Agli inizi del movimento operaio il carattere di setta era pressoché inevitabile, a causa delle persecuzioni, della clandestinità e dell’influenza delle stesse organizzazioni rivoluzionarie borghesi. La Lega dei Giusti non sfuggiva a questa regola. Il superamento di tali limiti e la trasformazione in partito di classe avvenne sotto l’influenza di due fattori: il trasferimento del centro a Londra, dove era possibile il contatto con la classe operaia, e l’influenza crescente della forma più aggiornata di comunismo, elaborata da Marx ed Engels. Quest’ultimo li pose in contatto con i cartisti. Il primo congresso (estate del 1847), sotto la spinta di Engels e Wolff (Lupus), spazzò via tutto ciò che vi era di vecchio, regolamenti forme organizzative arcaiche, la terminologia settaria, e si costituì in partito di classe. Al vecchio motto “Tutti gli uomini sono fratelli” subentrò “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. In certi paesi, per ovvi motivi, fu necessario mantenere la clandestinità, ma il programma venne diffuso a livello internazionale. Il secondo congresso incaricò Marx ed Engels di redigere il Manifesto.
Al tempo dell’Internazionale, il problema si ripresentò in forme diverse. Molti non compresero che, se il proletariato non ha patria, ciò non significa ignorare la funzione storica della nazione, e la necessità di appoggiare i movimenti di liberazione nazionale. Bisognava lottare contro il rifiuto di fatto della politica estera e convincere l’Internazionale a battersi per la liberazione della Polonia. Marx voleva porre – come disse una volta- “tra l’Europa civile e la barbarie della Russia Zarista, una barriera di venti milioni di eroi”. Ricostituire uno stato polacco, nonostante l’arretratezza economica della Polonia e il permanere di una numerosa nobiltà, era necessario per lo stesso movimento operaio, e Marx lo pose come un punto fondamentale della politica dell’Internazionale.
Marx ed Engels non considerarono mai ugualmente pericolosi per la causa proletaria i diversi stati, e neppure le diverse potenze. Marx, nell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale degli operai (la I Internazionale), denunciava la Russia, non le nazioni minori (lettera ad Engels del 4 novembre 1864). I proudhoniani preferivano una generica protesta “contro tutti i dispotismi”. Ci sono anche l’Austria, la Prussia, la Francia, l’Inghilterra… – ripetevano- perché prendersela con la sola Russia? Bastava, per capire la posizione di Marx, analizzare la storia. La rivoluzione del 1848-1849 aveva dimostrato che l’impero d’Austria non era in grado di piegare la rivolta ungherese, mentre l’intervento zarista era stato determinante. La Russia zarista aveva operato sempre contro la rivoluzione, nelle guerre antigiacobine e antinapoleoniche. C’erano, inoltre, le recenti terribili repressioni in Polonia, e la conquista del Caucaso – per Marx, gli avvenimenti europei più importanti dal 1915 – tra la colpevole e autolesionistica indifferenza dell’Europa. Palmerston e Bonaparte avevano operato a vantaggio della Russia e la guerra dello Schleswig- Holstein era servita soltanto a buttar sabbia negli occhi di tedeschi e francesi sui grandi avvenimenti. (Marx ad Engels, 7 giugno 1864). Era essenziale che i lavoratori, o almeno i loro dirigenti, capissero questi problemi, altrimenti sarebbero stati continuamente truffati da politici pseudo progressisti, che in realtà collaboravano con lo zarismo.
I proudhoniani escludevano la donna da ogni attività politica, e chiedevano che restasse in casa, perché era “l’angelo del focolare”. Per il movimento operaio era una posizione suicida. La posizione di Marx è chiarissima: “Chiunque conosca un po’ la storia, sa che i grandi rivolgimenti storici non sono possibili senza il fermento femminile.” (Marx a Kugelmann, 12 dicembre 1868). Ma né lui né Engels confusero mai il problema dell’emancipazione della donna con le rivendicazioni del femminismo borghese.
La tendenza a escludere la politica dalle lotte operaie rendeva difficile il conseguimento di risultati rilevantissimi, come la riduzione per legge dell’orario di lavoro. Il 9 ottobre 1866 Marx scrive a Kugelmann: “I signori parigini avevano la testa piena delle più varie frasi proudhoniane. Essi cianciano di scienza e non sanno nulla. Disdegnano ogni azione rivoluzionaria, cioè ogni azione che scaturisca dalla lotta di classe stessa, ogni movimento sociale concentrato, tale, cioè che si possa attuare con mezzi politici (come per esempio la riduzione dell’orario di lavoro per legge) col pretesto della libertà e dell’antigovernativismo e dell’individualismo antiautoritario”
Una precisa caratterizzazione della setta la troviamo in una lettera a Schweitzer, capo dell’organizzazione lassalliana, ad un tempo settario e opportunista. La setta: 1) Vuole costruire un “suo proprio movimento operaio”.
2) Cerca la propria ragion d’esser non in ciò che ha in comune col movimento di classe, ma nel segno di riconoscimento speciale che la distingue da tale movimento.
3) Cerca la base della propria agitazione, non dagli elementi concreti del movimento delle classi, ma vuole prescrivere a tale movimento il suo corso in base a una certa ricetta dottrinale.
Marx non aveva ancora prove certe dei contatti di Schweitzer con Bismarck, per questo cercava ancora di discutere, ma la rottura in seguito divenne inevitabile. Saranno gli stessi lassalliani, qualche anno dopo, a cacciarlo.
Della polemica contro gli anarchici bisogna cogliere, più che gli aspetti contingenti, le questioni di principio. Per esempio, contro la visione bakuniniana dell’Internazionale come “embrione della futura società umana”, Engels risponde : “…l’Internazionale, quale modello della società futura, nella quale non ci saranno fucilazione di Versailles, tribunali militari, eserciti permanenti, violazioni delle lettere, tribunali militari… Proprio quando, come in questo momento, dobbiamo difendere la nostra pelle con tutta la nostra forza, il proletariato dovrebbe organizzarsi non tenendo conto dei bisogni della lotta…ma guardando alle rappresentazioni concepite da alcuni esseri fantasiosi su un’indefinita società futura.”(1) Il partito è uno strumento di lotta di classe, non una scuoletta e tantomeno un club di futurologi. Ma – succede nelle migliori famiglie – ogni tanto la teoria del partito come prefigurazione della società futura rispunta.
Altro punto su cui si dovette insistere fu quello dell’autorità, che molti nell’Internazionale ponevano in termini astratti, cioè “no a qualsiasi autorità”. Ma un conto è lo sfruttamento di classe, un’altra cosa le necessità di coordinamento del lavoro, che ci saranno anche nel socialismo. Per una ferrovia –dice Engels – “… la cooperazione d’una infinità d’individui è assolutamente necessaria; cooperazione che deve aver luogo a ore ben precise, perché non ne seguano disastri.” E’ importante che ci sia una guida riconosciuta da tutti, sia essa rappresentata da un solo delegato o da un comitato. “…gli antiautoritari domandano che lo stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere… domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione dell’autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione, questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari. Se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano agli avversari.”(2)
Una lezione di realismo è data pure da Marx, contro chi sottovalutava le concessioni strappate dagli operai nella lotta politica contro lo stato borghese. E precisa che “…tutte le armi per combattere bisogna prenderle nell’attuale società… le condizioni fatali di questa lotta hanno la disgrazia di non adattarsi alle fantasie idealiste che questi dottori in scienze sociali hanno innalzato a divinità, sotto i nomi di Libertà. Autonomia, Anarchia”. (3)
Più o meno nello stesso periodo, gli anarchici italiani si dichiaravano per la proprietà collettiva, ma dichiaravano di non riconoscere altra azione politica fuorché quella che conduce direttamente all’attuazione dei principi.(4) Questo valeva per gli anarchici italiani, perché l’unico legame obbligatori tra i soci dell’Internazionale doveva essere la solidarietà nella lotta economica, lasciando a federazioni, sezioni, nuclei, individui la libertà di seguire il programma che ritenevano migliore, purché non contrastasse con l’emancipazione del proletariato. E neppure le deliberazioni del congresso potevano essere considerate obbligatorie, perché avrebbero violato il principio di libertà e autonomia.
Ma c’era anche un settarismo di coloro che si ritengono gli ortodossi del marxismo: gli emigranti tedeschi negli Stati Uniti che, convinti della loro superiorità teorica sugli empirici americani, non cercavano la fusione in un unico movimento di classe, e spesso non cercavano neppure di impadronirsi della lingua del paese. I movimenti operai di differenti paesi hanno una loro storia specifica, e presentano diversi pregiudizi, ma il modo corretto per aiutarli a correggerli non è il rifiuto dei contatti. Si collabora in ciò che possibile, e la polemica deve essere finalizzata al ricupero delle forze sane, non alla frattura, salvo i casi di evidente e reiterato opportunismo.
Si dirà: tutti questi sono problemi dell’Ottocento, non ha senso riproporli. Eppure, in un ambiente diverso e in forma diversa, alcuni di questi errori si ripropongono oggi. E’ nota l’estrema frammentazione delle forze che si richiamano al comunismo. Molti gruppi sono assai più orgogliosi di quello che li distingue dagli altri che di quello che unifica i lavoratori. Abbiamo il paradosso di partitini che hanno la stessa origine e lo stesso programma, ma non perdono occasione per polemizzare fra loro. Eppure, senza una collaborazione, almeno su temi specifici, non è possibile, ad esempio, una lotta contro la deriva militarista che ci coinvolge sempre più, alla quale si risponde con dichiarazioni o volantini simili nelle parole d’ordine e nella forma, ma col rifiuto di coordinarsi con gli altri.
Nella politica estera, al criterio marxista di individuare la potenza o le potenze più pericolose, talvolta viene sostituito quello proudhoniano di metterle tutte sullo stesso piano. Eppure è sotto gli occhi di tutti l’estrema aggressività degli Stati Uniti, che stanno portando avanti rivoluzione colorate per riconquistare il controllo dell’America latina, e utilizzano servi sciocchi quali Hollande, Cameron, Renzi come apripista per la penetrazione in Africa ( Ci siamo mai chiesti perché la classe dirigente USA ha permesso l’elezione di un presidente con ascendenza africana? Solo per motivi di politica interna, per conquistare il voto degli Afroamericani?). Gli USA hanno forme di collaborazione militare con quasi tutti i paesi africani, dove provvedono alla formazione di militari golpisti secondo il modello Pinochet. Ci stanno portando in guerra, e la maggioranza dei lavoratori, dei disoccupati, dei pensionati, neppure se ne rende conto. Ci sono, è vero altre potenze, che potrebbero guadagnare terreno, e vanno smascherate, ma il pericolo immediato, il nemico in casa nostra, che colloca atomiche nel nostro territorio senza neppure informare il “nostro” governo dell’ubicazione effettiva, che controlla i “nostri” servizi segreti, che ha trasformato certe zone del nostro paese in proprie riserve, dove agisce incurante dei pericoli per la popolazione, qual è? L’egemonia mondiale USA non è più incontrastata, ma la tigre è più feroce quando teme l’accerchiamento. Non mirano più all’occupazione diretta dei paesi, come al tempo del Vietnam, è sufficiente devastarli e trasformarli in stati falliti. Nel 1864 il maggior nemico era lo zarismo, oggi è la classe dirigente americana, con tutta la sua corte di satelliti. E in questa lotta, un peso particolare dovrà averlo il proletariato USA, senza il cui intervento la lotta è disperata.
Per una visione completa non basta l’analisi economica, per quanto puntuale. Bisogna anche cercare di conoscere le vicende diplomatiche e dei servizi segreti. Non si tratta di dietrologia. Non basta dire che il colpevole delle stragi è il capitalismo. I nostri grandi predecessori non hanno mai fatto così, hanno denunciato le trame della diplomazia russa, di Palmerston, di Napoleone III, di Thiers, le alleanze segrete di liberali inglesi e zarismo, denunciando gli intrighi, utilizzando persino giornali di destra, come quelli di Urquhart, filoturchi e antirussi.
Note
1) Friedrich Engels, “Il congresso di Sonvillier e l’Internazionale (1872)
2) Friedrich Engels, “Dell’autorità” (1872-1873), pubblicato da Bignami, Almanacco repubblicano per l’anno 1874.
3)Karl Marx, “L’indifferenza in materia politica” (1872-1873), pubblicato da Bignami, Almanacco repubblicano per l’anno 1874.
4) Federazione regionale italiana, Secondo congresso federale, Bologna, 15- 17 marzo 1873.