Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo lungo ma ricco e molto interessante documento scritto da Leone Lazzara ma inviatoci a nome di tutti gli amici e i compagni di “Verso il 2030” https://versoil2030.it/ con i quali da tempo è iniziato un confronto e un dialogo fecondo che darà sicuramente molti frutti nel tempo.
“Per un vero rivoluzionario,
il pericolo più grande, fors’anche l’unico,
è l’esagerazione rivoluzionaria…” (Lenin)
La clessidra riempita
Dopo la fine delle Seconda guerra mondiale, l’Occidente europeo si ritrovò sconfitto- ovvero la Germania e l’Italia – e vincitore, ma sotto la tutela militare di quello statunitense, tranne la Spagna e il Portogallo, comunque già irregimentate dalle Dittature di Franco e Salazar. La globalizzazione, avviata dall’Inghilterra cento anni prima, fu interrotta dalla presenza dei paesi del Patto di Varsavia, che fecero economia a se, e da quelli liberatisi dal colonialismo, in primis Cina e India, chiusi in una inevitabile autarchia, tutta tesa a fondare e rafforzare i relativi stati.
L’Europa venne ricostruita con i dollari, è vero, ma essi furono presi in prestito, non arrivarono nelle mani di Tizi e Cai stranieri con l’intenzione di comprare a destra e a manca le attività primarie e insediando i loro marchi in quelle secondarie. Un oceano di dollari, rigorosamente restituiti fino all’ultimo centesimo, fluì dalla parte alta di un’immaginaria clessidra, consentendo quindi ai paesi europei di ricostruire le loro basi industriali, con i proprietari indigeni costretti però a fare i conti con le forze lavoratrici organizzate sia nei sindacati che nei partiti di riferimento, e con ampi margini giuridici di movimento garantiti dalle rispettive Costituzioni.
Le forze lavoratrici, dopo un decennio di repressioni anche durissime delle loro lotte rivendicative, cominciarono sia a strappare profitto al rinascente Capitale europeo (il versante sindacale) sia a premere per la costruzione dello Stato sociale (il versante politico). In Italia, la riscossa del mondo del lavoro fu particolarmente marcata e, dopo altri trent’anni di conflittualità quasi ininterrotta, nel 1989, i cittadini avevano Salario diretto a tempo indeterminato, Salario indiretto pubblico (Scuola e Sanità gratuiti e Trasporti a basso costo), Salario differito pubblico (Pensione) e l’Equo canone che imponeva limiti agli affitti. Così, a partire dal volano costituito dai dollari prestati e restituiti fino all’ultimo centesimo, l’Italia era diventata la quinta potenza economica mondiale e, grazie alle lotte sindacali e politiche, più della metà del PIL di quel tempo era gestita dallo Stato e le sue aziende, ovvero dai suoi organi elettivi, che indirizzavano direttamente ed indirettamente l’economia.
Su questo solido impianto economico, poggiarono sicure due fondamentali conquiste sociali, cioè le Leggi sul divorzio e l’aborto, l’istituzione di una rete di Enti locali elettivi che inverarono una diffusa partecipazione alla vita politica, e dunque una corposa e pervasiva vita culturale. Non era il Paradiso, era quanto ottenuto da tutta la classe lavoratrice italiana in quarant’anni di lavoro e di lotte. Fu allora, tecnicamente nel giro di tre anni, che la clessidra fu rovesciata, con un’operazione che, in contemporanea, spiazzò completamente tutte le classi dirigenti dei paesi europei, in Italia preparata da un’operazione illecita di poco meno d’un decennio prima, che aveva consentito alla Banca d’Italia di accumulare e gestire le masse monetarie del Debito pubblico emesse dal Ministero del tesoro, comportandosi come una banca privata, il che le permise di forgiare con il tempo la spada di Damocle del Debito pubblico.
La clessidra svuotata
I Banchieri e gli Industriali, insomma, progettarono e portarono a compimento singoli Colpi di Stato in tutti i paesi europei, per soggiogare la politica all’economia, che poteva ricominciare l’opera di globalizzazione dopo lo sfaldamento del patto di Varsavia e le aperture dei mercati asiatici. Le dirigenze di tutti i partiti socialdemocratici, socialisti e comunisti d’Europa, furono letteralmente abbagliate dalla tiritera mediatica sulla politica spendacciona, subalterna alle pretese delle masse popolari, e i loro stessi dipartimenti economici presi in contropiede da una teoria economica spacciata per nuova e salvifica, mentre in realtà era sempre l’originaria pretesa del capitalista di decidere cosa, come e per chi produrre, rigorosamente senza alcun tipo di vincolo e pianificazione politica.
Salvo qualche voce fuori dal coro, isolata e titubante, a nessuno dei referenti dei lavoratori venne in mente di andarsi a rileggere cosa diceva Marx 120 anni prima a proposito del debito pubblico apparso improvvisamente sulla scena come il frutto della coscienza sporca dei popoli, come la trasfigurazione della loro ingordigia senza fine. In realtà, dice Marx: “il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede innanzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”.
Ora, è indubbio che l’abbaglio totale dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra fu causato sia dalla decennale propaganda antipolitica dei Banchieri e degli Industriali, sia dalla fine dell’esperienza economica alternativa messa in piedi dai sovietici. Lo stralunamento, il venire meno di ogni riferimento concreto, il senso della sconfitta epocale, persino il senso di colpa per essere vissuto al di sopra delle proprie possibilità, come veniva incessantemente rimproverato alle masse popolari di tutta Europa, ci sta tutto. Ma poi sarebbe dovuta tornare la lucidità, ci si sarebbe dovuti rimboccare le maniche, ripartendo da Il Capitale, l’analisi ancora oggi più aggiornata della società contemporanea, per prendere le misure della nuova realtà in essere e prepararsi ad affrontarla.
Non lo si fece in nessun paese europeo; anzi, i riformisti di ogni latitudine scelsero la via della divisione dai rivoluzionari, rinominati prima vetero comunisti e poi radicali. Una scelta che si è rivelata addirittura esiziale per i popoli europei, condannandoli ad un graduale ma inesorabile impoverimento economico, con il relativo portato dello smantellamento dello Stato sociale, dello sfilacciamento sociale e dell’involuzione culturale. Le privatizzazioni iniziate con il rovesciamento della clessidra imposto dal Mostro del Debito pubblico, cominciarono a togliere dalle mani dei lavoratori quote di salario diretto e indiretto che finirono nella Borsa, per cui la vita si fece via via più complicata e difficoltosa, sicché le istituzioni elettive divennero sempre più ininfluenti, di conseguenza ci si affidò sempre più all’estemporaneità delle scelte individuali, via via perdendo consapevolezza culturale dell’Insieme paese. Se devi lavorare sempre di più per sempre di meno, l’idea che il voto possa risolvere i problemi diventa una chimera, ti ritrovi solo con te stesso, gli altri diventano tuoi concorrenti e ti convinci che non c’è nessun collante a tenere insieme il mondo in cui vivi. Tutti contro tutti.
Il Debito pubblico fu, insomma, la manna dal cielo che permise ai Banchieri e i Padroni di ricreare la condizione ottocentesca dello sfruttamento, sbrindellando ogni sovrastruttura istituzionale, sociale e culturale derivata dall’arricchimento della classe lavoratrice. Tale nozione era già patrimonio non solo della letteratura economica e politica, ma anche di quella sociologica e persino psicologica. Come questo elemento possa essere sfuggito a chi si professava marxista, è un mistero tutto occidentale, e tuttora insondato. In Italia, le forze cosiddette riformiste chiusero il PCI, fondando il PDS, poi divenuto DS e infine PD; mentre le forze cosiddette vetero comuniste e poi radicali, si raccolsero nel PRC, da cui si distaccarono in seguito una miriade di gruppi e gruppetti sempre più autoreferenziali, irrilevanti e corrosivi di un’identità fin dall’inizio fragile e contraddittoria, appunto.
Nel complesso, fino alla nascita del PD, i riformisti si limitarono ad accompagnare lo svuotamento della clessidra, sia per l’opposizione dei rivoluzionari sia per la resistenza sociale e culturale del loro stesso elettorato, ancora memore dei sacrifici fatti per conquistare il benessere pregresso. In seguito, essi si misero sempre più scopertamente alla testa di tale operazione, radicando il loro elettorato nel blocco di quelli che avevano sì da perdere; ma, proprio perché il futuro lo avevano potuto avviare nel quadro storico precedente, furono convinti che il tempo delle vacche grasse era finito, e toccava accontentarsi. Gli altri, quelli di dopo, quelli che il futuro lo scopersero sempre più incerto, e alla fine compresso dallo sfruttamento e dall’alienazione incipienti, li avrebbero dovuti difendere i rivoluzionari.
Il PRC contrastò per inerzia questo svuotamento economico, istituzionale, sociale e culturale imposto dalla crisi artificiale del Debito pubblico, creata e gestita dai Banchieri e gli Industriali per rovesciare la clessidra. Tale inerzia positiva derivò dal fatto che il suo elettorato proveniva dallo stesso bacino cui attingevano i riformisti, quello del PCI, dunque, aveva la stessa solida posizione economica, coscienza viva della democrazia partecipata, una duratura esperienza di socialità, e un corposo bagaglio culturale, e non voleva rinunciarvi. Tutto questo potenziale tese ad esprimersi per inerzia, appunto perché privo della base strategica economico-politica prevista dal termine “rifondazione” nel nome PRC, e cominciò a venire meno dopo la scissione del 1998, reggendo altri dieci anni, prima di disperdersi sempre più rapidamente, solo perché stimolato dalla visione del Manifesto di Porto Alegre, che raccolse l’adesione delle forze progressiste di molti paesi su una linea ben più concreta di opposizione alla globalizzazione, perché attuata laddove esse governavano.
Alla sua prima prova elettorale, nel 1992, il PRC ottenne 2.204.000 voti, i quali, occorre di nuovo sottolinearlo, non erano soltanto elettori, ma una comunità con un certo benessere economico, coscienza della democrazia partecipata, esperienza della socialità e bagaglio culturale: tutte cose via via più immateriali e prodotte in successione l’altra dall’una, che lo svuotamento della clessidra, le privatizzazioni, avrebbe costantemente ridotto e negato alle generazioni seguenti.
Il partito aveva oltre 100.000 iscritti e migliaia di Circoli che presidiavano l’intero territorio nazionale. Alle successive elezioni politiche, nel 1994, il PRC prese 2.344.000 voti, che spese in Parlamento con una strenua opposizione alla contro riforma delle pensioni, che i riformisti appoggiavano dopo aver assemblato una maggioranza di governo composita, affidandone la guida a Dini, approfittando delle divisioni interne del Centrodestra vincitore delle elezioni, che avevano portato alla caduta di Berlusconi. Tuttavia, già in quell’occasione ci fu una piccola diaspora di parlamentari che uscirono dal PRC e furono determinanti per la nascita del governo.
Era un segnale, si trattava di un segnale, ma le sue implicazioni profonde non furono colte da nessuno, in seno al partito. Quella piccola diaspora mostrava che il PRC non era in grado di “rifondare” il comunismo, ovvero che il suo gruppo dirigente non era coeso, ovvero che le appartenenze politiche precedenti della sua classe dirigente impedivano la sintesi politica, quindi la pianificazione di una strategia, dunque la possibilità di creare spazi di manovra tattici che non ne compromettessero la stabilità. Già allora, dunque, si intravedeva la fragilità di un personale politico perennemente tentato dalle scelte soggettive e opportunistiche; la qual cosa indicava appunto la completa inconsapevolezza dell’avvio del degrado economico, istituzionale, sociale e culturale determinato dal rovesciamento della clessidra, dal travaso di soldi dall’economia reale a quella virtuale della Borsa.
Nel PRC confluirono militanti e dirigenti del PCI, di DP, cioè gli eredi dei Movimenti del ’68, nonché quelli del ’77 e del ’91.
Fatto salvo lo schematismo, nei primi si può individuare la convinzione che il partito potesse avere lo stesso ruolo di quello di provenienza, cioè insieme di lotta e di governo, saldamente ancorato al referente sindacale. Cosa, questa, palesemente impraticabile, visto che la base economica, istituzionale, sociale e culturale del PCI era stata appena divisa, e i riformisti si erano arrogati il ruolo di governo.
I sessantottini avevano in mente di rimodellare il partito ad immagine e somiglianza della stagione da loro vissuta; un’operazione del tutto sovrastrutturale, che riecheggiava il marxismo ripudiando l’esperienza sovietica e, più in profondità, il centralismo democratico. Finalmente liberi di restituire al personale lo spazio negato dalla forma partito precedente, essi non fecero che alimentare un dibattito adolescenziale, all’interno con un revisionismo d’accatto, che col senno del poi distribuiva patenti di comunismo ai personaggi storici del movimento operaio complessivo; all’esterno stimolando l’emersione di dirigenti sempre più appariscenti e null’altro.
I settantasettini portarono dentro il partito la foga anarcoide che li aveva spinti allo scontro aperto contro lo Stato, proprio nel momento culmine dell’onda lunga delle lotte pluridecennali, proprio quando si completava insomma la costruzione dello Stato sociale, che era l’unica rivoluzione possibile in Occidente. Un anacronismo clamoroso e conclamato, che facilitò oltremodo il piano golpista del Capitale, alimentando la teoria degli opposti estremismi che interruppe il travaso di voti dalla DC al PCI.
I panterini, quelli del Movimento del ’91, si ritrovarono nel partito per forza di cose più che per scelta. Questa generazione scontò il disorientamento sociale e politico prodotto dal rovesciamento della clessidra, che era già per certi versi parossistico; l’adesione al PRC fu per loro naturale in quanto soggetto di opposizione; non per la storia, che era tutta da fare, non per le finalità strategiche, inesistenti, più che altro per la possibilità di lottare organizzati, affidandosi cioè alla tattica. Questa è la generazione più ignara della storia economico-politica della Prima Repubblica, perché ne ha vissuto la fine senza avere avuto la possibilità di viverla.
Le centinaia di migliaia di persone che si iscrissero per almeno un anno al PRC durante i due decenni successivi, finirono in questo tritato di contraddizioni, o preda del settarismo nei gruppi e gruppetti che proliferarono in continuazione da tale ventre molle. Questo coacervo indistricabile di storie vissute, senza un impianto economico-politico da inverare, alla testa di una massa rilevante del paese, continuò ad andare avanti per inerzia fino alle elezioni del 1996, nelle quali il PRC ottenne 3.214.000 voti, il suo massimo storico. Un risultato per certi versi clamoroso, decisamente incoraggiante, sostanzialmente dipeso dalla formidabile opposizione al governo Dini, che sprigionò un ritorno di fiamma dell’elettorato riformista contro il rovesciamento della clessidra, le privatizzazioni, sollecitato anche dalla scelta dei dirigenti riformisti di coalizzarsi con i partiti eredi del progressismo cattolico, intriso di cultura clientelare, refrattario alla concezione laica della socialità, nella quale l’individuo è tale solo in quanto appartenente alla comunità.
Dopo due anni di appoggio esterno al governo di Centrosinistra, che drogava i consumi con gli aiuti di Stato alle aziende automobilistiche nel mentre pianificava le privatizzazioni, il PRC decise di staccare la spina all’esecutivo. La causa fu il disatteso provvedimento dell’abbassamento dell’orario di lavoro a 35 ore, mentre non aveva recato disturbo l’approvazione del cosiddetto Pacchetto Treu, una mina brillata al centro del mercato del lavoro, che consentiva assunzioni biennali nel pubblico e nel privato, incentivate dal pagamento governativo di una parte dei contributi pensionistici, e dal trattamento economico inferiore a quello vigente. Una volta creato il meccanismo per cui ti assumo per due anni a Contratto di Formazione Lavoro, ho introdotto la precarietà nel mondo del lavoro, o no? I due provvedimenti, la riduzione delle ore di lavoro settimanali e la precarizzazione del mondo del lavoro, a spese dello Stato e del lavoratore, sono antitetici o no? Non può venire prima l’altro e poi l’uno, se arriva l’altro non può arrivare l’uno.
Qualcuno avrebbe dovuto chiedere alla dirigenza del PRC: pensate di essere una Giuria che sta premiando un’opera d’arte, una prova di gara sportiva, letteraria o di altro genere? Cos’è il vostro, un impegno nell’arena culturale del paese? Questa domanda non la fece nessuno, ma la risposta non voluta, la diede dodici anni dopo il segretario del PRC, che dopo essere stato per sedici anni segretario di un partito comunista, si dimise in seguito alla disfatta elettorale del 2008 profetizzando: “il marxismo sarà una tendenza culturale”.
È difficile, davvero difficile giustificare tanta maldestrezza politica. Al gruppo dirigente del PRC mancava proprio l’ABC dell’intero retroterra conflittuale fra Capitale e Lavoro, la conoscenza minima degli accadimenti reali di tutto il secolo precedente. E, difatti, in nome della vocazione al partito di lotta e di governo, gli ex dirigenti del PCI fecero la scissione favorendo la nascita di una coalizione di governo sgangherata, protagonista di svariate e gravissime nefandezze (l’appoggio dell’Italia alla guerra di aggressione alla Serbia, la modifica della Costituzione che avviò la privatizzazione del potere centrale alle regioni, la privatizzazione dell’azienda delle telecomunicazioni, la limitazione del diritto di sciopero nei trasporti pubblici e altro ancora).
Alle successive elezioni del 2001, il PRC e gli scissionisti del PDCI presero complessivamente 2.490.000 voti; non ha nessuna importanza riportare qui le rispettive quote, mentre è invece importante sottolineare la perdita di 724.000 voti rispetto al massimo ottenuto cinque anni prima. Entrambi i partiti erano stati sconfitti, i rancori pesarono sulle linee politiche di entrambi, corrodendone ancora di più la credibilità.
Il PRC adottò quella sessantottina, ponendo al centro la questione dei diritti, come se questi potessero essere rivendicati in una condizione di impoverimento economico, sociale e culturale, come se gli italiani fossero quelli di prima dell’89, come se gli assilli economici non determinassero confusione mentale, sconforto, abbrutimento, regressione culturale, insomma: chiusura mentale ed egoismo, cioè repulsione verso tutti i diritti che non siano i propri. C’era anche la patrimoniale sulle grandi ricchezze, come parola d’ordine, ma nessun accenno al fatto che, tramite la Borsa, era operante il trasferimento di ricchezza dalla società a un pugno di persone. Anziché bloccare il riflusso di denaro dall’economia reale a quella finanziaria, mantenendo in piedi le attività produttive, ci si accontentava di briciole che non potevano in alcun modo colmare le casse dell’Erario sostenendo così l’offerta dei servizi pubblici. In sostanza, i dirigenti del PRC si comportarono come se il momento storico fosse progressivo, pronto ad esprimere un avanzamento sovrastrutturale, mentre le cose stavano esattamente all’opposto: l’Italia stava regredendo economicamente, quindi la fiducia nelle istituzioni elettive stava venendo meno, la socialità si stava sfaldando e la cultura dissipando. In quelle condizioni, rivendicare diritti era fuori dal tempo, e quindi risultò provocatorio per i conservatori, alimentando un dibattito esacerbato che incattivì gli animi di tutti, sollecitando lo spirito reazionario del paese. Fu un regalo, allo spirito reazionario del paese.
I dirigenti del PDCI si ostinarono ad offrirsi ad ogni tipo di alleanze con i riformisti, convinti di potersi permettere chissà quale pressione moderatrice della loro azione, dal basso di una percentuale elettorale risibile, per non dire imbarazzante. Dieci anni dopo essersi uniti, i rivoluzionari si ritrovarono divisi, complessivamente più deboli e ancora del tutto inconsapevoli che gli accadimenti in atto erano prodotti dal rovesciamento della clessidra.
Quanto detto da Marx sul debito pubblico, evidentemente, restava sconosciuto ai gruppi dirigenti di entrambi i partiti, sicché l’adesione al Movimento di Porto Alegre di entrambi, con il suo respiro internazionale, servì nei fatti solo da motore propagandistico per tenere insieme gli elettorati. Non si denunciò apertamente l’inganno del Debito pubblico, declinando in modo comprensibile alle masse, le ragioni per le quali la politica doveva ritornare a guidare l’economia.
E non lo si fece, vale la pena ripeterlo, perché era misconosciuto, tale inganno; prova ne sia che la privatizzazione del Trasporto Pubblico Locale era già da tempo partita da Roma, nella cui giunta il PRC (la scissione non era avvenuta) pesava ed aveva incarichi di rilievo. E partì da Roma perché era la roccaforte dei tranvieri in Italia, sia per la dimensione dell’azienda, la più grande d’Europa, sia per l’ineguagliabile combattività dei lavoratori, che in passato avevano persino scioperato a sostegno della azienda di Latina che produceva Coca Cola, a rischio di chiusura. In pratica, i rivoluzionari diedero una mano ai riformisti per avviare una privatizzazione che, altrimenti, non solo sarebbe stata molto ma molto più difficile, ma il luogo di lavoro si sarebbe anzi potuto rivelare un caposaldo di resistenza. Dopo dieci anni e una scissione, i gruppi dirigenti rivoluzionari erano sprofondati nel politicismo, Il Capitale restava chiuso in qualche cassetto di chissà chi chissà dove.
L’agenda dei successivi cinque anni di governo del Centrodestra, vincitore delle elezioni, fu letteralmente dominata dagli interessi personali di Berlusconi, al punto da frenare l’azione del rovesciamento della clessidra, la privatizzazione, e tanto da creare la convinzione sia fra i riformisti che i rivoluzionari, di potersi coalizzare con successo e cambiare registro al paese. Non è dato sapere come questo si fosse potuto fare con un programma di 280 pagine, e insieme a Mastella, un ex democristiano che stava nel Centrosinistra solo perché nel Centrodestra non c’era posto. Un’alchimia politica; si trattava di un’alchimia politica per vincere le elezioni, niente di più. La radicalizzazione dello scontro politico, quasi interamente dovuta al clamoroso conflitto d’interessi, che aveva visto Berlusconi usare il suo ruolo istituzionale per azzerare gli innumerevoli processi in corso, portò entrambi gli schieramenti a fare il pieno, con il PRC e il PDCI che presero 3113591 voti, sfiorando il massimo storico di prima della scissione, ma il Centrosinistra vincitore per un pelo.
Mastella fece cadere il governo due anni dopo e il bilancio fu fallimentare, ricordato dalle masse per l’aumento del bollo auto e il biglietto d’entrata negli ospedali, più che per la liberalizzazione di alcuni Ordini professionali. Nel 2007 i riformisti avevano fondato il PD, e approfittarono della crisi di governo per additare gli alleati agli elettori come il problema del Centrosinistra. Così, dopo aver raccattato tutto quello che si poteva raccattare per andare al governo, i riformisti si presentarono alle elezioni come vittime dei ricatti degli alleati, ma pronti al riscatto presentandosi da soli. I rivoluzionari misero in piedi e in fretta e furia L’Arcobaleno, che fu di fatto la replica in sedicesimo della fondazione del PRC ma senza falce e martello nel simbolo. Tutto quello che era loro mancato, strategia, capacità tattica, cultura politica omogenea, non poté certo apparire d’incanto, tanto più che nella Lista c’erano transfughi riformisti, in nessun modo intenzionati a rifondare il comunismo. Insomma: un Papocchio dell’ultima ora, breve e sbiadita replica del parto sofferto
attraverso il quale era stato fondato il PRC. Alle elezioni del 2008, L’Arcobaleno prese 1124298 voti, un terzo di quelli del PRC e il PDCI alla tornata elettorale precedente, e largamente insufficienti a superare la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento.
I successivi tre tentativi di rientrare; 2013, 2018 e 2022, sono stati fatti ricorrendo ogni volta a liste dell’ultimo momento, che replicavano in tutto e per tutto il tentativo del 2008; Rivoluzione civile, Potere al popolo e Unione popolare, che hanno preso rispettivamente 765000, 313000 e 370000 voti. Dunque, i quattordici anni trascorsi fuori dalle aule parlamentari, sono stati caratterizzati da scissioni continue dei rivoluzionari verso destra e verso sinistra del proprio campo, con trasmigrazioni di apparati ed elettori prima, e apparati senza elettori dopo, salvo poi ritrovarsi tutti insieme nel Papocchio di turno. Uno spettacolo tragicomico, farsesco; avanspettacolo che non interessa quasi più nessuno, dato che lo svuotamento della clessidra, le privatizzazioni, ha pompato decine di miliardi l’anno dall’economia reale a quella virtuale, spingendo decine di milioni di persone a ridosso e al di sotto della soglia di povertà; gente senza futuro, che non vota più, che non partecipa a niente e, per tutto questo, produce una sub cultura arata in continuazione dalle scorrerie reazionarie.
Un panorama pauroso e desolante, quello economico, istituzionale, sociale e culturale italiano, frutto della suddetta e più e più volte ripetuta finanziarizzazione dell’economia, della quale i gruppi dirigenti del PRC non hanno mai percepito né la forza né la portata; e meno che mai l’hanno percepito gli epigoni scissionisti, sempre più numerosi, e sempre più incarogniti in interminabili, astrusi ed insulsi duelli ideologici.
Riempire la clessidra
Quanto sta accadendo a livello planetario, chiude ogni spazio di manovra ai riformisti e certifica l’ininfluenza dei rivoluzionari.
Tutti coloro, dirigenti, militanti e noi scriventi, che si sono fatti vecchi sbagliando una volta dopo l’altra, continuando imperterriti fino all’ultimo, cioè ora, devono finalmente ammettere il proprio fallimento davanti ai milioni di italiani che non li votano più. Se l’ammissione è sincera, cioè consapevole, c’è ancora modo di costruire il partito che serve ai lavoratori, uno e uno soltanto.
Se l’ammissione è sincera, cioè consapevole, non ci sarà alcuna difficoltà a recuperare gli assi portanti del Partito dei lavoratori: 1) Assumere per intero la storia del movimento socialista e comunista; da Marx a Pol Pot, nessuno escluso, perché dalla Storia si devono trarre insegnamenti pratici, non principi morali. 2) La vita del partito deve essere regolata dal centralismo democratico, che è l’unico modo per far vibrare all’unisono l’intellettuale organico che esso dev’essere.
L’estrema esiguità di quanti siamo, ci mette fuori gioco come minimo per lungo tempo, consentendoci però di avere tempo per imparare ad analizzare la realtà attraverso la dialettica struttura/sovrastruttura.
Ci vorrà il tempo che ci vorrà, ma quando avremo finalmente compreso fino in fondo che i tre pasti al giorno (lavoro e Stato sociale) e la realizzazione di sé (nel sociale e nel privato) sono due facce della stessa medaglia, ci renderemo conto di avere marinato la scuola di vita per trent’anni, disquisendo di scempiaggini adolescenziali, che ci hanno fatto sistematicamente sbagliare tutte le interrogazioni elettorali di quelli che pretendevamo di guidare.
Allora sì che saremo in grado di rovesciare noi la clessidra, la politica rimetterà le briglie all’economia e ci riprenderemo il maltolto.
Leone Lazzara, tranviere in servizio all’ATAC di Roma
Fonte articolo: http://versoil2030.it/tutti-a-casa/