Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?

La forma-partito nella società liquida.

Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?

Dal 3 al 5 Luglio si svolgerà a Via Monte testaccio a Roma la Festa Comunista, organizzata dal Partito Comunista di Marco Rizzo e compagni, che cerca – nella palude teorica e politica italiana, di ridare voce e prospettiva ad un’analisi marxista della società capitalistica e finanziaria contemporanea.
Un tentativo ambizioso e forse titanico ma per molti ritenuto necessario, per aprire una seria e profonda riflessione sul “caos” odierno e per tentare di ridefinire un’alternativa di sistema all’attuale ordine mondiale, ridando la parola ai popoli e ai lavoratori, costruendo (assieme per esempio alla coalizione sociale di Landini e di parte della Fiom) quel fronte rappresentativo del mondo del lavoro, oggi indispensabile per ridefinire qualsivoglia azione di rivendicazione e di lotta sociale, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Impossibile su questo, non essere d’accordo; chi scrive è del tutto convinto che questa è la strada maestra da intraprendere. Dare voce e rappresentanza ad un mondo del lavoro quanto mai diviso e frammentato, precarizzato e disperso, atomizzato ed alienato; assuefatto alla barbarie e allo sfruttamento come dati “naturali” del sistema e della vita quotidiana. E dall’altro, riaprire una discussione sul superamento del lavoro come merce, oggetto di scambio per sopravvivere alla meno peggio, accettando qualsiasi ricatto al ribasso pur di “fare qualcosa”, per ridare diritti e dignità al lavoro come prospettiva concreta di vita individuale e collettiva, luogo e progetto in cui ripensare l’azione quotidiana e l’utopia futura; il lavoro dunque, non solo come trasformazione della natura da parte dell’uomo, ma come avrebbe detto Marx, ridefinizione naturale dell’uomo come ente storico capace di trasformare se stesso trasformando la natura che ha intorno a sé. Il lavoro sociale come riqualificazione totale dell’umano come umanità agente che muta se stessa mutando la storia, che fa la storia ripensando se stessa e la realtà che vive, in una parola: un nuovo umanesimo dell’agire.
Il problema sta però nella forma e nei modi teorici e politici con cui tale progetto vuole proporsi.
Da leninista convinto, non posso non vedere nel partito, per essere più precisi nella forma-partito, l’indispensabile strumento teorico-organizzativo (Gramsci lo definì l’intellettuale collettivo) per dare coscienza, visione tattica e strategica, formazione e disciplina alla classe (o a quella che oggi possiamo chiamare fronte del lavoro salariato subalterno e precario). Non c’è dubbio. Lenin ci ha insegnato e con lui la Rivoluzione russa in special modo, che senza la guida di quello che lui chiamava il partito-scienza (a differenza di quanto credevano gli spartachisti tedeschi e Rosa Luxemburg in particolare), il partito-strategia, non c’è prospettiva rivoluzionaria, non c’è l’analisi concreta della situazione concreta, non c’è formazione dei quadri dirigenti che devono dirigere la rivoluzione nel momento della rottura dell’equilibrio mondiale, non c’è coscienza dei compiti fondamentali del proletariato nel momento decisivo della presa del potere e del rovesciamento dello stato e dei rapporti di produzione e di forza imperialistici.
Impossibile, qui dilungarsi su tale scontro tra riformisti e rivoluzionari che non solo animano e hanno animato ogni spinta rivoluzionaria della storia (basti pensare allo scontro tra Danton e Robespierre durante il Terrore Giacobino) ma hanno segnato in modo indelebile tutto il movimento comunista mondiale, fin dai suoi esordi, e che segna tutt’oggi – anche dopo il secolo breve e la cesura drammatica dell’89 – la definizione stessa di alternativa di sistema e amministrazione neo-liberista dell’esistente. Né è possibile addentrarsi – forse in un altro saggio – sul ruolo storico positivo o negativo di tale visione leninista del partito e se viceversa la linea massimalista e “sindacalista” avrebbe forse indicato una prospettiva più fluida ed umana, rispetto a quella bolscevica che comunque – va ricordato – vinse nei fatti e prevalse nella realtà sconfiggendo quella spartachista (inabile a dare voce alle spinte rivoluzionarie tedesche di quegli anni, ferma com’era ad un astratto intellettualismo messianico) realizzando in Russia, in un paese arretrato e semi feudale, la prima rivoluzione socialista della storia.
Ma ciò che è certo è che quella forma-partito era prodotto di un movimento reale (di una storia lunga 150 anni sulle cui macerie oggi siamo sepolti orfani di quella prospettiva che ha imbrigliato generazioni di lavoratori), di una società rigida, centralizzata, certa delle sue strutture e dei suoi ruoli egemonici, ferma nei suoi rapporti di potere e di classe, ferrea nella sua riproduzione basica umana, antropologica e formativa. Una forma-partito prodotta da una società costituita e non da una congerie astratta di individui enti-atomizzati, parcellizzati-precarizzati-flessibilizzati a cui si rispecchiava per così dire “dialetticamente”, essendone al tempo stesso prodotto determinato e critica radicale in medias res.
Tale forma-partito per me oggi, nella società cosiddetta “liquida” (concetto reso noto dal famoso sociologo Baumann che va senza dubbio preso con le molle e sviscerato nella sua complessità ma con cui occorre, a mio avviso, fare i conti in quanto coglie, forse solo sovrastrutturalmente, l’essenza dei nostri tempi fluidi), nella comunità in-comunicabile, in cui scompare ogni appartenenza direbbe Agamben, in cui ogni utopia di lungo respiro viene meno a tutto vantaggio del rituale sacrificio quotidiano alla sopravvivenza, in cui si è soli senza poter far parte di nulla se non della propria intima e personale paura del presente e del futuro, di un relativismo assoluto e astraente, di un mito ideologico della rete come democrazia universale e trasversale in cui uno vale uno (quando ad una più attenta lettura materialistica ci si rende ben conto che anche il mondo della rete è mondo di potere e in cui uno non vale uno, anzi in cui si riflette in modo ancora più subdolo le ineguaglianze e le contraddizioni del movimento reale e lo sfruttamento “antropologico” capitalistico), rischia di non trovare un luogo in cui poter esistere, in cui poter svolgere la sua storica funzione di catalizzatore di forze ed energia umane per la trasformazione della società nella società.
Non vorrei essere dogmatico, ma ad una società liquida non può che corrispondere un partito liquido; o per meglio dire “liquidato” nelle sue tradizionali funzioni direttive e dirigenti. Forse la mia è un asserzione ingenua o limitata; il progetto di ricostruzione di un partito comunista in Italia, può – se riuscirà a dare concretezza teorico-pratica al suo divenire – trasformare questa mia asserzione in un punto di domanda e aprire una discussione sulla necessità in una società liquida di un elemento di “coerente” alternativa, parlando tuttavia ad una umanità che dopo l’89 si è convinta (è stata indotta a farlo ideologicamente) che la parola marxismo e “prospettiva comunista” non abbiano più senso storico né abbiano una reale pregnanza con i fatti dell’oggi e i riflessi di domani.
Questa è a mio avviso la sfida più grande; ridare forza e attualità (perché le condizioni storiche ed economiche ci sono) a quelle parole e a quel progetto di umana “redenzione” che portano con sé, in un momento in cui la crisi finanziaria e la barbarie (anche terroristica) della lotta tra le potenze imperialistiche ridanno terreno e legittimità – anzi necessità – all’analisi marxista-leninista delle relazioni internazionali e della ristrutturazione europea e mondiale in atto (ascesa dei BRIC e declino delle vecchie potenze e con annessa ridefinizione delle aree di influenza geo-politica), in un momento tuttavia in cui questa stessa prospettiva generale di critica-lotta-trasformazione non è mai stata così lontana dal dibattito politico e dall’azione concreta (se non di alcuni settori avanzati e già coscienti e provenienti da quella storia) del popolo e delle cosiddette masse lavoratrici.
Il rischio che io vedo è che, al di là delle buone intenzioni e della volontà dei singoli, tale progetto, seppur sempre più necessario e urgente, rimanga isolato e caratterizzato come il solito progetto intellettualoide di qualche giornalista e professore che tenta disperatamente di fare “resuscitare” un Lazzaro ormai irrecuperabile (anche per le trasformazioni radicali e profonde avvenute nel mondo della comunicazione e della informazione, del linguaggio e dell’uso e dall’abuso di certe espressioni e parole ormai bandite e irricevibili ed incomprensibili dalla società), sacrificando alla necessaria concretezza dell’operazione la nostalgia velata di ciò che è svanito e non sarà più possibile recuperare (anche per non poche colpe della dirigenza dell’epoca che ha liquidato troppo in fretta una storia che viceversa andava rispettava e studiata con maggiore attenzione senza buttare via il bambino con l’acqua sporca). E’ davvero molto arduo se non impossibile fare politica, pretendere di inserirsi in lotte di tale portata, imporsi di governare dal basso processi di tale complessità e conseguenze dirette, interne e internazionali, con la nostalgia ammantata di rincorsa ossessiva al nuovo o peggio al “nuovismo” o col copia e incolla; è una battaglia, a mio avviso, persa in partenza. Uno spettacolo, onestamente, già visto troppe volte, da disertare.
Certo, la lotta politica è questo; lottare nel movimento reale affinché ciò che fino a poco prima era considerato impossibile e irrealizzabile diventi possibile e per ciò stesso realizzabile. Formare, cioè dare forma a ciò che sembra a prima vista informe e disperso; dare prospettiva e slancio concreto a ciò che era considerata una pia speranza; in questo crinale, in questa soglia direbbe Agamben si gioca tutta la rischiosa partita del politico. Se l’umanità non si fosse educata a tal compito noi oggi saremmo ancora nelle grotte a fare il fuoco con i legnetti, e a credere che il fulmine sia un Dio cattivo e vendicativo.
Ma la politica è anche concretezza, è quell’analisi concreta della situazione concreta di cui parlava con vanto Lenin. Il primo compito del rivoluzionario e del materialista è fare i conti, per quanto possibile, con l’attualità e l’oggettività concreta del proprio progetto e della propria prospettiva, valutando se ci sono le condizioni e le forze per portarla avanti e se c’è soprattutto un elemento (un tempo si sarebbe detto un soggetto rivoluzionario) capace, nel mondo frammentato-scisso-precarizzato di oggi, di far propria questa prospettiva e di informarne l’intera società globale.
Il problema dunque è quello, a mio avviso, gramsciano dell’egemonia; di costruire un’appartenenza attraverso l’egemonia sociale e culturale, valoriale (oltre che economica) e di “imporre” un’egemonia e un’accettazione trasversale attraverso il rafforzamento e la ridefinizione di un’identità e di un’appartenenza valoriale ed ideale ad un modo di vivere e di fare e di concepire la politica e la res pubblica (qui ed ora e come potenza che si fa atto), condivisa non solo dai singoli ma legittimata e riconosciuta e oso dire accettata (non passivamente sia chiaro ma come realtà ed interlocutore con cui parlare e con cui si deve fare per forza di cose i conti), dalla società intera, come rappresentante di un intero mondo dimenticato e bistrattato, reso inoffensivo; quello del lavoro.
Non voglio che la nostalgia prevalga e condizioni i progetti e le scelte politiche ma se si prende come riferimento ideale (Luporini direbbe “regolativo” parafrasando Kant) quel famoso PCI, abbiamo di fronte un partito di massa (che ai leninisti duri e puri non va di certo a genio, amanti del partito di quadri rivoluzionari d’avanguardia), che era in grado, per via della sua forza organizzativa e di tradizione che guardava avanti, di unire insieme nella stessa lotta ceti e interessi sociali ed economici, psicologie ed esperienze molto diverse tra loro, spesso divergenti. Univa nella medesima lotta e nella medesima utopia trasformativa – alle volte positivamente riformista accettando forse compromessi inaccettabili per un partito autenticamente rivoluzionario e marxista-leninista – l’ingegnere e l’operaio massa, il contadino e il professionista, la casalinga e lo studente, nord e sud, città e campagna, se vogliamo est ed ovest. Allora, è precisamente questa dimensione e prospettiva di “massa”, oso dire pedagogico formativa, valoriale ed ideale, concreta ed utopica, di “uomo nuovo da costruire” (so che è un’espressione che fa tremare i polsi ma tant’è) che dobbiamo recuperare affinché tale progetto ambizioso possa poggiare su basi e fondamenta solide e di lungo respiro; altrimenti siamo, come si diceva, all’ennesima riproposizione di una nascita infinita di un qualcosa (la famosa “cosa” morettiana) che non nasce mai, un parto eternamente abortito, a tutto svantaggio di quel popolo e di quegli interessi che ad oggi attendono ancora qualcuno che li rappresenti e faccia davvero i loro interessi, dentro e fuori dalla fabbrica, dentro la società e al di là delle misere beghe parlamentariste. Certo, la su ricordata società “liquida”, del relativismo assoluto astraente ed atomizzante non aiuta; né so se questo progetto di ricostruzione del partito comunista né i suoi dirigenti siano all’altezza del compito immane che si sono proposti. Un compito, come abbiamo detto, oltre che prettamente socio-economico anche e soprattutto culturale, valoriale e schiettamente antropologico, nel capire che tipo di umanità abbiamo di fronte e che tipo di uomo storico vogliamo costruire, perché un partito o un movimento che non si pone come obiettivo principe quello di “educare” con la lotta e l’esempio e che non miri alla trasformazione radicale degli uomini che vi militano trasformando con essi dialetticamente il partito e il movimento stesso e ciò che li circonda, beh, non ha per me motivo di esistere né di proporsi come alternativa al sistema alienante e disumanizzante dominante.
Il rischio è concreto; da progetto di liberazione e di necessità critica della liquidità presente (che in realtà è rigida e disumana come o forse più dei tempi di Marx) si possa invertire involontariamente in una speranza elitaria di ricostruire su basi nuove (?) ciò che è definitivamente morto e in parte condannato – a torto o a ragione -dalla storia (una storia beninteso che deve essere ancora esaustivamente studiata) e bollato senz’appello dalla coscienza civile della stragrande maggioranza della popolazione e da buona parte di quel mondo del lavoro che si vorrebbe rappresentare e portare a maturazione.
Non si può dunque prescindere da questo. Non si può prescindere – se parliamo di prospettiva comunista – da ciò che il comunismo e la storia comunista soprattutto del Novecento ha rappresentato e ciò che la rottura del ’89 ha prodotto nelle coscienze e nei fatti nel famoso popolo della sinistra.
Impossibile qui aprire una discussione su temi così enormi e di tali implicazioni storiche e politiche, ma la battaglia per la ricostruzione di un partito che si autodefinisce comunista, deve avere come obiettivo principale, per essere credibile e rappresentare davvero il “nuovo” e per dirla con Marx “il progresso” (inteso non solo come progresso delle forze produttive cioè il socialismo ma come progresso e la realizzazione concreta dell’umanità libera e associata) quello di fare i conti con la propria storia scavando in profondità, facendo pulizia negli angoli bui senza incertezze e ambiguità, smettendola di inneggiare a regimi che nulla hanno di socialista (penso alla Cina e alla Corea del Nord) e di vagheggiare prospettive strategiche e soggetti “alternativi” che nella realtà non ci sono o se ci sono rappresentano solo una minima parte di quel mondo che si vuole intercettare; la battaglia è dunque politica e culturale ad un tempo: politica in quanto capacità di connettere dialetticamente il progetto, l’utopia concreta alla realtà concreta (ascoltando le proposte e le idee di quei soggetti che si vuole rappresentare piuttosto che “imporgli” dall’alto un modello di partito tradizionale, centralizzato che non può rappresentare la fluidità e il dinamismo “positivo” della fase attuale) e dall’altra informare la società e i settori produttivi (sempre più frammentati e divisi) della validità e della pregnanza umana e trasformatrice, de-feticizzante e disalienante di tale prospettiva, di rinnovamento antropologico e umanistico che tale battaglia porta con sé. Solo così potremo ridefinire un’umanità non più “a casa propria nell’alienazione” e nell’accettazione naturalistica del proprio sfruttamento e della propria disumanizzazione quotidiana, solo così la parola comunismo e partito, potranno ritrovare legittimità e appoggio popolare; lottando per ridare all’uomo il suo concreto agire nel mondo per trasformarlo non essendone più cieca e sorda vittima sacrificale.

Claudio Vettraino

5 commenti per “Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?

  1. 2 Luglio 2015 at 22:02

    Concordo e ti abbraccio ,compagno Claudio Vattrimo , il Partito Comunista si può fare solo se organizzato capillarmente .

    GATTO ROSSO

  2. armando
    3 Luglio 2015 at 10:52

    Spero che siano accettate alcune osservazioni amichevoli, da “esterno” alla problematica di riscostruzione del partito comunista, ma che guarderebbe con interesse e perchè no simpatia, ad un progetto del genere, ad alcune condizioni, però, che diano con chiarezza il senso dell’operazione.
    Prima di tutto sgombrerei il campo da un possibile, spero, equivoco.
    Sono del tutto d’accordo con la critica forte alla precarizzazione del lavoro, e quindi della vita, di immensi strati sociali, non solo quelli operai e proletari, ma anche di piccoli commercianti, artigiani, “liberi” professionisti, la cui attività, precaria ben oltre il normale rischio d’impresa, è solo una forma di disoccupazione mascherata.
    Poi, però, leggo: ” E dall’altro, riaprire una discussione sul superamento del lavoro come merce, oggetto di scambio per sopravvivere alla meno peggio, accettando qualsiasi ricatto al ribasso pur di “fare qualcosa”, Credo sia giusto fare chiarezza: vuol dire forse che si consiglia i precari e disoccupati di non accettare quel ricatto? Spero proprio di no, altrimenti comincereste male. Io ho un figlio, ormai grande, in quelle condizioni e tutto sommato ancora fortunato rispetto ad altri coetanei perchè ha pur sempre un padre (e una madre) dietro le spalle. Quando gli capita un lavoro, lui lo accetta, e fa bene. Meglio accettare un ricatto, consepovoli della situazione, che stare tutto il giorno a macerarsi o inveire. E’ un semplice principio di realtà, ed anche un fatto di dignità personale, perchè è meglio , comunque, guadagnarsi da vivere da soli, che dipendere sempre da altri (anche dai genitori) o peggio.
    Detto questo, veniamo al dunque. Credo che qualsiasi progetto di ricostruzione debba partire 1) da una analisi precisa delle classi così come si sono trasformate (diciamo per semplificare, la struttura) e 2)da una presa di consapevolezza di cosa è mutato (o di cosa era sbagliato, ma non è l’occasione per discuterne) nel rapporto struttura/sovrastruttura, ossia i parametri “culturali” e “ideologici” che stiano a fondamento del progetto.
    Sul 1) credo non basti affermare che le contraddizioni di classe esistono oggettivamente comunque e quindi si tratta “solo” di individuare il modo di farle affiorare alla coscienza. Perchè per Marx una classe esiste quando si realizzando due condizioni: una formale (la posizione in un rapporto di produzione), l’altra soggettiva, ossia il porsi di un gruppo sociale come soggetto politico in lotta o (o alleanza) con altri soggetti politici, verso i quali (Gramsci), cercare di esercitare una egemonia culturale. Qualsiasi cosa si possa dire della prima condizione, mi sembra evidente che la seconda non esista più. Ora, se il capitalismo è riuscito in questo suo obbiettivo, occorre capire il perchè, oltre gli errori e i tradimenti. Quanto meno significa che è riuscito a creare le condizioni in forza delle quali la “perseità” delle classi è “sparita”, e ciò non significa altro che il capitale ha esercitato un’egemonia culturale forte, ben oltre quello che Marx ed Engels sostenevano nell’Ideologia Tedesca, ossia che le idee delle classi dominanti sono le idee dominanti in ogni formazione sociale. Ben oltre perchè il dominio implica che esista comunque un dominato, consapevole di esserlo e che si sforza per contrastare quell’egemonia fino a rovesciarla. Nulla di tutto ciò, oggi.
    Sul punto 2), questo si collega strettamente al 1). Se è vero che il rapporto Struttura/sovrastruttura è mutato e che la sovrastruttura tende anch’essa a farsi struttura o almeno a porsi di fronte alla prima a pari livello, ciò significa che un progetto di ricostituzione di un partito comunista si trova, prima di tutto, davanti ad una scelta precisa e ineludibile, riguardo alle scelte culturali, ideologiche ed antropologiche: a)assumere come propria l’ideologia dei diritti soggettivi (comunismo libertario) spingendo a fondo su di essi per la loro massimizzazione come condizione per una società comunista, il che significa, diciamolo chiaramente, appoggiare in pieno ciò che il capitale sta già facendo per proprio conto nella convinzione che non sia poi in grado di reggere le contraddizioni che questa spinta genererebbe. oppure b) Rifiutare questo approccio, il che però vuol dire anche scartare una buona parte delle concezioni dei vecchi partiti comunisti, riguardo alle tradizioni culturali e religiose del popolo. Al contrario, signfica scorgere quanto di esse sia, almeno oggi, in contraddizione profonda con le istanze del capitale, e farle proprie, semplicemente.
    L’alternativa è radicale, ma anche quella che potrebbe consentire a questo nuovo partito di non perdere definitivamente ogni possibile radicamento di massa. Faccio un esempio. Il KPRF (Parito comunista ruisso), ha virato decisamente, quando è rinato, verso questa scelta, il che gli ha consentito di esserea ancora, dopo la tragedia dell’implosione dell’Urss. un partito di massa e di incarnare ancora le istanze popolari russe a tutti i livelli, Non solo, questa scelta in certo senso “conservatrice”, è stata anche quella che gli consente di avere influenza sul governo Putin, e che si tratti di influenza positiva in termini di politiche sociali favorevoli alle classi subalterne, non ci sono dubbi alcuni.
    Scusate per la lunghezza dell’intervento.

    • Fabrizio Marchi
      3 Luglio 2015 at 11:28

      Armando, i tuoi interventi e le tue analisi interessanti, intelligenti e puntuali, sono sempre ben accette su questo giornale, al di là della loro condivisione o meno, in parte o per nulla. Il tuo contributo di idee a questa testata è prezioso e anche massiccio e non possiamo che ringraziarti per questo.
      A brevissimo scriverò un pezzo su un episodio accadutomi ieri, a mio parere grottesco, che ci dice come sia ridotta oggi la sinistra, in tutte le sue articolazioni.
      Proprio questo articolo di Claudio, che si può condividere o meno ma è comunque un contributo altrettanto prezioso e direi anche di notevole spessore al dibattito, è stato giudicato “fuori luogo” in una pagina facebook di un gruppo di estrema sinistra dove lo avevo postato (come faccio con tanti altri articoli su tanti gruppi su FB ai quali sono iscritto). Contestualmente, sono/siamo stati di fatto invitati a levare le tende, accusati di postare in continuazione articoli che non avrebbero nulla a che vedere con quella pagina. La qual cosa è da ridere e vi verrà ancor più da ridere quando svelerò (nell’artcolo che scriverò) di quale pagina si tratta… Neanche pubblicassimo o avessimo pubblicato articoli di gossip estivo, o dell’ultimo flirt di questo/a o quello/a personaggio dello spettacolo…Da ridere, gli amministratori della pagina di un gruppo di discussione di estrema sinistra dicono che l’articolo di Claudio, che vuole solo aprire una riflessione su una possibile ipotesi di prospettiva di ricostituzione di un partito comunista, è roba(ccia) veterostalinista e ci invitano a desistere dal pubblicare “simili articoli” e di fatto (anche non formalmente) ad abbandonare il campo…Ci sarà da divertirsi…anche perchè con l’ottusità non si può ragionare, bisogna solo prenderne atto e tenerla a dovuta distanza (come si fa con l’HIV)…Il problema è che è molto, molto dffusa…

  3. giuseppe
    3 Luglio 2015 at 21:08

    Registro un’analisi profonda nei due articoli di Armando e Fabrizio,ma non riesco a capire perchè dai tempi dello scioglimento scellerato del PCI e della nascita di Rifondazione Comunista,si siano perpetrate scissioni in continuazione,un male che non fa’ che ripetersi a danno di tutta la societa’ del lavoro.Credo,ormai che di analisi si possa anche morire,l’unica soluzione ,per sperare di dare speranza a tutti noi è l’unita delle sinistre,il tentativo di Landini è lodevole,la lista di “Altra Europa ” è un forte tentativo di aggregazione,non lasciamoci sfuggire queste opportunita .

    • armando
      4 Luglio 2015 at 15:48

      Giuseppe, perchè sono saltati i vecchi tradizionali parametri di riferimento, in forza dei quali era abbastanza chiaro classificare destra e sinistra chi ci stava dentro. L’unità delle sinistre, che peraltro non è mai esistita (vedi la frattura fra partiti socialisti e comunisti), ora è una chimera perchè tutto è più complicato dall’esplosione di altri problemi oltre quelli sociali. Esempio: la nuova formazione politica a cui lavora Landini, come si porrà rispetto alla questione dei “diritti civili” o del femminismo? Se è chiara, allora non riuscirà ad unire la sinistra, se è ambivalente questo sarà un motivo di rapido scontro interno e di dissoluzione. perchè quei temi sono altrettanto importanti, anche dal punto di vista sociale, di quelli”tradizionali”, come appunto dimostra la diaspora incessante in atto.

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