“I confini contano” di Frank Furedi (Meltemi) tenta di descrivere le innumerevoli prove dell’ormai assoluta incapacità della nostra civiltà di distinguere fra giusto e sbagliato come fra vero e falso
Eleggendo a proprio eroe Fedez, il patinato influencer sponsorizzato da Amazon (multinazionale nota per i tassi di sfruttamento che impone ai dipendenti), la sinistra ha toccato il punto più basso (eppure sembrava impossibile scendere ancora) della sua ignobile storia recente. Eppure tutto era già inscritto nella mutazione culturale iniziata negli anni 80 e giunta ora a pieno compimento. Dopo avere pubblicato Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, di Jonathan Friedman, Meltemi offre un nuovo contributo alla descrizione di questo processo degenerativo mandando in libreria I confini contano, di Frank Furedi. Un libro difficile da sintetizzare, visto che tenta di descrivere le innumerevoli prove dell’ormai assoluta incapacità della nostra civiltà di distinguere fra giusto e sbagliato come fra vero e falso. Proverò a condensarne i contenuti in sei stazioni.
1) Ideologia cosmopolita. Una classe “globalista” di professionisti e manager, sempre in viaggio d’affari (finché la pandemia non li ha bloccati), ha sviluppato nei confronti dei confini un’ideologia radicalmente diversa da quella dei miliardi di persone che ancora organizzano la loro vita in base all’appartenenza territoriale. In ragione di tale ideologia – alla quale il sociologo tedesco Ulrich Beck ha dato una patina scientifica – il cosmopolitismo si è convertito da prospettiva morale in dogmatica anti comunitaria. Il protagonista della “rivoluzione cosmopolita” auspicata da Beck è infatti un “cittadino globale” la cui identità appare affrancata dal luogo di nascita e da legami comunitari. In questa visione contano solo quegli individui che non appartengono ad alcuna comunità prepolitica (requisito immaginario, in quanto di fatto impossibile) e i cui diritti sono inscritti in un’etica umanitaria transnazionale che dovrebbe soppiantare lo status di cittadino di una nazione. Ma se questa figura astratta – che Marx avrebbe definito come una robinsonata – può essere utilizzata per sostenere i diritti di immigrati e rifugiati, il suo concreto effetto politico è assai meno “progressista”: alla tendenza delle élite politico-culturali europee a percepirsi come de territorializzate, corrisponde infatti l’ostilità nei confronti dei popoli e delle democrazie nazionali, nonché il progetto di accentrare il potere nelle mani delle oligarchie transnazionali.
2) Apologia dell’apertura. Se Beck è il nume tutelare del cosmopolitismo, a Karl Popper spetta il ruolo di campione della “società aperta”. Per costui le società chiuse sono alveari collettivisti ai cui membri è vietato assumere decisioni personali, ecco perché valuta positivamente (atteggiamento condiviso da Antonio Negri) gli imperi, in quanto dotati di istituzioni più aperte e illuminate, e ne giustifica il diritto di intervento (cioè l’imperialismo) negli affari interni delle comunità chiuse onde indurle all’apertura. Ma l’elevazione dell’apertura a valore in sé e per sé va al di là del tema dei confini fisici: si incoraggia l’esibizione dei pensieri intimi (chi apprezza la riservatezza ha qualcosa da nascondere); le solidarietà prepolitiche tipiche di famiglie, comunità amicali, fedi religiose, ecc. sono bollate come vincoli arcaici da sciogliere; il personale viene politicizzato (aderendo al noto slogan femminista), per cui i politici vengono valutati per le qualità personali più che per le idee, e si sostiene che i problemi sociali si risolvono cambiando i comportamenti personali; infine l’esaltazione della trasparenza fine a sé stessa fa sì che i media si trasformino in scenari di esibizioni pornografiche di sofferenze, sentimenti, performance erotiche, ecc.
3) Condanna del pensiero binario e del “giudicazionismo”. Gli esseri umani non hanno mai potuto fare a meno di pensare in termini binari. Ciò non vale solo per la religione e il mito – si pensi all’analisi strutturale di Levi Strauss – ma anche per il moderno pensiero scientifico e filosofico (la contraddizione dialettica rispecchia il fatto che nel mondo esistono forze contrastanti). Ma le casematte accademiche del postmodernismo hanno scatenato una vera e propria crociata contro il pensiero binario. L’appello a infrangerne i confini è uscito dalle università per investire il resto del mondo: le opposizioni uomo/donna, normale/anormale, ecc. vengono messe al bando come strumenti di discriminazione, le idee binarie in campo sessuale tacciate di transfobia; la trasgressione dei confini istituiti dal pensiero binario è esaltata come un bene in sé (mentre si svuota paradossalmente di senso in quanto ormai priva di oggetto e percepita come la nuova normalità). Il divieto di tracciare confini simbolici conduce a quello che Furedi chiama il “non giudicazionismo”: esprimere giudizi morali è percepito come un atteggiamento negativo in quanto discriminatorio; la critica è condannata come un atto violento, una “micro aggressione” (lo dico come donna, come gay, ecc. quindi se mi critichi attacchi le donne e i gay). Ma questa rinuncia al giudizio, scrive Furedi, implica di fatto la rinuncia alla ricerca della verità (tutto diventa relativo, ogni cosa dipende dal punto di vista del soggetto che parla, asserisce, guarda, ecc.).
4) Rifiuto dei confini simbolici. L’animosità nei confronti dei confini si estende alle frontiere simboliche. La barriera fra adulti e bambini diventa fluida: gli adulti si infantilizzano (abdicando alle proprie responsabilità) i piccoli si adultificano; infanzia e adolescenza si allungano a dismisura, i bambini divengono oggetto di venerazione e i politici e i media predicano in continuazione la necessità di “ascoltare i giovani” (una ragazzina svedese assurge a icona dell’ambientalismo globale, si propone di estendere il voto ai sedicenni, ecc.). Si danno nomi neutri ai bimbi e li si veste in modo indefinito perché saranno loro a “decidere” la loro appartenenza di genere. L’ambivalenza, l’ibridismo, la fluidità e la trasgressione vengono visti con favore e promossi in ogni contesto, dalla scuola, alla politica, ai media.
5) La domanda di nuovi confini. Paradossalmente, osserva Furedi, i crociati dell’abolizione dei confini si trasformano in inflessibili sentinelle dei nuovi confini che loro stessi erigono di continuo, vale a dire quei nuovi confini identitari che spesso appaiono più divisivi (e perfino violenti) di quelli tradizionali: il linguaggio viene costretto a forza (con sprezzo del ridicolo) nella gabbia del politicamente corretto, perché non minacci la sicurezza emotiva delle persone; dopo avere lottato contro la censura imposta dai vecchi pregiudizi, si invocano leggi e codici comportamentali che proteggano dall’esposizione a idee che possono mettere a disagio presunti soggetti “fragili”; solo le donne (i neri, i trans ecc.) possono scrivere su (o interpretare) personaggi femminili (di colore, queer, ecc.).
6) I confini contano. Furedi accompagna questa cavalcata fra i deliri del pensiero “fluidificante” con altrettanti controcanti: L’esercizio della democrazia è impossibile senza confini, perché solo lo stato nazione garantisce solidarietà e fiducia, mentre deterritorializzare la sovranità significa ridurre le persone a individui astratti incapaci di dare senso a diritti e doveri. I confini sono un’invenzione? Certamente, ma non una invenzione casuale e arbitraria, bensì il prodotto della storia di una determinata comunità (nascere in un certo luogo non è una scelta, ma conta eccome per definire chi sei o non sei). E nemmeno i confini simbolici sono invenzioni causali e arbitrarie, bensì un sistema di differenze storicamente strutturate che possono essere criticate ma non abolite, se non pagando lo scotto del proliferare dei soggetti egocentrici e narcisisti che ammorba la società e la cultura occidentali.
Detto che trovo corretta ed esaustiva l’analisi fenomenologica dei fenomeni appena descritti, mi pare che il lavoro di Furedi sconti un grosso limite: ignora le radici oggettive, socioeconomiche, di ciò che analizza, addebitandolo a una sorta di degrado ideale, di impazzimento collettivo. Ma se è sbagliato instaurare un rapporto meccanico di causa ed effetto fra cultura no border e mutazioni del capitalismo (globalizzazione, finanziarizzazione, ecc.), e della composizione di classe (l’ideologia descritta da Furedi è appannaggio dei ceti medi emergenti), è più sbagliato rimuovere il fatto che quella cultura, incubata dai dipartimenti universitari americani, non avrebbe potuto invadere l’intero mondo occidentale se non fosse stata funzionale agli interessi politici ed economici di ben definiti strati sociali.
Fonte articolo: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20330-carlo-formenti-senza-giudizio-non-esiste-verita.html