Cina, e la cosa, rispetto al tema qui in discussione,
non ha in realtà molta importanza: gli elementi di capitalismo
presenti nell’economia cinese sono sufficienti a spingerla sul
sentiero dell’accumulazione illimitata, che è quello che porterà
la Terra al collasso ecosistemico. Nel caso di Russia e USA, il
carattere capitalistico delle loro società non è ovviamente in
discussione. Il problema è che, se tutti gli attori in lotta per
l’egemonia sono avviati sul sentiero della crescita illimitata,
rispetto al problema del collasso ecosistemico non fa nessuna
differenza né la natura unipolare o multipolare dei rapporti
geopolitici, né chi sia l’egemone, se ve n’è uno. Non è
possibile sapere quale sarà la realtà geopolitica fra dieci o
vent’anni, ma è assolutamente certo che il mondo continuerà il
percorso autodistruttivo attuale.
In
definitiva, la risposta alla domanda contenuta nel titolo di questa
sezione è un convinto “No”. Il passaggio a un mondo multipolare,
sebbene possa essere auspicabile da molti punti di vista, non appare
rilevante rispetto al problema che stiamo qui discutendo.
5.
Il radicalismo antisistemico.
Abbiamo
detto sopra che, fra le tante mancanze che impediscono la formazione
di una realtà politica antagonistica alla dinamiche mortifere
contemporanee, c’è anche la mancanza di un pensiero forte capace
di informare di sé una solida base militante. Questo può apparire
strano, visto che abbiamo parlato sopra del valore dell’attuale
pensiero ecomarxista, e visto che, oltre alla scuola ecomarxista, nel
mondo accademico internazionale vi sono molte altre correnti
fortemente critiche verso l’attuale organizzazione economica e
sociale. Il punto, che abbiamo più volte sottolineato, è che tale
imponente messe di elaborazioni teoriche non riesce a tradursi in una
effettiva azione politica. Si potrebbe sospettare che tale impotenza
politica sia la spia di qualche serio limite teorico, che essa mostri
una specie di “punto cieco” nel mondo del radicalismo accademico.
Un’indagine approfondita su questo tema sarebbe, io credo, assai
utile, e dovrebbe ovviamente discutere quello “spirito del tempo”
conosciuto sotto il termine generico di “politicamente corretto”,
e che rappresenta una delle forme di manifestazione del radicalismo
antisistemico contemporaneo. In questo scritto non è possibile una
simile disanima approfondita, e mi limito quindi a rilevare alcuni
aspetti generali che, mi sembra, contribuiscono a questa impotenza
politica del radicalismo accademico contemporaneo. Prenderò spunto
dal testo di Fantini sopra citato, che è significativo proprio
perché in esso c’è un lodevole sforzo di mettere a fuoco i
problemi di cui stiamo discutendo.
In
primo luogo il radicalismo contemporaneo non sembra tirare le
conseguenze che discendono dalla presa di coscienza del fatto che la
caratteristica fondamentale del capitalismo contemporaneo è il suo
carattere “illimitato”, cioè il suo spingere al superamento di
tutti i limiti. Alcune correnti radicali chiedono anzi una
illimitatezza ancora più spinta, e in sostanza si configurano come
correnti ultracapitaliste, che criticano il capitalismo per non
essere abbastanza veloce nel suo superamento di ogni limite (si
tratta dei cosiddetti “accelerazionisti” vedi [14]). Queste
correnti sono però minoritarie, mentre la maggioranza del pensiero
critico contemporaneo mi sembra abbia una coscienza abbastanza chiara
di come l’illimitatezza del capitale rappresenti un grave problema.
Il punto delicato è però il fatto che questa coscienza non si
traduce in una chiara presa d’atto della necessità per l’umanità
di restare dentro i limiti degli equilibri planetari, e quindi della
rinuncia al consumismo, sia esso attuale o solo desiderato. Questa
rinuncia riguarda tutti, non solo i ceti dominanti. Se si vuole
transitare dal capitalismo ad una società non distruttiva di se
stessa e del mondo, anche i ceti subalterni devono ristrutturare
completamente la propria vita, le proprie aspirazioni e i proprio
desideri. Per fare un esempio concreto, occorre ridurre i viaggi,
specie i viaggi aerei, e in generale il turismo.
Si
può leggere facilmente questa difficoltà nel testo di Fantini,
quando egli propone come base di rivendicazioni, da parte dei ceti
subalterni, la richiesta di aumentare i salari e contemporaneamente
ridurre la produzione di merci [15]. È facile rendersi conto della
contraddittorietà di queste richieste: a che servono i salari, se
non ad acquistare merci? Se si aumentano i salari, aumenta la domanda
monetaria, e quindi deve aumentare la produzione di merci, altrimenti
l’aumento dei salari si traduce semplicemente in inflazione. La
contraddizione è interessante proprio perché non si tratta di un
lapsus individuale dell’autore citato, ma esprime le contraddizioni
interne all’ambiente del radicalismo contemporaneo.
Un
secondo aspetto dell’impotenza politica del radicalismo
contemporaneo è legato alla sua radicata diffidenza nei confronti
dello Stato. In sostanza il pensiero radicale contemporaneo, nella
quasi totalità, ha nei confronti dello Stato un pensiero di fondo
che è di tipo anarchico. Lo si vede, utilizzando ancora una volta il
testo di Fantini, nelle pagine che egli dedica al tema, dove in
sostanza arriva a proporre di “rompere l’alleanza fra capitale e
Stato” [16], ma non sembra porsi il problema della presa del potere
statale e del suo uso. Di nuovo, non è un problema specifico del
testo in questione, è l’intero pensiero radicale a trascurare tale
tema. Il problema è che queste scelte teoriche condannano
all’impotenza. Se c’è una cosa che l’aggressione russa
all’Ucraina ha dimostrato con smagliante chiarezza, è che, per
usare uno slogan, le cose le fanno gli Stati: sono gli
Stati ad agire, a cambiare le carte in tavola (o magari a rovesciare
il tavolo). È solo attraverso il potere statale che si può ottenere
un radicale cambiamento economico e sociale, ed è solo la forza,
anche militare, dello Stato che può proteggere un simile cambiamento
dai suoi nemici. Con questo non intendo negare che l’azione dello
Stato possa essere la manifestazione di una determinazione da parte
di altri livelli della realtà sociale, per esempio, marxianamente,
del modo di produzione storicamente dato. Ciò può benissimo essere
vero, ma il punto fondamentale è che queste altre sfere sociali, per
essere storicamente significative, devono appunto attingere al
livello della politica dello Stato, che rimane un passaggio
ineludibile. Senza di esso non si concretizza nulla, sul piano della
storia. Il fatto che il pensiero radicale contemporaneo nella
sostanza si disinteressi di questo passaggio, è solo l’altra
faccia della sua impotenza e inesistenza politica.
Come
abbiamo già osservato, un esame approfondito del radicalismo
antisistemico contemporaneo richiederebbe uno spazio molto maggiore.
Queste brevi osservazioni vogliono solo essere una prima indicazione
dei motivi per i quali si può sostenere che tale radicalismo non può
in nessun modo essere d’aiuto nel contrastare le dinamiche
mortifere del capitalismo contemporaneo.
6.
C’è un futuro per l’Italia?
Chiudiamo
questo intervento con qualche rapida osservazione sulle prospettive
dell’Italia. Esse appaiono piuttosto cupe. Il nostro paese è
oppresso dal peso di una serie di problemi che appaiono irresolubili:
la debolezza dell’economia, che rende difficile qualsiasi politica
redistributiva a favore dei ceti subalterni, il livello ormai
irrecuperabilmente degenere del dibattito pubblico, la passività di
una massa di popolazione che, pur vivendo nel quotidiano il lento
peggioramento della propria vita, non riesce in nessun modo ad
esprimere una qualche forma di opposizione, la miseria di un ceto
politico-mediatico che appare totalmente asservito agli interessi di
potenze straniere, tanto da rendere lo status del paese sempre più
simile a quello di una specie di semi-colonia. Ora, a tutti questi
problemi che restano irrisolti da decenni, si sta aggiungendo quello
del cambiamento climatico. Quando si viene all’area mediterranea,
gli studi sembrano indicare che la prospettiva più probabile sia
quella di un progressivo inaridimento dell’intera area. Per fare
solo un esempio, nell’ultimo rapporto dell’IPCC si scrive che
“nel Mediterraneo (…) il futuro inaridimento supererà di gran
lunga la grandezza dei cambiamenti visti nell’ultimo
millennio”[17]. Per l’Italia, questo potrebbe significare un
clima simile a quello attuale del Nord-Africa. Ora, è vero che si
può vivere anche in un clima “nordafricano”, e lo provano
appunto gli attuali Stati della sponda Sud del Mediterraneo. Ma mi
sembra davvero dubbio che, dati i problemi elencati all’inizio,
un’Italia “nordafricana” possa reggere il peso di una
popolazione di 60 milioni di abitanti (in via di invecchiamento, fra
l’altro). E che riesca a fare questo affrontando il problema delle
grandi migrazioni causate dal cambiamento climatico, che
attraverseranno il paese in cerca di salvezza da un clima divenuto
impossibile. L’unico fattore che potrebbe aiutare il nostro paese
sarebbe il passaggio a un mondo multipolare, del quale abbiamo sopra
discusso in termini generali. Nel caso specifico del nostro paese
tale passaggio, se affrontato in modo abile, spregiudicato, avendo
come riferimento l’interesse dei ceti subalterni, aprirebbe
indubbiamente spazi interessanti per ricontrattare gli assetti
economici e geopolitici dell’Italia. Ma per fare questo ci vorrebbe
un vero ceto politico, capace di autonomia e coraggio, come non sono
certamente gli attuali politici italiani, di destra e di sinistra,
che sono persone di scarso valore il cui unico ruolo è quello, come
dicevamo sopra, di servire interessi stranieri.
Mi
sembra che, in queste condizioni, lo scenario più probabile sia
quello del crollo della struttura statale, probabilmente in anticipo
rispetto al collasso generale dell’attuale società globalizzata.
Il crollo dello Stato darà luogo nel nostro paese a scontri,
violenze, crisi umanitarie di vario tipo, e probabilmente alla fine
di una continuità culturale che è ciò che continuiamo a chiamare
“Italia”. Poiché non vedo possibilità di sfuggire a un simile
destino, mi sembra che l’unica scelta sensata per i giovani
italiani, uomini e donne, sia quella dell’emigrazione, seguendo il consiglio di Gaia Vince [18]. In
questo testo, nel quale non si parla specificamente dell’Italia,
Vince sostiene che se lo sviluppo dell’attuale crisi climatica
dovesse realizzare le previsioni peggiori, è probabile che gran
parte delle attuali terre emerse diventerebbe inadatta alla civiltà
umana, per esempio perché l’agricoltura sarebbe impossibile o
scarsamente redditizia. In una situazione estrema di questo tipo, che
purtroppo non si può escludere, le uniche zone del globo nelle quali
potrebbe sopravvivere una civiltà organizzata sarebbero quelle della
parte nord dell’emisfero nord, in particolare Scandinavia, Russia,
Canada, Alaska, che al momento sono sottopopolate. È probabile,
vista la maggiore fragilità del nostro paese, che queste
osservazioni siano per noi ancora più significative. Possiamo
aggiungere, per concludere, che se una tale emigrazione, oltre a
salvare le vite dei giovani, portasse alla nascita di zone
“italiane”, linguisticamente omogenee, con scuole e mezzi di
comunicazione, questo potrebbe rappresentare una possibilità di
sopravvivenza della tradizione culturale italiana, e quindi in
sostanza del popolo italiano, risultato che non è affatto scontato,
nelle tempeste che si stanno preparando.
Note
[1]
https://www.stockholmresilience.org/
[2]
Si può vedere per esempio il cap.5 del seguente testo: J.Rockström,
A.Wijkman,
Natura
in bancarotta,
Edizioni Ambiente 2014.
[3]
Richardson,
K., Steffen, W., Lucht, W., Bendtsen, J., Cornell, S.E., Donges,
J.F., Drüke, M., Fetzer, I., Bala, G., von Bloh, W., Feulner, G.,
Fiedler, S., Gerten, D., Gleeson, T., Hofmann, M., Huiskamp, W.,
Kummu, M., Mohan, C., Nogués-Bravo, D., Petri, S., Porkka, M.,
Rahmstorf, S., Schaphoff, S., Thonicke, K., Tobian, A., Virkki, V.,
Weber, L. & Rockström, J. 2023. Earth
beyond six of nine planetary boundaries.
Science
Advances 9,
37.
Si
veda anche:
[4]
V. Smil, Come funziona davvero il mondo, Einaudi 2022
[5]
U.Herrmann, La fine del capitalismo, Castelvecchi 2023
[6]
A.Fantini, Un autunno caldo, Codice 2023
[7]
M.Schmelzer, A.Vetter, A. Vansintjan, Il futuro è decrescita,
Ledizioni 2023, pag.125. Nel brano citato gli autori stanno esponendo
alcune tesi di Georgescu-Roegen. Il numero di pagina si riferisce
all’edizione in ebook.
[8]
“Policies currently in place with no additional action are
projected to result in global warming of 2.8°C over the twenty-first
century. “, United Nations Environment Program, The closing
window. Climate crisis calls for rapid transformation of societies,
Emission gap report 2022 pag.XVI. Il successivo rapporto del 2023
descrive come gli aumenti di temperatura, di emissioni di gas
climalteranti, e di concentrazione atmosferica di anidride carbonica, continuino
indisturbati. I rapporti UNEP si possono trovare al seguente
indirizzo:
[9]
Non è possibile dare conto in una nota della vigorosa e abbondante
produzione teorica ecomarxista, che in Italia è purtroppo ancora
relativamente poco nota. Il lettore interessato può cercare in rete
i lavori di esponenti autorevoli di tale corrente, come J.Bellamy
Foster, P.Burkett (purtroppo scomparso di recente), K.Saito, I.Angus.
Si può inoltre consultare il sito gestito da Angus:
e
naturalmente la “Monthly review”, storica rivista della sinistra
statunitense, che oggi vede Bellamy Foster fra i redattori:
In
italiano si posso trovare, a mia conoscenza, i seguenti testi
I.Angus,
Anthropocene, Asterios 2020,
K.Saito,
L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi 2023
A.
Cocuzza, G.Sottile (cura di), Frattura metabolica e Antropocene,
Smasher 2023
Molti
articoli tradotti si trovano sul seguente sito:
[10]
Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della
personalità”:
nuove-forme-della-personalita.html
e
inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un
pensiero presente,
Indipendenza-Editore
Francesco
Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità
antropologiche”,
pagg.49-62.
[11]
M.Bontempelli “Capitalismo, sussunzione,
nuove forme della personalità”, cit.
[12]
Si vedano le precedenti “lettere al futuro”:
e
anche
[13]
G.Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Il Saggiatore 2014
[14]
A.Williams,
N.Srnicek, Manifesto
accelerazionista,
Laterza 2018.
[15]
A.Fantini, cit., pag.191.
[16]
A.Fantini, cit., pag.210.
[17]
“In the Mediterranean, south-western South
America, and western North America, future aridification will far
exceed the magnitude of change seen in the last millennium (high
confidence).” Sesto rapporto IPCC-WGI,
capitolo 8, pag.1058. I vari rapporti IPCC sono liberamente
scaricabili dal sito https://www.ipcc.ch/
[18]
G.Vince, Il secolo nomade, Bollati Boringhieri 2023.
Genova, inizio 2024 [testo corretto 31-3-24] Pubblicato da Marino Badiale alle 09:09Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
Fonte foto: da Google