Pubblico ben volentieri questa interessante analisi del mio amico Rino Della Vecchia, pur condividendo solo in (gran) parte il suo lucido e spietato pessimismo di marca squisitamente “machiavelliana”.
Mi permetto, sia pure molto sinteticamente, di spiegare il mio parziale dissenso.
Che i potenti – siano essi stati, imperi o classi sociali – abbiano quasi sempre la meglio sui deboli, siano essi minoranze etniche, popoli o classi sociali, è senz’altro vero.
Tuttavia è quel quasi a fare la differenza.
Il popolo vietnamita nel secolo scorso riuscì, dopo una guerra di liberazione durata decenni e al prezzo di sofferenze inaudite, ad avere la meglio prima sui francesi e poi sul ben più potente esercito USA che tentò con ogni mezzo di distruggere la resistenza dei vietnamiti, senza però riuscirvi.
Stesso discorso per il popolo algerino che riuscì a liberarsi dall’occupazione coloniale francese.
Idem come sopra per i talebani afghani (che a me non erano e non sono certo simpatici…) che riuscirono ad avere ragione del potente esercito sovietico. Certo, se la vogliamo dire tutta, un fattore determinante lo giocarono in quel frangente i lanciamissili antiaerei “Stinger” forniti dagli americani ai mujaheddin che abbattevano gli elicotteri sovietici come le mosche, ma la stessa cosa vale per i vietnamiti le cui armi (anche quelle pesanti) erano loro fornite dai sovietici. In entrambi i casi a giocare un ruolo decisivo (anche in Algeria, ovviamente, e in altri contesti simili) fu il radicamento dei combattenti nel territorio e nel tessuto sociale e l’appoggio che essi godevano da parte della popolazione. Una vera e propria simbiosi fra guerriglieri e popolo. Ciò che chiamiamo, appunto, una “guerra di popolo”. Ed è proprio questa guerra di popolo che ha permesso, a volte, magari rare, di avere la meglio sugli imperi e sulle loro potentissime armate. L’alternativa (per gli imperi e gli stati occupanti) sarebbe stata la distruzione totale di quei popoli, cosa che in effetti in altre epoche è avvenuta, come giustamente lo stesso Rino evidenzia.
I palestinesi non hanno vinto, è vero, e molto probabilmente non riusciranno mai ad avere un loro stato indipendente e sovrano. Tuttavia, dopo ormai settanta anni di occupazione, resistono, non sono stati annichiliti da Israele. E così come dubito che avranno mai un loro stato, dubito però che si arrenderanno.
Cambiamo esempio. La lotta di classe. Le classi dominanti hanno sempre dominato sulle classi dominate, e su questo non ci piove. Tuttavia ci sono stati casi, sia pur rari anche in questo caso, in cui gruppi appartenenti (una volta le avremmo chiamate avanguardie) alle classi sociali dominate, e forti del loro appoggio, sono riusciti, magari per breve tempo, a capovolgere l’ordine sociale e a trasformare il famoso “stato di cose presente”.
Avevano quei gruppi sociali e quei popoli sottomessi fatto il calcolo dei costi/benefici nel momento in cui scelsero di ribellarsi al dominio che subivano? Domanda alla quale è difficile se non impossibile dare una risposta. Sta di fatto che lo hanno fatto e, a prezzo sempre di sofferenze indicibili, sono riusciti ad avere la meglio.
Tutto ciò per dire cosa? Che anche io condivido con Rino il suo stesso lucido e spietato pessimismo. E tuttavia 1) Per utilizzare il suo stesso esempio, la responsabilità della distruzione di Numanzia non è degli insorti ma dei Romani. E questo vale per tutti gli altri popoli distrutti dagli Imperi e dagli Stati invasori. Forse che la responsabilità del genocidio dei nativi nord e sud americani è di coloro che non hanno voluto accettare di subire passivamente di essere schiavizzati? Sono forse colpevoli perché hanno scelto comunque di ribellarsi pur sapendo di non avere possibilità di successo? Ma questo lo sappiamo noi, a posteriori.
2) Quand’anche fosse, l’alternativa quale sarebbe? Fare buon viso e accettare di essere sottomessi?
E’ evidente che in tutto questo che stiamo dicendo c’è comunque un elemento di tragicità, in ogni caso, alla quale non possiamo sfuggire. Ma tant’è.
(Fabrizio Marchi)
Di seguito l’analisi di Rino Della Vecchia:
“S. Marino non può muovere guerra all’Italia. La sproporzione tra le forze è tale che a nessun sammarinese, ancorché paranoico, è mai passata per la testa simile ipotesi. Ne mai passerà.
Ma il divario non è sempre così risibilmente evidente. De facto, i rapporti di forza tra gli enti collettivi (imperi, regni, polis, Stati, organizzazioni pubbliche e private, associazioni formali o informali, classi, gruppi di interesse, etnie etc.) si collocano tra una disparità abissale – non questionabile – ed un incerto, imprecisabile equilibrio.
Al ridursi del divario tra le forze, e ancor più al suo diventare multiforme, multicausale, complesso, e perciò sempre meno precisabile, l’ipotesi di una guerra vincente diventa sempre più credibile e spendibile. In questa vastissima area grigia, al ridursi del distacco, aumenta il numero e la forza politica di coloro che promuovono e propagandano l’apertura del conflitto. I promotori della lotta.
Quando la sproporzione, anziché puerilmente ovvia, offre vaghi elementi di dubbio, si apre la strada all’idea dello scontro aperto ed entrano in azione i Velleitari, quelli che dei rapporti di forza non tengono alcun conto.
L’ipotesi del conflitto esige che preesista un sostrato sociale, anche debole e limitato, sul quale possa attecchire la proposta e da lì diffondersi sino a conquistare se non tutta la compagine sociale, almeno quelle forze che la dirigono e ne decidono i destini. Ci vuole insomma il terreno adatto che è costituito – generalmente – dalla presenza di un’area, più o meno vasta, di malcontento spontaneo. Che sia giustificato, motivato, legittimo o meno non ha importanza. Se c’è c’è. Ove il malumore manchi, la strada per i promotori è più ripida perché, anziché limitarsi ad approfondirlo ed estenderlo, lo devono creare ex nihilo. Compito impegnativo ma non proibitivo. Si tratta di far ‘prendere coscienza’ almeno ad una frazione sociale, dei torti, danni, limitazioni – veri o immaginari, gravi o frivoli – che essa patisce a causa di un dato ente collettivo: il nemico.
Talvolta quello è ben noto e identificato come tale dall’intera compagine sociale, talaltra solo da una sua frazione. I popoli conquistati militarmente lo individuano immediatamente e il puro fatto dell’occupazione è già in sé motivo di malcontento generalizzato se il conquistatore è diverso quanto a lingua, etnia, costumi, tradizione, religione (es. i palestinesi vs Israele). Se invece vi è affinità o omogeneità identitaria, non tutta la popolazione avrà lo stesso sentimento verso il conquistatore (es. Risorgimento e “brigantaggio”). Lo stesso dicasi in assenza di conquista militare diretta, quando il predominio viene esercitato indirettamente e/o in forma blanda, parziale, episodica, settoriale. Similmente quando quella comunità abbia aderito – più o meno volontariamente – ad una formazione politica esterna o sovraordinata (federazioni, unioni: es. plebisciti per il Norditalia, nascita degli USA, della Svizzera, della UE, dell’ONU etc.).
Gli esempi storici sono infiniti, perché infiniti sono stati i popoli sottomessi agli imperi, da quello Sargon a quello di Trump, giacché la storia è, per lo più, storia di Imperi e solo secondariamente storia di Polis e di Stati-nazione i quali però, quasi ovunque, non sono altro che Imperi interni (come vedremo).
L’azione dei promotori
I promotori (della guerra conclamata) seguono la ricetta universale di tutte le propagande di guerra, calibrandone gli ingredienti a seconda delle contingenze.
- a) Descrivono la situazione presente come estremamente negativa sotto ogni aspetto e in via di peggioramento, assegnandone la causa all’ente-obiettivo (lo Stato invasore, l’altra religione, il comunismo, il capitalismo, le Plutocrazie Occidentali, il centro politico: Madrid, Parigi, Roma…).
- b) Celebrano i tempi che precedettero l’apparizione del nemico, enfatizzandone gli aspetti positivi (l’età dell’oro) tacendo su quelli negativi.
- c) Prefigurano un futuro sicuramente migliore, finanche meraviglioso, di pace, libertà e benessere per tutti (o almeno per una parte cospicua della compagine sociale).
- d) Garantiscono che la vittoria è certa e inevitabile, rifiutandosi anche solo di ipotizzare la sconfitta ed evitando di descrivere le conseguenze sia certe che probabili in caso di soccombenza. Tanto più esorcizzandole quando si sospetta che, in caso di sconfitta, sarebbero devastanti. La sconfitta è un tabù.
- e) Demoliscono le obiezioni, la contropropaganda, liquidando gli avversari interni come ‘pacifisti’, vili colombe che nascondono la loro codardia dietro altisonanti valori evangelici e i Realisti – quelli che tengono conto dei rapporti di forza – accusandoli di pusillanimità, di disprezzo del popolo, di intelligenza con il nemico, di asservimento, di tradimento.
- f) Esaltano la propria forza politico-militare e sminuiscono quella del nemico. Elencano gli alleati già acquisiti e quelli che “naturalmente” verranno.
- g) Alimentano se c’è o suscitano se non c’è, l’odio contro il nemico e chi lo incarna, descritto in termini deteriori sotto ogni aspetto (fisico-morale-intellettuale). Un agente del male che agisce in malafede per sé o come esecutore di un piano criminale. Il male.
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Il nemico è odioso, opprime e rapina, la situazione insostenibile, il futuro roseo, il conflitto epocale, la vittoria certa. La sconfitta con le sue conseguenze (inclusa l’eventuale cancellazione della comunità) non è contemplata. I rapporti di forza sono negletti, i Realisti moralmente liquidati e silenziati. La guerra ha inizio.
Questa è la dinamica essenziale delle guerre tra forze equiparabili come anche di tutti i moti di ribellione e di secessione operati da entità collettive dotate di forze smaccatamente inferiori. Mi occupo ora di queste rivolte/secessioni chimeriche contro gli imperi i quali sono di due tipi, esterni-eterogenei e interni-omogenei.
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Imperi esterni e Imperi interni
Esterni sono gli Imperi per antonomasia, in senso classico, nei quali un centro di potenza estende il suo dominio su aree più o meno vaste, sottomettendo, con modalità variabili, popoli diversi per etnia, lingua, tradizione, religione (c.d. identità). Vasti dominii culturalmente eterogenei.
Interni sono quelli dove una potenza centrale domina su un corpo sociale la cui maggioranza è sostanzialmente omogenea quanto ai caratteri identitari: gli Stati-nazione. Imperi interni-omogenei, certo, ma entro certi limiti, giacché quasi sempre ricomprendono nei loro confini minoranze (anche cospicue) di gruppi dotati di identità differenziate, anche in modo profondo (es. baschi in Spagna) e financo radicale (i nativi negli stati delle Americhe).
Gli esempi di imperi esterni-eterogenei sono senza numero. Da Sargon a Nabucodonosor, da Dario a Alessandro Magno, da Cartagine a Roma, da Costantinopoli al Califfato, da Gengis Khan a Tamerlano, dai Moghul ai Chin, dagli Incas agli Aztechi, dai Bantu ai Songhai. Vengono poi gli imperi coloniali dell’Europa e quello ottomano e quello zarista. Infine quello sovietico e quello americano. Pochi esempi per richiamarne centinaia. Non ve n’è stato uno che non abbia visto sorgervi rivolte, ribellioni, lotte di liberazione e di indipendenza. Tremende repressioni, inclusa spesso la distruzione totale, sono state la regola. Motivo? Rapporti di forza negletti e irrisi. Tali lotte, con le connesse repressioni, entrano poi nella memoria storico-mitologica fondativa dei subentranti stati-nazione i quali in tal modo occultano la loro repressione egemonica interna, come sotto vedremo.
Gli imperi interni-omogenei, gli stati-nazione, hanno una storia assai più breve alle spalle e si crede che siano sostanzialmente immuni dai conflitti identitari endogeni, dalle pulsioni alla rivolta e alla secessione. D’altra parte le loro Costituzioni prevedono l’unità e l’indivisibilità dello Stato. Non ci sarebbe bisogno di proclamarlo se non si sospettasse che… prima o poi, nelle regioni periferiche e tra le minoranze, in un lontano futuro, in un diverso contesto, possano sorgere movimenti miranti alla secessione. Sospetto più che legittimo, trattandosi appunto di una diversa forma di imperi.
Esistono poi forme intermedie, di cui diventa incerta la categoria di appartenenza: impero interno o esterno? La storia della Cina, ad esempio, è un bimillenario susseguirsi di riunificazioni e disgregazioni di una (o più di una) entità che ha/hanno esercitato il dominio su popolazioni eterogenee. Ancor oggi è così. La stessa Jugoslavia, categorizzata come Stato-nazione, può invece venir qualificata come un piccolo impero esterno-eterogeneo a dominanza serba (come prova il fatto che, a tentare di tenerla unita, fu appunto la Serbia).
Ora, tra gruppi e minoranze identitarie (i popoli subalterni) compresse da un potere imperiale, da una parte, e l’impero stesso, dall’altra, vi è sempre una sproporzione di forze tale da rendere velleitario e autolesionista ogni tentativo di uscita dal sistema stesso. Del primo o del secondo tipo che sia.
L’impero esterno USA
Domina oggi una buona parte del mondo l’impero USA, al quale si contrappongono solamente entità potentissime, Cina e Russia. Tra gli altri, la sola India sta acquisendo una potenza economico-militare tale da potervisi opporre in un prossimo futuro. Gli altri possono agire solo entro limiti ristretti. Per quanto siano potenti (Brasile, Indonesia, Pakistan etc.) la loro forza è così inferiore che ogni tentativo di agire, al di fuori dei confini, senza il consenso Usa, risulta temerario. A meno che queste entità si appoggino a Russia o Cina. Con questa scelta anche piccoli stati riescono a tenere l’impero fuori dai loro territori (Iran, Siria, Corea del Nord, Cuba…). Tuttavia a nessuno è concesso di agire contro gli interessi USA consolidati. Fioriscono da decenni, a macchia di leopardo, rivolte indipendentiste anti-USA, quanto alle quali “…si devono laudare più le intenzioni che gli effetti…” direbbe Machiavelli, che producono danni e devastazioni di ogni genere e che perdurano, per lo più, solo in quanto forze esterne contribuiscono alle lotte disperate e vane contro quella potenza. Questi tentativi possono avere carattere militare o anche solo politico-economico (vedi Venezuela) con danni diversi ma sempre prevedibili e previsti dai Realisti inascoltati. Nessuno può promettere la vittoria contro gli Usa né l’assenza di ritorsioni che possono giungere fino alla rovina economica del paese (bombardamenti a parte). Ciononostante predicatori di (pur legittime) riscosse, sempre nascono e sempre conducono le loro comunità a disastri. Giacché ciò che conta non è la legittimità delle ribellioni, ma i rapporti di forza. Questi sono noti e chiari ben prima dell’inizio di ogni azione politico-militare antiamericana, come ne sono certe le nefaste conseguenze. Immancabili.
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Imperi interni del XXI secolo. Cina, Russia, Spagna e …Italia.
Mentre gli Imperi esterni possono essere intesi come minoranze che dominano su vaste disarticolate maggioranze (la Gran Bretagna con circa 30.000.000 di abitanti dominò su oltre 400, mentre oggi gli USA con 330 milioni dominano su più di mezzo mondo), quelli interni vanno letti come maggioranze che egemonizzano minoranze (1.200.000.000 di Han cinesi dominano su altri 100.000.000 di individui di circa 50 etnie). In Cina il malcontento fermenta in varie minoranze. Alcune (nelle periferie) tentano effettivamente di sottrarsi al potere di Pechino. Il risultato è la repressione violenta come in Tibet o quella meno cruenta ma sempre pesante (preventiva) come nello Xingjiang contro gli Uiguri. Rapporti di forza ignorati, vittorie impossibili che provocano danni certi.
Ecco altri casi. La Russia attuale è uno stato-nazione, un impero interno-omogeneo. Omogeneità relativa, giacché vi convivono minoranze che subiscono l’egemonia della maggioranza (80% russi su altre 150 etnie). Nel Caucaso (periferie del sud) si sono sviluppati movimenti indipendentisti, uno dei quali – in Cecenia – è sfociato in secessione aperta con le conseguenze previste. Massacri, devastazione e sconfitta. Chi ha distrutto Groznyj? Chi ha ignorato i rapporti di forza. Mosca non c’entra.
La Spagna ebbe un immenso impero esterno. Oggi è uno stato-nazione dove la maggioranza interna è egemonica sulle minoranze. Alla periferia nord del paese due milioni di Baschi, con una fortissima coscienza identitaria, vagheggiano un’impossibile indipendenza e per alcuni decenni una frazione di essi ha combattuto con le armi. Risultato: repressione politico-militare e nessuna indipendenza. Accade quando si ignorano i rapporti di forza. Alla periferia est, in Catalogna, un referendum ha sancito una secessione vietata, contro la quale Madrid ha agito – sin qui – con scarsa violenza. E così sarà, finché alcuni scriteriati non useranno le bombe per una sconfitta certa che provocherà morti e disastri. Rapporti di forza.
Anche l’Italia ha le sue periferie dove cova il malumore. Il Sudtirolo, ridenominato ‘Alto Adige’ dall’impero interno e sotto occupazione militare da 100 anni, sogna il ritorno a casa. A suo tempo dei sudtirolesi si dedicarono al tritolo. Ne subirono scarse conseguenze per ragioni al tempo stesso ovvie e complesse. Un conflitto latente. Ove diventasse conclamato, l’esito sarebbe scontato: repressione e sconfitta. Qui però, a differenza di Euskadi, isola etnico-linguistica senza sostegno esterno, esiste un paese di riferimento e di appoggio politico e, al limite, militare, nel quale, tra l’altro, le forze nazionaliste non hanno mai accettato la perdita di quel territorio (beffarda nemesi dell’irredentismo) come conferma l’ipotesi del doppio passaporto che la nuova Austria nazional-sovranista intende offrire a quei fratelli separati.
L’indipendentismo padano è stato un vago obiettivo della Lega, che poté essere concepito e figurare come programma politico solo perché vi era un preesistente fondo di malcontento mescolato ad un imperfetto sentimento di appartenenza allo stato-nazione italiano (lascito del Lombardo-Veneto). L’ipotesi di una secessione del Nord è fuori dall’orizzonte politico. Ora. Mentre il futuro, come si sa, …è incerto.
Minoranze sofferenti esistono – in forma latente – in molti stati-nazione. Nella sola Europa la Francia ha i problemi córso e bretone, la Gran Bretagna quello scozzese, il Belgio quello fiammingo, la Romania quello ungherese, mentre non è del tutto risolto quello cossovaro rispetto alla Serbia.
Nel mondo il numero delle comunità identitarie dolenti è cospicuo. Quasi tutti gli stati-nazione delle Americhe avrebbero il problema degli amerindi, se non fosse che la sproporzione delle forze, già letale due secoli fa, lancia nel regno del delirio ogni ipotesi di riscossa. I curdi, popolo senza stato, posti alla periferia di tre stati-nazione, da decenni lottano alternativamente o simultaneamente contro l’uno e contro l’altro con gli esiti noti: devastazioni e massacri. Vittorie impossibili. Rapporti di forza. Dei palestinesi si può dire solo questo, che il loro glorioso Fronte del Rifiuto, va lodato in linea con Machiavelli, solo per le intenzioni.
Quanto allo scontento in sé, non è importante stabilire se sia legittimo o meno, se abbia origini economiche o religiose o linguistiche. E’ irrilevante accertare se quelle minoranze siano represse o meno, povere o ricche, se abbiano torto o ragione. Se esistono, esistono e là possono sorgere promotori di sollevazioni che, stanti i rapporti di forza, hanno un esito assicurato: la sconfitta e una cascata di effetti negativi. Prevedibilissimi.
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Quattro esempi storici
Poiché gli imperi esistono da millenni, da millenni si registrano rivolte contro di essi. Salvo rare eccezioni, finite nella catastrofe.
Alessandro Magno assediò Tiro che non voleva consegnarsi. Dopo qualche mese, per non perdere tempo e risorse preziose, propose di risparmiare la città a certe condizioni. Istigati da animosi dissennati che giudicavano quella proposta una confessione di debolezza, gli assediati rifiutarono. Così il macedone impegnò l’esercito fino in fondo e la città venne distrutta. Quegli abitanti che non si suicidarono vennero ammazzati. Compresi i profeti dell’orgoglio.
I popoli di Giudea, eternamente insofferenti dell’occupante romano, organizzarono numerose rivolte finché non giunse Tito a distruggere Gerusalemme. Rivolta e sconfitta. Come sempre.
I Celti d’Inghilterra, trovando insopportabile il dominio romano, sotto la regina Budicca organizzarono la lotta di indipendenza. Quasi ci riuscirono. Ma il “quasi” fu esiziale. Vennero distrutti a Watling e la sottomissione durò secoli.
Dopo decenni di resistenza antiromana i Celtiberi vennero assediati in Numanzia da Scipione Emiliano. Ridotti al cannibalismo, vennero distrutti. La città rasa al suolo. Chi distrusse Numanzia? Coloro che sfidarono forze superiori invincibili, che sognarono l’inverosimile, che sedussero i numantini promettendo l’impossibile. Scipione non c’entra.
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Eroica e sterile testimonianza
Esistono tuttavia popoli che patiscono una sorte tale per cui non è la speranza della vittoria quanto l’insopportabilità della condizione a metterli in azione, o tutti insieme o una loro minoranza. A questi non può essere imputata né follia né illusione. Va solo detto che la rappresaglia che subiranno sarà quella di sempre. Non si fa la guerra agli imperi (interni o esterni) pensando di cavarsela e per quegli sventurati non resta che l’onore di una eroica testimonianza. Gloriosa sterilità. Non si aspettino che dalla loro sventura apprendiamo qualcosa sulla ferocia degli imperi. Ci era già nota.
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La parola del Genio
Il rifiuto di valutare i rapporti di forza e l’efficacia seduttiva dei Velleitari sono millenarie. Perciò se ne occupò Machiavelli, giudicando che valesse la pena trattarne per evitare alle genti future i disastri patiti nel passato. Egli notava appunto come non ci sia paragone tra la capacità seduttrice dei Velleitari e le gelide, inani ragioni dei Realisti. Questi, se non descritti semplicemente come quinte colonne, agenti del nemico, appaiono deboli e infingardi, vecchi e timorosi, subdoli sprezzatori dei cittadini. Viceversa i Velleitari, seduttori delle moltitudini, coraggiosi e generosi, giovani e arditi, veri amici del popolo.
La realtà anemica, amara, avvilente. Il sogno audace, gagliardo, esaltante. Il miraggio innamora.
Leggiamo ora qualche riga dello scioccante VIII capitolo dei Discorsi (Libro I). Era Annibale in Italia da dieci anni. Si presentò al Senato Marco Centenio Penula ad esigere la licenza di arruolare volontari con i quali in breve tempo avrebbe facilmente sconfitto il nemico. Viceversa si sarebbe rivolto al popolo manifestandogli la viltà del Senato. Sotto questa minaccia gli fu dato il via libera.
Scrive Machiavelli: “Andò dunque costui con una moltitudine inordinata a incomposta a trovare Annibale e non fu prima giunto all’incontro che fu rotto e morto con tutti quegli che lo seguivano”.
E aggiunge: “… quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo si vede guadagno ancora che vi sia nascosta sotto perdita; e quando e’ pare animoso ancora che vi sia nascosta sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine…” giacché, purtroppo “…il popolo molte volte, ingannato da una falsa immaginazione di bene, desidera la rovina sua …e Dante dice a proposito …che il popolo molte volte grida ‘Viva’ la sua morte e ‘Muoia’ la sua vita…”.
Così parlò il fiorentino ed io relata refero.
Rino Della Vecchia – 24/9/19