Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Il tema della repressione della naturalità del bambino, che sta al centro della riflessione di Jacques Camatte, si ripropone ad ogni generazione, sicché vederne gli esiti attuali ci dice qualcosa non solo sul presente, ma su come ad esso si è pervenuti, nonché sulle alternative rimosse.
Questi temi si presentavano fino ad un anno fa con una qualche problematicità, pur vantando la versione progressista un’ampia condivisione traguardata ai fasti dell’I.A. L’«emergenza» della pandemia Covid-19 ha consumato i margini, i residui, le ambiguità su cui si fondava l’ottimismo, interessato o ingenuo che fosse, intorno alle nuove generazioni tecnologiche, gratificate dai social e dalle famiglie arcobaleno.
La situazione dell’infanzia e dei bambini in questo anno è stata ed è trascurata, sottovalutata, rimossa, ma ciò non in contrasto, anzi in continuità col degrado educativo e formativo pre-pandemia; quest’ultima viene infatti a dare copertura ai disastri pluriennali della scuola, e a confondere nella generale frustrazione e disagio il ben piú grave danno che stanno subendo i bambini e i ragazzi, a cui sono stati tolti tempo, spazi e modi della crescita e formazione.
Cosí l’attuale situazione favorisce il sistematizzarsi di tendenze già insite nella società da decenni, e normalizza in un’emergenza permanente processi già in atto, tutti nel segno della repressione della naturalità del bambino, di sopravvivenza della famiglia solo come centro di consumi, di liquidazione delle comunità e di ogni spontaneo aggregarsi delle attività e delle persone.
Tali processi, considerati l’uno di seguito all’altro, appaiono saldati in un progetto complessivo, che passa dalle burocrazie di organismi e fondazioni internazionali alle istituzioni e amministrazioni, fino ai media e alla pubblicità:
- politiche eutanasiche e pianificazioni abortive; manipolazione biotecnologica ed eugenetica;
- banalizzazione dell’allattamento artificiale e della nutrizione industriale;
- istituzionalizzazione e delega della cura e dell’educazione con svalutazione della figura paterna;
- normalizzazione della precocizzazione sessuale in chiave gender, con «educazione sessuale» parapornografica.
- promozione della tecnologizzazione digitale estesa alla scuola;
- sicurizzazione deresponsabilizzante affidata alla tecnologia;
A queste si accompagnano il consumismo ad alta nocività (cibi, vestiario, videogiochi, dispositivi elettronici ecc…), la sovraesposizione mediatica ad un immaginario di violenza, di abbrutimento sensoriale e pornografia, nonché la banalizzazione del ricorso a psicofarmaci.
Molti aspetti di questo complesso di artificializzazione hanno avuto, nell’isolamento e immobilità conseguente ai provvedimenti sulla pandemia, un’applicazione totalitaria, mentre l’ipocrisia mediatica mostra come eccezioni episodi estremi che ne sono l’espressione piú tragicamente fedele.
Liberalismo dei mezzi, totalitarismo dei concetti.
L’addestramento omologante, di perpetuazione della minorità e della dipendenza non avviene quindi attraverso l’azione repressiva (a cui si può reagire), né il lassismo d’antan, ma attraverso un precocissimo — anche prenatale, deidentificante — inserimento in una gabbia ideologica pianificata, col liberalismo dissennato dei mezzi e il totalitarismo dei concetti; imponendosi nell’area prenatale, si completa entro l’adolescenza, che non è piú fase evolutiva e di emancipazione, ma di fissazione e ripiegamento del processo su se stesso.
Parlano ormai lingue diverse, incomunicabili, da una parte le acquisizioni scientifiche sulle fasi e le esigenze della crescita del bambino e dall’altra l’ufficialità mediatica ed istituzionale. In sede di ricerca psichiatrica è affermata la necessità dell’autoidentificazione generazionale, del rapporto fisico e costante — allattamentonaturale, «portare il bambino»[1] — con la madre nella prima infanzia, della stabilità di un nucleo familiare con madre e padre, di un ambiente che favorisca gioco, moto, esperienze, relazioni, spontanei e non istituzionalizzati. E a fronte di ciò cosa è avvenuto ed avviene? Lobotomia televisiva da esposizione precoce e continuata, danni fisici anche irreversibili derivanti dalla sedentarietà e dall’uso e abuso dei dispositivi digitali, e danni psicologici quanto alla percezione di sé, le relazioni con gli altri, il linguaggio.
Ma sono gli stessi fenomeni resi «inevitabili» dal confinamento e dalla chiusura delle scuole, dei centri culturali, ricreativi e sportivi! Oggi tali danni sono presentati come un disagio provvisorio, un male minore; ma fino a ieri lo stesso complesso di artificializzazione è stato indotto, presentandone le modalità e i mezzi come neutri, interpretabili, gestibili, mentre è loro stessa natura imporre il messaggio col mezzo.
Le acquisizioni scientifiche e statistiche sull’argomento,[2] già impressionanti e conclusive pre-pandemia, sono state a suo tempo emarginate dai media e dalla politica in un’area di stravaganze o di allarmismo, e sempre con abbondanza di punti interrogativi, e in contraddittori vacui.
Ci vuole un sforzo d’immaginazione per trovare gl’intimi spazi in cui può essersi rifugiata la naturalità del bambino, in qualche modo rimossa sin dal concepimento, estraniandolo dalla specie come oggetto di desiderio possessivo-egoistico, poi come oggetto biotecnico, poi neonato, bambino piccolo, via via sempre piú coinvolto nella trama delle tensioni individuali e sociali e dell’insicurezza affettiva, fino all’istituzionalizzazione totalitaria della delega ai dispositivi digitali.
Si sono venute cosí a combinare, come facce della stessa medaglia, la pianificazione della deidentificazione sessuale con la sessualizzazione precoce e violenta (di cui la pornografia è un settore specializzato legittimato), la banalizzazione delle forme di approccio in rete (di cui quello pedofilo è un settore specializzato verso cui non mancano spinte di legittimazione).[1] E si arriva per questa via, all’ultimo paradosso di ovviare all’abuso dei dispositivi elettronici da parte dei bambini attraverso congegni di controllo automatici parimenti impersonali, in un contesto di adulti a loro volta dipendenti dagli stessi dispositivi e che si affidano sempre piú ad essi per ogni attività e sorveglianza dei propri figli.
A fronte della ben risoluta offensiva mediatica e pubblicitaria a pro del consumismo digitale, ci troviamo di fronte ad un laissez-faire, ad un’assenza di pensiero sull’argomento che è segno forse di una rinuncia piú profonda, di una resa, dell’assumere la realtà che ci circonda come un mondo irrimediabilmente mutato e ingovernabile, in cui lo stesso pensare alle nuove generazioni appare incongruo, privo di adeguata prospettiva temporale.
Rottura della continuità madre-figlio.
Questo quadro ancor piú attira l’attenzione sulla fase decisiva della primissima infanzia, come quella in cui non potendosi (ancora per il momento) operare una presa completa da parte del paradigma tecnologico-virtuale, potevano e forse potrebbero porsi resistenze e alternative.
La continuità fisica del rapporto con la madre contiene elementi di naturalità che il bambino porta in sé e impone come realtà e necessità. La madre li vive in modo contraddittorio e conflittuale, ma li vive.
Ma cosa accade se la madre recide in se stessa l’emergenza di tale naturalità, negandola alla base, nella sua natura biologica ed identitaria? Se la madre scinde la sua identità generatrice dalla sua «voglia di maternità», e addirittura vede la prima come ingombro, «schiavitú biologica» a cui ovviare con la tecnologia? E non parlo della cosiddetta maternità surrogata[2] che è di questa scissione la mostruosa variante coloniale.
Per la donna non vi è piú bambino-salvatore, che presume una comunità per quanto piccola da salvare, ma bambino-feticcio, privato non solo della sua naturalità, ma anche di una sua concretezza e spontaneità di movimento, espressione, comunicazione, nutrizione.[1] Può farlo perché a sua volta ha negato la propria identità materna integrale, è letteralmente svuotata, con progressivo impoverimento e dismissione delle sue risorse — intellettuali e istintive — predisposte alla cura del complesso generazionale, educativo e comunitario (condizione primeva della sopravvivenza della specie umana).
Il patriarcato è finito, diciamolo.
È giunta cosí ad esito la contraddizione tra la naturalità del bambino e quanto il femminismo ha pervicacemente indotto e propagandato, odio dell’uomo e odio di sé. Le derive del femminismo nelle teorie del gender e del transumanesimo ne sono la nemesi spettacolare, ma il fallimento del femminismo sta nella narrazione falsata del rapporto uomo-donna, nella rinuncia, anzi il rifiuto a vivere la maternità come espressione integrale dell’essere naturale e morale della donna. Anche non essendo madre — per scelta o per qualunque altro motivo — la donna ha in sé questa forza profonda, questo senso. E al contrario, anche volendo o avendo un figlio può prosciugarne, in ossequio ai modelli del politicamente corretto, le fonti istintive e il senso etico.
Il fatto che l’obiettivo della massimizzazione delle tutele ambientali e sociali per la maternità (nonché per la famiglia e l’infanzia) sia stato colpevolmente abbandonato dalle schiere «progressiste» basta e avanza per inchiodare il femminismo come un’ideologia subalterna e meramente funzionale al Sistema.
In tale contesto l’inimicizia tra la madre e il bambino, che poteva trovare un correttivo potente nel — pur ambiguo — slancio materno, è istituzionalizzata. La donna si svuota, volente o nolente, ignara o no, della sua naturalità residua, e la maternità è totalmente concettualizzata. Si va ben oltre l’egoismo possessivo, la ritorsione verso il maschio, il rigiocamento del proprio vissuto infantile.[2] L’autonegazione dell’identità femminile è piú feroce di quella maschile, perché porta con sé in forma potenzialmente omicida (aborto) la negazione del bambino e della naturalità del suo esistere, per sé e per la specie.[3] Dice Camatte:[4]
Per affermarsi l’individuo ha bisogno di un «nemico», si afferma contro un altro, un’altra. L’intero ambito di vita della specie è impregnato d’inimicizia. Essa fonda il suo comportamento in relazione con la separazione dalla natura, di cui una conseguenza essenziale è la separazione tra il potere e l’amore, che si aggregano prevalentemente l’uno, il potere, al polo uomo, l’altro, l’amore, al polo donna, ma coesistono anche in seno all’uomo, come alla donna, e ciò costituisce uno dei fondamenti dell’ambiguità.
Nel momento in cui il femminismo ha fatto della sua ideologia una questione di potere, la polarità è stata totalmente assorbita nell’ambiguità. Se il polo di amore è cosí vacante, quello del potere — affollatissimo — mette in scena con accanite quanto esauste repliche una pretesa lotta al patriarcato, istituzione ormai scomparsa in occidente, e caso mai viva e vegeta altrove, dove lotta non ce n’è. Alla narrazione falsata di una storia in cui tutto è riducibile al dominio dell’uomo sulla donna, si sovrappone una lettura ideologica del presente in cui si agita l’irriducibilità di una perpetua rivalsa. Ciò a copertura della verità dell’incompatibilità, profonda e crescente, tra umanità e Sistema.
Vi sono state vie alternative?
Il femminismo aveva in sé inesorabilmente tale nemesi distruttiva, fino alle perversioni futuriste partenogenetiche? Vi sono stati momenti, movimenti, esperienze, che hanno tentato un riequilibrio tra le varie istanze, depurando la tradizione e discernendo tra le lusinghe del «progresso»? La via antiistituzionale comunitaria, ha lasciato traccia dei suoi percorsi? La catastrofe della pedagogia sessantottina, sfociata nella lobotomia tecnologica, è cosí totale? La nostalgia della famiglia tradizionale è solo vissuto personale o è il richiamo ad una salvezza ancora possibile?
È difficile oggi, a fronte della narrazione femminista sotto il segno dell’inimicizia, la quale nonché non fare autocritica, pretende dalle leggi la censura di ogni dissenso, discernere i frammenti di positività nel quadro di movimenti epocali che sono per lo piú confluiti senza residui nelle ideologie progressiste e della globalizzazione postcapitalistica; tali vie alternative sono state riassorbite o isolate, in modo che è arduo ricostruirne una continuità; esse forse potrebbero avere sorprendentemente un riscontro di consenso maggioritario, se non fossero venuti meno nel frattempo i canali della partecipazione e rappresentatività democratica.
Possiamo collocare nel femminismo anni 70 l’emergere e intrecciarsi di spinte reali, esigenze profonde, progetti e lotte che non hanno saputo (voluto? potuto?) coordinarsi in una razionalità ed etica dell’agire. Parificando le donne in quanto tali ad una classe sfruttata si è via via perso di vista la specificità strutturale delle diverse collocazioni nel mercato del lavoro e non si è previsto il ruolo che esse venivano assumendo nel consumismo; e la valorizzazione — la scoperta? — della fisicità è finita nella mercificazione del corpo e nella versione riduttiva della cosiddetta libertà sessuale, che finisce nell’apologia dell’aborto.[1] Nel complesso, si ha l’impressione di un’enorme eterogenesi dei fini.
In certe aree era presente una visione piú integrale, che valorizzava il legame sesso/generazione e la maternità, pur facendone una questione «tra donne». Si trattava quindi di esperienze «al positivo», che non possono non aver lasciato tracce, trasmesso esperienze vere, e che sono certo confluite in quel sostrato culturale che bene o male è la base di resistenza all’attuale dominio ideologico dissolutorio e sopraffatorio.
Vi sono state a questo proposito sporadiche posizioni autocritiche,[2] con la percezione che dello slancio e rivendicazione di una piú ampia responsabilizzazione delle donne nella società siano giunti ad esito — dalle «quote rosa» al protagonismo mediatico — solo gli aspetti di affluenza al sistema economico, a discapito degli altri. Ma è proprio la rinuncia all’analisi strutturale che porta a subire e farsi complici dei processi in atto come essi fossero piú complessi e misteriosi di quello che sono. No, purtroppo, i tempi hanno portato ai temi del rapporto tra i sessi e della generazione una crudele semplificazione, e il dilagare dell’infelicità e del disagio psichico segnala una mutazione antropologica direttamente e cinicamente indotta e pilotata dal Sistema economico-finanziario e sostenuta e fatta propria da una «cultura di sinistra», che fornisce ad esso la piú efficiente e gradita copertura ideologica.[3]
Nodi strutturali dell’alternativa.
I movimenti intorno al parto naturale, all’allattamento materno e alla sua durata, all’educazione libertaria antiistituzionale e steineriana, che hanno costituito a suo tempo elementi di novità e insieme di continuità della tradizione, avevano in sé, oltre ad una fondatezza scientifica, una valenza strutturale. Essi avrebbero potuto-dovuto costruire progetti-rivendicazioni-conquiste dei movimenti delle donne. Si è andati invece nella direzione opposta, nel quadro dell’autolesionistica «lotta agli stereotipi», con i parti indotti su appuntamento, allattamento artificiale e congedi agli uomini, asili-nido precoci. Ma ciò opportunamente combaciava con lo sgretolamento del welfare, che ha restituito alle caste e alle classi privilegiate l’esclusività della salute del corpo, beninteso in forme che talvolta sembrano ironicamente autopunitive. E veniva poi ad assorbire nella generale disoccupazione e precariato la condizione delle lavoratrici. Ma le femministe di professione non sono turbate dal peggioramento dell’esistenza di tante madri e bambini, tra malasanità, lavori provvisori e casuali, babyparcheggi purchessia, città invivibili; a ciò indifferenti, da una parte ripetono la lamentela delle minoranze in chiave LBGT, dall’altra, se intrufolate nelle élites, esibiscono squallidi modelli di costume e di consumi (ivi compreso l’utero in affitto).
Storicamente, le aree di politica organizzata — e sembra archeologia — che avrebbero potuto contribuire a rafforzare la difesa delle comunità, familiare e locale, sono a suo tempo confluite senza residui nel filone progressista (PCI, organizzazioni cattoliche), appoggiando come priorità lo sviluppo industriale, l’urbanesimo e il consumismo.
L’area di origine marxista, oltre ad avere al proprio interno una componente statalistica di derivazione ottocentesca, ha promosso l’ideologizzazione dell’area comunitaria e formativa in funzione egemonica, poi in funzione meramente elettorale. La tematica di rivendicazione sulla tutela della maternità è stata sacrificata ad un modello brutale d’industrializzazione e urbanizzazione (prima parasovietico, poi americano), quindi «superata» nelle collaudate forme di opportunismo politico, e di mutazione della base di consenso verso aree di popolazione a supporto dell’establishment.
La difesa della famiglia nel mondo cattolico andava per parte sua incontro a crescenti contraddizioni, nel momento che si recepiva una sorta di neutralità del medium — la televisione[1] — in un’alfabetizzazione delle masse cattoliche alla modernità. La deriva sociologica ha finito per collocare la tematica familiare e comunitaria in un ambito relativistico, tutto sommato teologicamente indifferente, rispetto ai poli dell’individuo (la religione come fatto privato) e la collettività (obbligatoriamente laica e conformata ideologicamente alle esigenze del Sistema). Anche in questo caso e su questi temi, nell’assenza di autocritica (mentre altre, e anacronistiche, ne abbondano) oggi la Chiesa nella sua politica appare allineata anzi partecipe del progressismo individualistico, e da certe oscillazioni (sull’omosessualità, l’aborto, il matrimonio) risulta un’omologazione della Chiesa stessa agli organismi internazionali e alle priorità dell’agenda mediatica.
Per sua parte la cultura tradizionalista è stata ambigua ed arrendevole su tali tematiche, né pare averle approfondite ed elaborate in modo adeguato.
La situazione attuale, se colloca ciascuno nelle sue responsabilità storiche, segna una cesura epocale, nella quale le forme della politica e le istituzioni stesse appaiono fantasmatiche e non credibili. È per questo che il tema delle «vie alternative», che difficilmente può avere sistemazione teorica, è ricco oggi di indicazioni ed evenienze pratiche: l’uscita da «questo mondo che bisogna abbandonare», la difesa e la ricostruzione delle collettività, delle identità, delle integralità umane, è sempre piú opposizione, resistenza, ma anche ricerca dei frammenti di verità, di empatia, per ricomporre una nuova condivisione.
Surrogati di amore.
In questo quadro, cos’è, dov’è l’amore? Come può isolarsi un moto affettivo a sé stante, ove venga meno la naturalità madre-figlio, la sollecitudine nel quotidiano, l’accompagnamento fisico e morale, il parlare, il custodire, il controllare, il nutrire, l’insegnare, il giocare, l’assumersi la responsabilità di educare, affrontandone anche i rischi e le contraddizioni? Ove l’economia domestica è solo consumo, ove tutto si compra, si istituzionalizza, si monetizza; ove le relazioni sono assorbite e si identificano nei famigerati social?
L’indotta e poi proclamata crisi della famiglia, i modelli imposti mediaticamente di false famiglie anomale e allargate, e sempre provvisorie ed aleatorie, hanno in questo mito dell’amore il nucleo oscuro, un vortice di disperazione e vanità. Tanto che ne nascono i surrogati, ci sono piú animali da compagnia che bambini, o magari bambole,[1] e poi di nuovo i social, i media, il «volere un figlio» per se stessi, per immagine, o non si sa per cosa. Non certo per lui, che ontologicamente non esiste, ove sia interrotta la sequenza del grembo della vita, di un’attesa anche inconscia, anche inadempiuta, ma vera, nel cuore, nel corpo, nel pensiero, nell’anima di una donna.
La natura, da cui l’uomo si è distaccato, afferma nella generazione il suo irriducibile, forse ultimo richiamo.
La natura come fisicità, emozioni, intelligenza: che è ciò che si crea nella generazione, ed è necessario per vivere e generare.
Se è piú agevole estromettere il maschio da tale processo, banalizzando la scissione sesso/ generazione fino allo shopping del seme, lo sgretolamento dell’identità femminile richiede una mutazione antropologica piú drammatica, piú radicale.
Per questo le teoriche femministe «ultima generazione» (letteralmente), non paghe dei fasti della combinatoria sessuale e della biotecnologia, propugnano la fine della specie, il cyborg, la manipolazione genetica fino all’interspeciosi. È suggestivo che siano donne a trastullarsi con simili orrori. È vero che sono sortite carrieristiche, meri prodotti di mercato. Ma vi è in essi il compiersi della parabola distruttiva del femminismo, che non avendo piú l’uomo da odiare, non potendo odiare la donna stessa piú di cosí, odia alla fine, finalmente e francamente, l’umanità tutta. Ma anche in questo caso[2] non si tratta di un’anticipazione visionaria, bensí di un calcolo ragionieristico sulle varianti possibili, in un dopobomba che pasticcia connubi, come fanno i marziani di Mars attacks!
Non apocalissi, quindi, ma parodia.
[1]J. Camatte dà tale importanza alla necessità di «portare il bambino», da averne istituito una voce del suo Glossario (v. Il Covile №480 del novembre 2018), in quanto tale continuità fisica è condizione dell’aptogestazione: «PORTARE [Porter]. Il bambino deve essere costantemente portato (Franz Renggli e vedi Tragling). Non farlo, induce una dinamica ontosica molto consistente: ricerca di un supporto, di una persona che ci porta (da cui il rigiocamento della dipendenza); ma è anche far portare agli altri ciò che ci ingombra (riversamento, carico), ci ossessiona (dati inconsci in relazione ai traumi subiti). I derivati da portare veicolano anch’essi un dato ontosico: supportare, trasportare, riportare, rapportare, deportare, importare. Portare il bambino è permettergli di rimanere in continuità con la sua speciogenesi. L’uomo, la donna furono portati dagli alberi e gli adulti sono alberi per i bambini.(…).» Camatte amplia il concetto nella voce «Tragling» del Glossario stesso.
[2] Quanto al Quoziente d’Intelligenza, varie ricerche promosse da organismi scientifici concordano nel rilevare una certa diminuzione dalla generazione degli anni 70. Tra le probabili cause il cambiamento degli stili di vita dei bambini e dei sistemi educativi: troppo tempo passato alla televisione, videogiochi ecc.., poco movimento e relazioni con l’ambiente e le persone, poca o nessuna lettura e anche alimentazione inadatta alla crescita. A tale fenomeno la Cina (prima della pandemia) intendeva porre rimedio con una serie di limiti e divieti al digitale, in base all’età, gli orari, la durata, la spesa ecc. Tali vincoli agirebbero automaticamente nelle modalità d’uso dei vari apparecchi. Nel frattempo la situazione è ovviamente ovunque peggiorata, ed è paradossale che si aspetti dai gestori delle varie piattaforme la soluzione del problema. ¶ Quanto all’Italia, i risultati dell’indagine 2018 sulle competenze scolastiche (PISA, studio internazionale, a cui aderiscono 72 paesi e 600.000 studenti, effettuato ogni tre anni con lo scopo di valutare le competenze scolastiche di studenti adolescenti in matematica, scienze e reading) segnava un sensibile peggioramento, soprattutto per quanto riguarda la comprensione di lettura e le scienze, rispetto ad una collocazione in graduatoria già non brillante. Sugli effetti della televisione, già nel 2011 il libro di Michel Desmurget TV lobotomie (ed. Max Milo), prospettava i risultati di ricerche internazionali sull’argomento, ed oggi le sue conclusioni circa i danni sui bambini dell’esposizione precoce e prolungata alla televisione, sono quasi scontate. Desmurget ha denunciato in seguito la nuova «lobotomia»: La fabrique du crétin digital. Les dangers des écrans pour nos enfants. Éditions du Seuil, 2019. In Germania, il prof. Manfred Spitzer porta avanti da anni la raccolta e valutazione di dati di ricerca sul tema, che pervengono ad esiti simili. I titoli dei suoi libri, nelle traduzioni italiane edite da Il Corbaccio, sono eloquenti: Demenza digitale (2013), Solitudine digitale (2016), Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa (2018), Emergenza smartphone (2019). Sul recentissimo Pandemie, vedi Il Covile №588 del marzo 2021.
[3 ]Ricordare alle nostre giulive femministe che nel 1977 Simone de Beauvoir, da esse accreditata come filosofa e modello, firmò, anche a propria discolpa, con altri «intellettuali» il «Manifesto in difesa della pedofilia». Attualmente la Francia ha «scoperto» le depravazioni di Gabriel Matzneff, altro propagandista della pedofilia chic. Quando toccherà finalmente a Simone de Beauvoir? Per ora, in occasione del centenario di Sartre, c’è chi rivendica per lei un’autonomia nella storia della cultura. Conviene invece alla De Beauvoir restare nel cono d’ombra del partner, a copertura dello squallore umano e della mediocrità e futilità delle sue opere. D’altra parte l’induzione della precocizzazione sessuale in chiave gender porta con sé l’eventualità dell’anticipazione del consenso, già cavallo di battaglia dei firmatari del suddetto Manifesto.
[4] Non è esagerato definire schiavistico il «contratto» che sta alla base della transazione in cui consiste la gravidanza per conto terzi. Non vi sono termini di paragone, se non appunto negli stati di schiavitú istituzionalizzati nell’antichità e fino al XIX secolo, e caso mai in senso peggiorativo, se si tiene presente l’ufficializzazione via internet, l’intermediazione in forma di racket, e la mera compravendita di un essere umano, che è l’oggetto della transazione. I paladini dei diritti piú stravaganti sono indifferenti, anzi svergognati complici, di contratti in cui per denaro una donna cede non solo il suo utero, suo figlio, e quanto di sé vi sta intorno, ma ogni diritto altrimenti proprio di qualunque transazione d’affari, da quello di recesso a quello di rivalsa ecc.. Questo è accuratamente silenziato, quando si parla di vip che hanno comprato figli mediante «maternità surrogata» e poi sono le icone del politicamente corretto; e si capisce perché: in primo luogo businnes, tanto denaro, e poi completamento istituzionale del progetto egemonico omosessualista. È un discrimine: donne e movimenti femminili che su tale questione sono possibilisti e fanno distinguo mascherandone la natura socioeconomica schiavistica, ribadiscono la propria cecità o infamia. ¶ Sull’argomento vedi v. Il Covile № 491 del gennaio 2019 e https://www.provitaefamiglia.it/blog/utero-in-affitto-leggiamo-qualche-contratto-tipo.
[5]Insieme alla naturalità, anche la spontaneità finisce per essere un concetto inafferrabile. Il bambino-consumatore è bersaglio, prima attraverso i genitori, poi direttamente, di una pubblicità onnipresente prima di tutto su giochi e alimenti. È quindi puramente teorico che il bambino spontaneamente scelga cibo sano, giochi di gruppo e di movimento ecc.. Ove il martellamento pubblicitario viene contrastato, ciò invece avviene.
[6] V. la voce «Rigiocamento» nel Glossario dei testi di Jacques Camatte in Il Covile №480 del novembre 2018.
[7] L’impotenza della scienza di fronte alla pandemia ha messo temporaneamente la sordina alle farneticazioni del transumanesimo che tanto piace a certe leader femministe.
[8]Jacques Camatte, «Inimicizia ed estinzione» pp. 1-2 in Il Covile №521 del settembre 2019.
[9] Anche l’orrore ha i suoi testimonial. L’attricetta Michelle Williams alla cerimonia di consegna dei Golden Globes 2019 ringraziò di aver potuto abortire, perché liberarsi del corpo estraneo le aveva permesso di far carriera e quindi ricevere un premio.
[10] Prendiamo come esempio un testo del 2013 di Marzia Bisognin, dell’Associazione «Il Melograno, centri informazione maternità e nascita», pubblicato sul n.12–13 della rivista Gli Asini. Ripercorrendo la sua esperienza nel movimento femminile dagli anni 70, l’autrice evidenziava come all’interno di esso il tema della maternità, coinvolto in un rifiuto dei ruoli e della famiglia tradizionali, finisse per essere escamotato: «Il movimento femminista non rivendicò e non riconobbe la gravidanza e il parto come esperienze formative, di crescita personale, di scoperta di sé.» Allora, di fronte alla polarizzazione di due scuole di pensiero, quella del naturismo e quella del modernismo tecnologico, la Bisognin concludeva invocando i tempi per la metabolizzazione e il discernimento tra le nuove opportunità date dalle biotecnologie. Ma la pretesa libertà di scelta, a cui lei si appellava è —l’abbiamo visto— inganno e illusione: in realtà la via verso cui il sistema induce ed obbliga, è quella tecnologica, che corrisponde agli interessi degli investimenti capitalistici nel settore, al totalitarismo ideologico e consumistico, potendo contare sulla piú gigantesca pressione istituzionale e mediatica. È la via che permette il dispiegamento pubblicitario dei privilegi vip, il consumismo illuso dei loro imitatori, e la piú feroce indifferenza verso le condizioni reali della generalità di madri e bambini. Infine anche la Bisognin, in un intervento del 2017 (http://marziadoula.blogspot.com/search/label/biotecnologie) finí per guardare a ciò come ad un progresso ineluttabile e forse benefico, offerto da una scienza neutrale e disinteressata.
[11] È il woke capitalism, «vale a dire capitalismo dotato di una maschera progressista che è quasi l’equivalente di una «coscienza progressista», che gli viene gentilmente fornita da tante frazioni progressiste e gauchistes che condividono gli obiettivi destrutturanti e dissolventi del Sistema» v. Philippe Grasset «Passione fusionale capitalismo-gauchisme» Il Covile №532 del novembre 2019.
[12] Gli anni 70 videro levarsi un allarme — tempestivo quanto inascoltato — di educatori e sociologi sui guasti della televisione nella crescita dei ragazzi e nelle relazioni familiari; si tratta nel 1976 di Neil Postman con The disappareance of chilhood (trad. it. La scomparsa dell’infanzia, Armando ed.), nel 1977 di Jerry Mander con Four Argoments for the Elimination of Television (trad. it. Quattro argomenti per eliminare la televisione ed. C.E.F.) e di Marie Winn con The Plug-in Drug (trad. it. La droga televisiva, ed. Armando).
[13] Sí, è vero, ci sono persone che coscientemente, anzi in modo organizzato (il gruppo Reborners), si dotano di «surrogati» di bambini, cioè bambole iperrealistiche, con le quali interagire nel quotidiano. È ironico che dopo anni di messa in stato d’accusa delle bambole-giocattolo, in quanto imposizione alle bambine di stereotipi femminili, le donne siano ridotte a giocare con le bambole per mimare una «maternità» posticcia, tristissima ma certo poco impegnativa. In realtà le Reborners (e le fotografe che le propagandano nel mondo) fanno parte del circo dell’arte contemporanea, e le loro agghiaccianti bambole — che evocano piú bambini morti che tenere creaturine — sono un’ennesima specializzazione pseudo artistica che si compiace del macabro e patologico. Però la questione surrogato esiste, e questi orrori — come del resto le bambole erotiche — normalizzano la solitudine e l’infelicità in chiave postmoderna.
[14] Si tratta, fra le altre, dell’orrida Donna Haraway, che prospera con la sua trovata del cyberfemminismo, locupletandolo via via con qualche stralunato aggiornamento. Subodorando che l’entusiasmo ipertecnologico transumano sia in disgrazia, si butta sul postecologico, recuperando in Staying with the Trouble (trad, it. Chthulucene ecc.) un po’ di zoologia, con amene parentele, ibridi ed interspeciosi.
Fonte articolo: https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_B_590_Rouf_Surrogati.pdf