Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
La priorità assoluta è ricostruire un campo teorico largo della sinistra di trasformazione, Gramsci parlava di una teoria della rivoluzione socialista in Occidente. Negli ultimi trent’anni il capitale è profondamente mutato. In Occidente non siamo più nella fase capitalistica, ma siamo sotto il dominio del capitale finanziario, con tutte le conseguenze che ne derivano, di ordine culturale, istituzionale, politico, economico e sociale. Nuove classi, dominanti e subalterne, si sono affermate, le vecchie, quelle che hanno caratterizzato, anche in modo conflittuale, una parte dell’Ottocento e del Novecento, hanno perso la loro centralità. È nata e si è sviluppata, fino a diventare élite, una nuova borghesia finanziaria, non più confessionale, laicista e non laica (attenta ai diritti civili soprattutto per lei), come sono nati e si sono sviluppati nuovi lavori, sempre più precari e super-sfruttati (spesso al limite della schiavitù), poco sindacalizzati, non più legati alla grande fabbrica, nell’ambito di una crescente disoccupazione di massa a cui il sistema sempre meno riesce a far fronte con le tradizionali politiche assistenziali. Certamente permangono e sopravvivono le vecchie classi, la borghesia imprenditoriale (spesso bigotta e confessionale, quella di “Dio, patria e famiglia” per intenderci), concentrata nelle aree più sviluppate, ma il loro ruolo in Occidente non è più dominante, come persistono aree di lavoro dipendente tradizionale e operaio non più in grado però di svolgere quella funzione di trascinamento culturale e politico che avevano avuto nel secolo scorso.
È sbagliato parlare di fine del conflitto di classe, come sostengono certe dottrine neoliberali o post-marxiste. La lotta di classe è sempre stato un fattore fondamentale della storia dell’umanità. C’è e attraversa anche e soprattutto l’Occidente, ma resta nel confine del sociale e non riesce ad avere una istanza politica adeguata e incisiva. Quindi quando il conflitto esplode prende la forma del ribellismo, della rivolta. È un focolaio che non è poi tanto arduo spegnere. Diviene facile allora, per gli esegeti sostenitori che questo sia – quello occidentale – il miglior mondo possibile, proclamare la fine della lotta di classe e di una sinistra così come storicamente si è formata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. D’altronde in quella che è stata definita la crisi profonda della così detta democrazia liberale vi è anche questo aspetto, quello della liquidazione dei grandi partiti di massa, quindi di conseguenza della fine del loro protagonismo nella scena politica. È questo uno dei risultati più significativi prodotti dal capitale finanziario, che non appare mai ma è estremamente invasivo, impregna di sé l’intera società, pur lasciando l’illusione di essere liberi e di vivere in una società democratica (ma lo è mai stata?) rispettosa nella forma (ma non nella sostanza) dei diritti civili. La democrazia dell’alternanza è il credo (a prescindere da quanti elettori vadano a votare), intanto le decisioni che contano vengono prese da ristrettissime oligarchie finanziarie in altre sedi, non politiche, non istituzionali. Anzi la politica diviene la loro principale ancella, il servitore più fedele delle loro strategie. In altre parole, con il capitale finanziario si è affermato il dominio di una nuova borghesia, fortemente intrecciata e legata con le attività della finanza, ma portatrice di una ideologia i cui tratti distintivi non sono quelli tradizionali reazionari della destra storica, ma liberali e per molti aspetti ammantati di progressismo.
Ho fatto questa sintetica premessa per affermare appunto la necessità di ricostruire un campo teorico per riproporre, anche in Occidente, una prospettiva socialista. Un campo teorico capace di individuare gli strumenti politici più idonei per condurre la lotta per il socialismo. Insomma, una teoria per la rivoluzione, consapevoli che tutte le vecchie forme identitarie di destra e di sinistra sono oggi profondamente in crisi. È forse di sinistra un partito prevalentemente espressione della borghesia finanziaria? E la borghesia imprenditoriale del Nord esprime interessi che sono più a destra rispetto a quelli della borghesia finanziaria? Non è forse più utile uscire dal politicismo per riscoprire Marx e puntare a una analisi strutturale delle contraddizioni del capitale?
Il grosso della sinistra europea, con poche eccezioni, ha ormai creato un solco profondo con la sinistra di ogni angolo del mondo impegnata sul duplice terreno di condurre, nelle condizioni date nel paese, la lotta per far avanzare politiche in senso socialista e nel contempo sostenere la necessità di un nuovo ordine mondiale multipolare, che è il grande sforzo che prima di tutto Russia e Cina stanno sostenendo contro l’Occidente e la volontà Usa di riproporre un ordine unipolare sotto il loro ferreo controllo. La sinistra europea non ha più quel tratto distintivo antimperialista, è totalmente subalterna al pensiero liberale e spesso, cosa più inquietante, è il “versante di sinistra” delle scelte del capitale finanziario. Anche quando sostiene di essere anticapitalista ha in realtà sposato tutti i fondamentali principi dell’ideologia dominante, quella espressione del capitale finanziario. È questa la strada imboccata da tempo dalla stragrande maggioranza dei socialdemocratici (si veda la crisi che mi pare irreversibile del modello scandinavo), dai verdi e purtroppo oggi anche da consistenti settori di una sinistra che ama definirsi radicale. Si lascia alle destre, spesso espressione della borghesia imprenditoriale tradizionale, la rappresentanza di ampi settori, in molti casi maggioritari, dei ceti popolari. Destre, comunque, che non hanno né la capacità né la voglia di mettere in discussione il dominio delle oligarchie finanziarie. A parole si scagliano contro le élite finanziarie ma ricercano con esse mediazioni e compromessi. Anche le destre sanno che per tenersi a galla hanno bisogno del sostegno dei centri di potere finanziari.
L’Italia ovviamente non è una eccezione, per molti aspetti la situazione da noi è peggiore. Per questo motivo non nutro la minima fiducia nella possibilità che questo lavoro di ricostruzione di un campo teorico marxista possa essere fatto nell’ambito di una delle tante modeste e piccole organizzazioni e aree politiche su cui la sinistra si è polverizzata; da quelle più radicali o marcatamente identitarie, arroccate su un ideologismo antico e superato, a quelle di maggior buon senso, che tendono a fare, nel miglior dei casi, un ragionamento politico, ma senza avere una strategia di lungo respiro. Vanno là dove il loro pragmatismo politico le porta, dove tira il vento per tentare di occupare un qualche spazio politico, pur minimo.
Questo lavoro teorico per dare qualche risultato significativo deve essere portato avanti da Associazioni, Centri culturali, Riviste o quant’altro. Occorre stabilire contatti, relazioni e collegamenti tramite la costruzione di una rete che abbia come priorità questa finalità. È senz’altro un nuovo soggetto politico in luce. Non si fa ricerca per elaborare e definire una teoria per la rivoluzione solo per spirito accademico. È del tutto evidente che la ricostruzione di un campo teorico marxista ha come obiettivo quello di dar vita a un partito che riproponga la lotta per il socialismo, ma questo è un processo di lunga lena, un processo che richiede tempi molto lunghi, non esistono scorciatoie politiche. Questa strada, ampiamente battuta in questi anni, si è rilevata del tutto fallimentare quando non ha provocato ulteriori danni.
Vi è un interrogativo a cui devo però rispondere. Si potrebbe infatti osservare: “Va bene, sei convincente, ma oggi che si fa? Ci disinteressiamo su quello che succede in Italia, in Europa, nel mondo? Quale politica dobbiamo portare avanti?”.
A questo interrogativo la mia risposta è basata sulla mia esperienza politica, sugli oltre cinquant’anni di militanza nel campo della sinistra in cui ho avuto anche responsabilità importanti di direzione. Per questo mi rendo perfettamente conto che la risposta che segue può lasciare più che qualcuno insoddisfatto e critico. È un terreno di confronto e naturalmente non pretendo di avere la verità in tasca. La discussione è aperta.
In Italia due sono, a mio avviso, i dati salienti per chi intende a sinistra continuare a fare politica attiva.
Il primo è prevalentemente sociale e si chiama Cgil, unica organizzazione ancora di massa sopravvissuta a sinistra in questi anni. Conosco benissimo i suoi limiti come alcune sue responsabilità, anche gravi, da non nascondere o rimuovere. Ma anche qui percorrere delle scorciatoie non porta molto lontano. Se si vuole avere un qualche tipo di rapporto con i lavoratori, di cui solo una esigua minoranza vota a sinistra, è necessario radicarsi nel mondo del sindacato confederale, nella Cgil in modo particolare e tentare di correggerne gli aspetti negativi più macroscopici. La scelta della Cgil di rompere definitivamente un rapporto privilegiato con il Pd non è certamente sufficiente per rilanciare un sindacalismo conflittuale, ma è già un passo avanti per cercare di uscire dagli schemi di un sindacalismo che si affida alla concertazione e non alla dialettica conflittuale tra capitale e lavoro, tra padroni e lavoratori.
Il secondo aspetto è politico e si chiama Movimento 5 Stelle di Conte. Attenzione a non confonderlo con il vecchio Movimento, quello di Grillo. Con Conte il Movimento si è, senza troppi proclami, rifondato. Esprime istanze popolari di massa e ha una linea sulla dirimente questione della pace e della guerra che è la traduzione in politica degli appelli di Papa Francesco, il quale, vorrei far notare, non parla di aggrediti e di aggressori sul conflitto militare in corso tra russi e ucraini, ma esclusivamente di trattative di pace. Una posizione che Conte mi pare abbia fatto ampiamente sua. Non sarà il massimo per chi vorrebbe condurre la lotta antimperialistica, ma è fuori discussione che sia questa la posizione più avanzata in Italia con basi di massa.
Ecco, la Cgil e il Movimento 5 Stelle sono oggi i due principali referenti per condurre una lotta politica e sociale avanzata. Vanno evitati però due rischi esiziali. Il primo, una critica tutta basata su un ideologismo vecchio stampo inconcludente che non si confronta con queste realtà, sia politiche sia sociali, anzi le rifiuta. Il secondo pericolo, altrettanto grave, è di considerare la Cgil e soprattutto il Movimento 5 Stelle punti di approdo e di ripartenza per chi testardamente vuole rilanciare una sinistra rivoluzionaria, anticapitalista e antimperialista. È una idea bislacca credere che il futuro della sinistra rivoluzionaria sia nell’ambito di 5 Stelle o nella Cgil il cui ruolo, proprio perché è un sindacato, dovrebbe essere per sua natura riformista e non rivoluzionario, se non si vuole scivolare nel pan sindacalismo. Sostenere la Cgil e il Movimento 5 Stelle per me vuol dire dunque sostenere una azione di massa critica nelle attuali condizioni date in Italia. È questa l’unica scelta oggi possibile ed è cosa profondamente diversa da un progetto strategico rivoluzionario, per giunta di lunga lena.
Per questa ragione guardo con un certo interesse all’iniziativa di un’area di sinistra che sta tentando di raccordarsi e di stabilire una alleanza politica con i 5 Stelle. La guardo con simpatia poiché riconosco che è l’unica cosa che si può fare se si rimuove il tema della ricostruzione di un campo teorico. La sostengo ma non sono più di tanto interessato. Anche se è meglio fare questo che niente. D’altronde il contributo di questa area per aumentare la massa critica del Movimento 5 Stelle è esiguo. Ma va bene lo stesso!
Personalmente intendo concentrare le mie poche energie per avviare, con chi ci sta, un lavoro teorico di lungo periodo. Il resto sono valutazioni politiche soggettive che non pretendo diventino una linea politica. Sono solo la mia scelta di stare sul pezzo, sulla politica, ma non imbastisco su questo terreno progetti di lavoro per i prossimi mesi e anni.
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