La forma-partito nella società liquida.
Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?
Dal 3 al 5 Luglio si svolgerà a Via Monte testaccio a Roma la Festa Comunista, organizzata dal Partito Comunista di Marco Rizzo e compagni, che cerca – nella palude teorica e politica italiana, di ridare voce e prospettiva ad un’analisi marxista della società capitalistica e finanziaria contemporanea.
Un tentativo ambizioso e forse titanico ma per molti ritenuto necessario, per aprire una seria e profonda riflessione sul “caos” odierno e per tentare di ridefinire un’alternativa di sistema all’attuale ordine mondiale, ridando la parola ai popoli e ai lavoratori, costruendo (assieme per esempio alla coalizione sociale di Landini e di parte della Fiom) quel fronte rappresentativo del mondo del lavoro, oggi indispensabile per ridefinire qualsivoglia azione di rivendicazione e di lotta sociale, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Impossibile su questo, non essere d’accordo; chi scrive è del tutto convinto che questa è la strada maestra da intraprendere. Dare voce e rappresentanza ad un mondo del lavoro quanto mai diviso e frammentato, precarizzato e disperso, atomizzato ed alienato; assuefatto alla barbarie e allo sfruttamento come dati “naturali” del sistema e della vita quotidiana. E dall’altro, riaprire una discussione sul superamento del lavoro come merce, oggetto di scambio per sopravvivere alla meno peggio, accettando qualsiasi ricatto al ribasso pur di “fare qualcosa”, per ridare diritti e dignità al lavoro come prospettiva concreta di vita individuale e collettiva, luogo e progetto in cui ripensare l’azione quotidiana e l’utopia futura; il lavoro dunque, non solo come trasformazione della natura da parte dell’uomo, ma come avrebbe detto Marx, ridefinizione naturale dell’uomo come ente storico capace di trasformare se stesso trasformando la natura che ha intorno a sé. Il lavoro sociale come riqualificazione totale dell’umano come umanità agente che muta se stessa mutando la storia, che fa la storia ripensando se stessa e la realtà che vive, in una parola: un nuovo umanesimo dell’agire.
Il problema sta però nella forma e nei modi teorici e politici con cui tale progetto vuole proporsi.
Da leninista convinto, non posso non vedere nel partito, per essere più precisi nella forma-partito, l’indispensabile strumento teorico-organizzativo (Gramsci lo definì l’intellettuale collettivo) per dare coscienza, visione tattica e strategica, formazione e disciplina alla classe (o a quella che oggi possiamo chiamare fronte del lavoro salariato subalterno e precario). Non c’è dubbio. Lenin ci ha insegnato e con lui la Rivoluzione russa in special modo, che senza la guida di quello che lui chiamava il partito-scienza (a differenza di quanto credevano gli spartachisti tedeschi e Rosa Luxemburg in particolare), il partito-strategia, non c’è prospettiva rivoluzionaria, non c’è l’analisi concreta della situazione concreta, non c’è formazione dei quadri dirigenti che devono dirigere la rivoluzione nel momento della rottura dell’equilibrio mondiale, non c’è coscienza dei compiti fondamentali del proletariato nel momento decisivo della presa del potere e del rovesciamento dello stato e dei rapporti di produzione e di forza imperialistici.
Impossibile, qui dilungarsi su tale scontro tra riformisti e rivoluzionari che non solo animano e hanno animato ogni spinta rivoluzionaria della storia (basti pensare allo scontro tra Danton e Robespierre durante il Terrore Giacobino) ma hanno segnato in modo indelebile tutto il movimento comunista mondiale, fin dai suoi esordi, e che segna tutt’oggi – anche dopo il secolo breve e la cesura drammatica dell’89 – la definizione stessa di alternativa di sistema e amministrazione neo-liberista dell’esistente. Né è possibile addentrarsi – forse in un altro saggio – sul ruolo storico positivo o negativo di tale visione leninista del partito e se viceversa la linea massimalista e “sindacalista” avrebbe forse indicato una prospettiva più fluida ed umana, rispetto a quella bolscevica che comunque – va ricordato – vinse nei fatti e prevalse nella realtà sconfiggendo quella spartachista (inabile a dare voce alle spinte rivoluzionarie tedesche di quegli anni, ferma com’era ad un astratto intellettualismo messianico) realizzando in Russia, in un paese arretrato e semi feudale, la prima rivoluzione socialista della storia.
Ma ciò che è certo è che quella forma-partito era prodotto di un movimento reale (di una storia lunga 150 anni sulle cui macerie oggi siamo sepolti orfani di quella prospettiva che ha imbrigliato generazioni di lavoratori), di una società rigida, centralizzata, certa delle sue strutture e dei suoi ruoli egemonici, ferma nei suoi rapporti di potere e di classe, ferrea nella sua riproduzione basica umana, antropologica e formativa. Una forma-partito prodotta da una società costituita e non da una congerie astratta di individui enti-atomizzati, parcellizzati-precarizzati-flessibilizzati a cui si rispecchiava per così dire “dialetticamente”, essendone al tempo stesso prodotto determinato e critica radicale in medias res.
Tale forma-partito per me oggi, nella società cosiddetta “liquida” (concetto reso noto dal famoso sociologo Baumann che va senza dubbio preso con le molle e sviscerato nella sua complessità ma con cui occorre, a mio avviso, fare i conti in quanto coglie, forse solo sovrastrutturalmente, l’essenza dei nostri tempi fluidi), nella comunità in-comunicabile, in cui scompare ogni appartenenza direbbe Agamben, in cui ogni utopia di lungo respiro viene meno a tutto vantaggio del rituale sacrificio quotidiano alla sopravvivenza, in cui si è soli senza poter far parte di nulla se non della propria intima e personale paura del presente e del futuro, di un relativismo assoluto e astraente, di un mito ideologico della rete come democrazia universale e trasversale in cui uno vale uno (quando ad una più attenta lettura materialistica ci si rende ben conto che anche il mondo della rete è mondo di potere e in cui uno non vale uno, anzi in cui si riflette in modo ancora più subdolo le ineguaglianze e le contraddizioni del movimento reale e lo sfruttamento “antropologico” capitalistico), rischia di non trovare un luogo in cui poter esistere, in cui poter svolgere la sua storica funzione di catalizzatore di forze ed energia umane per la trasformazione della società nella società.
Non vorrei essere dogmatico, ma ad una società liquida non può che corrispondere un partito liquido; o per meglio dire “liquidato” nelle sue tradizionali funzioni direttive e dirigenti. Forse la mia è un asserzione ingenua o limitata; il progetto di ricostruzione di un partito comunista in Italia, può – se riuscirà a dare concretezza teorico-pratica al suo divenire – trasformare questa mia asserzione in un punto di domanda e aprire una discussione sulla necessità in una società liquida di un elemento di “coerente” alternativa, parlando tuttavia ad una umanità che dopo l’89 si è convinta (è stata indotta a farlo ideologicamente) che la parola marxismo e “prospettiva comunista” non abbiano più senso storico né abbiano una reale pregnanza con i fatti dell’oggi e i riflessi di domani.
Questa è a mio avviso la sfida più grande; ridare forza e attualità (perché le condizioni storiche ed economiche ci sono) a quelle parole e a quel progetto di umana “redenzione” che portano con sé, in un momento in cui la crisi finanziaria e la barbarie (anche terroristica) della lotta tra le potenze imperialistiche ridanno terreno e legittimità – anzi necessità – all’analisi marxista-leninista delle relazioni internazionali e della ristrutturazione europea e mondiale in atto (ascesa dei BRIC e declino delle vecchie potenze e con annessa ridefinizione delle aree di influenza geo-politica), in un momento tuttavia in cui questa stessa prospettiva generale di critica-lotta-trasformazione non è mai stata così lontana dal dibattito politico e dall’azione concreta (se non di alcuni settori avanzati e già coscienti e provenienti da quella storia) del popolo e delle cosiddette masse lavoratrici.
Il rischio che io vedo è che, al di là delle buone intenzioni e della volontà dei singoli, tale progetto, seppur sempre più necessario e urgente, rimanga isolato e caratterizzato come il solito progetto intellettualoide di qualche giornalista e professore che tenta disperatamente di fare “resuscitare” un Lazzaro ormai irrecuperabile (anche per le trasformazioni radicali e profonde avvenute nel mondo della comunicazione e della informazione, del linguaggio e dell’uso e dall’abuso di certe espressioni e parole ormai bandite e irricevibili ed incomprensibili dalla società), sacrificando alla necessaria concretezza dell’operazione la nostalgia velata di ciò che è svanito e non sarà più possibile recuperare (anche per non poche colpe della dirigenza dell’epoca che ha liquidato troppo in fretta una storia che viceversa andava rispettava e studiata con maggiore attenzione senza buttare via il bambino con l’acqua sporca). E’ davvero molto arduo se non impossibile fare politica, pretendere di inserirsi in lotte di tale portata, imporsi di governare dal basso processi di tale complessità e conseguenze dirette, interne e internazionali, con la nostalgia ammantata di rincorsa ossessiva al nuovo o peggio al “nuovismo” o col copia e incolla; è una battaglia, a mio avviso, persa in partenza. Uno spettacolo, onestamente, già visto troppe volte, da disertare.
Certo, la lotta politica è questo; lottare nel movimento reale affinché ciò che fino a poco prima era considerato impossibile e irrealizzabile diventi possibile e per ciò stesso realizzabile. Formare, cioè dare forma a ciò che sembra a prima vista informe e disperso; dare prospettiva e slancio concreto a ciò che era considerata una pia speranza; in questo crinale, in questa soglia direbbe Agamben si gioca tutta la rischiosa partita del politico. Se l’umanità non si fosse educata a tal compito noi oggi saremmo ancora nelle grotte a fare il fuoco con i legnetti, e a credere che il fulmine sia un Dio cattivo e vendicativo.
Ma la politica è anche concretezza, è quell’analisi concreta della situazione concreta di cui parlava con vanto Lenin. Il primo compito del rivoluzionario e del materialista è fare i conti, per quanto possibile, con l’attualità e l’oggettività concreta del proprio progetto e della propria prospettiva, valutando se ci sono le condizioni e le forze per portarla avanti e se c’è soprattutto un elemento (un tempo si sarebbe detto un soggetto rivoluzionario) capace, nel mondo frammentato-scisso-precarizzato di oggi, di far propria questa prospettiva e di informarne l’intera società globale.
Il problema dunque è quello, a mio avviso, gramsciano dell’egemonia; di costruire un’appartenenza attraverso l’egemonia sociale e culturale, valoriale (oltre che economica) e di “imporre” un’egemonia e un’accettazione trasversale attraverso il rafforzamento e la ridefinizione di un’identità e di un’appartenenza valoriale ed ideale ad un modo di vivere e di fare e di concepire la politica e la res pubblica (qui ed ora e come potenza che si fa atto), condivisa non solo dai singoli ma legittimata e riconosciuta e oso dire accettata (non passivamente sia chiaro ma come realtà ed interlocutore con cui parlare e con cui si deve fare per forza di cose i conti), dalla società intera, come rappresentante di un intero mondo dimenticato e bistrattato, reso inoffensivo; quello del lavoro.
Non voglio che la nostalgia prevalga e condizioni i progetti e le scelte politiche ma se si prende come riferimento ideale (Luporini direbbe “regolativo” parafrasando Kant) quel famoso PCI, abbiamo di fronte un partito di massa (che ai leninisti duri e puri non va di certo a genio, amanti del partito di quadri rivoluzionari d’avanguardia), che era in grado, per via della sua forza organizzativa e di tradizione che guardava avanti, di unire insieme nella stessa lotta ceti e interessi sociali ed economici, psicologie ed esperienze molto diverse tra loro, spesso divergenti. Univa nella medesima lotta e nella medesima utopia trasformativa – alle volte positivamente riformista accettando forse compromessi inaccettabili per un partito autenticamente rivoluzionario e marxista-leninista – l’ingegnere e l’operaio massa, il contadino e il professionista, la casalinga e lo studente, nord e sud, città e campagna, se vogliamo est ed ovest. Allora, è precisamente questa dimensione e prospettiva di “massa”, oso dire pedagogico formativa, valoriale ed ideale, concreta ed utopica, di “uomo nuovo da costruire” (so che è un’espressione che fa tremare i polsi ma tant’è) che dobbiamo recuperare affinché tale progetto ambizioso possa poggiare su basi e fondamenta solide e di lungo respiro; altrimenti siamo, come si diceva, all’ennesima riproposizione di una nascita infinita di un qualcosa (la famosa “cosa” morettiana) che non nasce mai, un parto eternamente abortito, a tutto svantaggio di quel popolo e di quegli interessi che ad oggi attendono ancora qualcuno che li rappresenti e faccia davvero i loro interessi, dentro e fuori dalla fabbrica, dentro la società e al di là delle misere beghe parlamentariste. Certo, la su ricordata società “liquida”, del relativismo assoluto astraente ed atomizzante non aiuta; né so se questo progetto di ricostruzione del partito comunista né i suoi dirigenti siano all’altezza del compito immane che si sono proposti. Un compito, come abbiamo detto, oltre che prettamente socio-economico anche e soprattutto culturale, valoriale e schiettamente antropologico, nel capire che tipo di umanità abbiamo di fronte e che tipo di uomo storico vogliamo costruire, perché un partito o un movimento che non si pone come obiettivo principe quello di “educare” con la lotta e l’esempio e che non miri alla trasformazione radicale degli uomini che vi militano trasformando con essi dialetticamente il partito e il movimento stesso e ciò che li circonda, beh, non ha per me motivo di esistere né di proporsi come alternativa al sistema alienante e disumanizzante dominante.
Il rischio è concreto; da progetto di liberazione e di necessità critica della liquidità presente (che in realtà è rigida e disumana come o forse più dei tempi di Marx) si possa invertire involontariamente in una speranza elitaria di ricostruire su basi nuove (?) ciò che è definitivamente morto e in parte condannato – a torto o a ragione -dalla storia (una storia beninteso che deve essere ancora esaustivamente studiata) e bollato senz’appello dalla coscienza civile della stragrande maggioranza della popolazione e da buona parte di quel mondo del lavoro che si vorrebbe rappresentare e portare a maturazione.
Non si può dunque prescindere da questo. Non si può prescindere – se parliamo di prospettiva comunista – da ciò che il comunismo e la storia comunista soprattutto del Novecento ha rappresentato e ciò che la rottura del ’89 ha prodotto nelle coscienze e nei fatti nel famoso popolo della sinistra.
Impossibile qui aprire una discussione su temi così enormi e di tali implicazioni storiche e politiche, ma la battaglia per la ricostruzione di un partito che si autodefinisce comunista, deve avere come obiettivo principale, per essere credibile e rappresentare davvero il “nuovo” e per dirla con Marx “il progresso” (inteso non solo come progresso delle forze produttive cioè il socialismo ma come progresso e la realizzazione concreta dell’umanità libera e associata) quello di fare i conti con la propria storia scavando in profondità, facendo pulizia negli angoli bui senza incertezze e ambiguità, smettendola di inneggiare a regimi che nulla hanno di socialista (penso alla Cina e alla Corea del Nord) e di vagheggiare prospettive strategiche e soggetti “alternativi” che nella realtà non ci sono o se ci sono rappresentano solo una minima parte di quel mondo che si vuole intercettare; la battaglia è dunque politica e culturale ad un tempo: politica in quanto capacità di connettere dialetticamente il progetto, l’utopia concreta alla realtà concreta (ascoltando le proposte e le idee di quei soggetti che si vuole rappresentare piuttosto che “imporgli” dall’alto un modello di partito tradizionale, centralizzato che non può rappresentare la fluidità e il dinamismo “positivo” della fase attuale) e dall’altra informare la società e i settori produttivi (sempre più frammentati e divisi) della validità e della pregnanza umana e trasformatrice, de-feticizzante e disalienante di tale prospettiva, di rinnovamento antropologico e umanistico che tale battaglia porta con sé. Solo così potremo ridefinire un’umanità non più “a casa propria nell’alienazione” e nell’accettazione naturalistica del proprio sfruttamento e della propria disumanizzazione quotidiana, solo così la parola comunismo e partito, potranno ritrovare legittimità e appoggio popolare; lottando per ridare all’uomo il suo concreto agire nel mondo per trasformarlo non essendone più cieca e sorda vittima sacrificale.
Claudio Vettraino