Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
L’inno nazionale polacco, composto alla fine del settecento, quando lo stato era scomparso dalla carta geografica, dice: “ la Polonia vivrà finchè vivra un polacco”.
Io credo, e ci tengo a dirvelo, che il socialismo vivrà finche ci sarà un gruppo di persone che, in qualsiasi angolo del mondo, si alzerà in piedi e canterà l’Internazionale.
Oggi possiamo sentirla nei dischi, interpretata dal coro dell’Armata rossa, con le sue belle uniformi. Mentre fa sicuramente parte del rituale con cui gli orfani del comunismo aprono i loro congressi, quasi per bere di nuovo ad una fonte così da evitare che si essicchi del tutto. Un gesto che merita tutto il nostro rispetto. Ma nella consapevolezza che tutti possono bere ad una fonte che appartiene a tutti; ma mai fino al punto di pensare di esserne gli unici custodi.
A sentirla per primi, nel 1867 e, ancora, nel 1889, non furono uomini di partito, a celebrare la loro diversità o un loro successo. Furono persone venute, a loro spese, da ogni parte d’Europa e, perché no, del mondo, per incontrarsi e magari per litigare ma in nome di una speranza comune nel sole dell’avvenire.
A riproporre, spesso contro ogni speranza, questa fede nell’avvenire, sarebbero stati in tanti. Immagino, vedo davanti a me i comunardi di Parigi in attesa della loro esecuzione e quelli che,anno dopo anno, ne avrebbero celebrato la memoria; gli apostoli del socialismo riuniti, qui in Italia, assieme alla loro gente, in occasione dell’apertura di una casa del popolo o della sede di una lega; i congressisti dell’Is impegnati nella ricerca delle vie per impedire la guerra, illudendosi di averle trovate; e poi i marinai di Kronstade; i cortei che, organizzati da forze tra loro diverse se non opposte, si incontravano per le vie di Parigi, dando anima e senso al nascente fronte popolare; e, infine, le note che accompagnarono l’arrivo dei militanti, giunti da ogni parte del mondo a battersi contro il franchismo e a difendere la repubblica.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Internazionale ( che, per inciso, non era più, a partire dagli anni trenta, l’inno nazionale dell’Urss ) divenne l’inno che apriva le più importanti manifestazioni della sinistra. A suonarlo, come abbiamo già ricordato, il coro e la banda musicale dell’Armata rossa. Nessuna appropriazione indebita; anzi un fatto normale e scontato; ma, proprio per questo, di enorme valenza simbolica. In cui l’avvenire s’incarnava nel presente. E in cui l’emancipazione dei lavoratori non era più opera dei lavoratori stessi perché si era incarnata in uno stato e in un partito; e rimaneva dipendente dai loro immancabili successi futuri. Così stando le cose il crollo del socialismo reale avrebbe fatalmente trascinato con sé, agli occhi degli osservatori del tempo, il socialismo possibile. Salvo ad aggiungere che, di lì a poco, anche il trionfo della democrazia liberale si sarebbe risolto in una crisi che sembra non avere mai fine.
Oggi l’Internazionale non è più un richiamo allo stato di cose presente o al sogno di cose di cose future. E’ semmai l’eco di una voce commovente ma anche straziante perché ci viene da un passato ormai sepolto. Così l’ho sentita nel congresso del redivivo Psi nel 2007 ad annunciare la sua rinascita, appena un anno prima della sua distruzione. Mentre veniva da un solo strumento il cui suono appassionato e struggente rimane dentro di me.
Il canto del cigno ? Penso proprio di no. Gli ostacoli che ci impedivano di comprendere il messaggio di quel canto sono caduti uno dietro l’altro: i Papi con i loro diversi dogmi l’un contro l’altro armati; i possessori/interpreti della storia, abilitati a punire le eresie e a insegnare al popolo bue la retta via; l’internazionalismo a senso unico; la sacralità dei partiti; l’idea che il socialismo non fosse una tensione costante verso un futuro mai raggiunto completamente ma coincidesse con la data della presa del potere; il culto della violenza come passaggio comunque necessario per la vittoria dei Buoni sui Cattivi; la convinzione che la bontà di un’azione dipendesse dal suo successo; l’Alto ( lo stato, il partito) che distribuisce verso il basso benefici e idee; e, infine e soprattutto, la cancellazione o la voluta limitazione del concetto di fraternità. Così da dimenticare che l’ultimo sostantivo della grande triade della rivoluzione francese dovrebbe essere il primo: perché senza la pratica della fraternità non ci potranno mai essere né la libertà né l’uguaglianza.
A questo punto l’orizzonte davanti a noi si è aperto ed è pieno di cose e di persone. Ma la nostra mente e le nostre viscere si sono atrofizzate al punto di non farcele né vedere né sentire.
E, allora, per ripartire, dobbiamo partire dall’Internazionale. Dalla musica; ma, in questo caso, anche dalle parole. Quelle che aprono una strofa; e quelle, finali, che illuminano di sé tutto il testo.
“Non c’è nessun Salvatore supremo, né Dio, né Cesare, né tribuno” ( in quegli anni qualcun altro ricordava che “l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”). E, alla fine, “l’Internazionale” sarà il genere umano”.. Facciamole rivivere dentro di noi fino che vedere di nuovo il sole dell’avvenire. E poi riprendiamo il cammino.
Il resto verrà da sé.