“Cosa valgono cinque milioni di dollari, quando ho l’amore di otto milioni di cubani?” (Teofilo Stevenson, pugile cubano, vincitore di 3 medaglie d’oro olimpiche, quando gli offrirono quella somma per diventare professionista e battersi negli Usa con Mohammed Ali)
“Dieci morti nel tentativo di passare le frontiere blindate dell’Inghilterra contro pochissime migliaia di persone. Pattugliamenti,fili spinati,ecc…Ma quella e’ la culla della democrazia europea, mica dei nazisti ungheresi qualsiasi. Poche centinaia di siriani e la frontiera della Danimarca chiusa,con la polizia che aveva l’ordine di ARRESTARE qualsiasi giornalista volesse documentare con immagini gli eventi. Ma quella e’ la civilissima Nordeuropa culla delle socialdemocrazie, mica i nazisti ungheresi, perdipiù coglioni perche’ la stampa filma qualsiasi cosa senza censura”. (Luca).
”Il Partito Comunista Cubano chiede ai militanti di andare alla messa, di andare a ricevere papa Francesco, praticamente come se fosse un compito del partito. Cosa con cui io non sono affatto d’accordo… Andare ad una messa questo no, perché qui c’è libertà di culto e io non credo, pertanto non devo andarci.” (Aleida Guevara, figlia del Che)
“L’Argentina di Bergoglio è stata in grande misura complice dell’ assassinio e della sparizione di più di 30.000 argentini. Non so dov’era il papa in quel momento. Cosa ha fatto veramente? Non lo so”. (Aleida Guevara, figlia del Che)
Una primavera vera
Intanto, in un mondo cui i fumi dei turiferari di Bergoglio hanno annebbiato vista e cervello, un altro paese arabo va sparendo dalla carta geografica e dal concerto umano. 20 milioni di yemeniti senza cibo e senz’acqua per il blocco umanitario della coalizione a guida saudita e a padrinaggio occidentale, da marzo sono sottoposti a un uragano di bombe sganciate da aerei Usa e indirizzate da tecnologie israeliane. Se a volte si abusa del termine “genocidio”, questo non è il caso. Su un paese che, prima, con una rivoluzione di massa contro il tiranno filo-Usa Saleh e, poi, con la rivolta armata della sua popolazione scita (Houthi), a cui si sono uniti l’esercito e vasti settori progressisti sunniti, contro il clone del primo, Hadi, la coalizione necrofaga Atlantico-Golfo esercita la sua bulimia di morte.
Ho vissuto per due anni in quel paese, povero, ma ancora Arabia Felix, come l’avevano conosciuto i romani. Sebbene dilaniato da colpi di Stato e separatismi, inevitabilmente manovrati dall’Arabia Saudita e concordati con USraele per scongiurare che il paese a cavallo di Mar Rosso, Corno d’Africa e Stretto di Hormuz potesse compromettere il controllo sul più massiccio traffico di petrolio e merci del mondo, la vita scorreva, la nazione resisteva. Tanto da aver poi prodotto un’insurrezione – primavera vera, laica, popolare, quella yemenita – che, spazzati via i proconsoli dell’imperialismo e della vandea wahabita, era riuscita a liberare l’intero paese, da Sanaa ad Aden. A opporsi erano rimasti solo i gruppi terroristici di Al Qaida, preventivamente installati da coloro che li avevano già generati in .Libia, Iraq, Siria, Nigeria e che dovevano fornire ai droni assassini Usa il pretesto per colpire i gangli infrastrutturali del popolo insorto sotto la guida di partito rivoluzionario e antimperialista, Hansarullah.
In poche settimane, tra il 2014 e il 2015, la rivoluzione aveva eliminato dalla scena i mercenari di AQAP (Al Qaida in the Arabic Peninsula) e aveva conquistato il paese dal Nord di Marib fino alla propaggine sud-est di Hadramuth, dal Mar Rosso al Golfo di Aden. Allo Yemen si apriva un nuovo capitolo di storia all’insegna di emancipazione, autodeterminazione, sovranità popolare. Un incubo per chi in questo territorio tra due continenti e due mari, tra due stretti, Bab el Mandeb e Hormuz, aveva individuato la chiave per il dominio geopolitico non solo regionale. Ed è stato il via libera ai vassalli feudatari del Golfo, padroni di paesi governati dalle proprie famiglie e popolati da schiavi, per i quali uno Yemen democratico, di cittadini liberi dalle radici millenarie, costituiva un’aberrazione dal terrorizzante potenziale contagioso.
All’aviazione, agli armamenti, all’intelligence, forniti dall’Occidente e da Israele, non sono bastati sette mesi di bombardamenti stragisti (per l’ONU, a fine settembre, le vittime, quasi tutte civili, donne, bambini, senza la benefica sorte, questi, della misericordia riservata dai bravi europei ai figli dei rifugiati, rasentavano le 6.000) e neppure un blocco navale criminale che ha perfino impedito la forniture umanitarie vitali, farmaci, vettovaglie, acqua. Le navi iraniane o irachene che le portavano, venivano rimandate indietro e, semmai, fornivano lo spunto per rinverdire la propaganda che trasformava la rivoluzione popolare in complotto iraniano per estendere “l’arco scita”. Svaporata Al Qaida, è arrivata la fanteria dell’imperialismo, Isis, dotata stavolta di ben altri mezzi, uomini, regole d’ingaggio. E sono iniziati i massacri e le atrocità, le deflagrazioni nelle moschee con centinaia di morti, insomma la missione che i mandanti affidano ai sicari dello Stato Islamico, nella speranza che il terrore finisca con il fiaccare la popolazione nel suo sostegno alla Resistenza, più di quanto non abbiano saputo domarla bombe, fame e sete.
Quando penso ai miei tempi nello Yemen, insieme al calore dei suoi gentili e sorridenti abitanti, all’ospitalità e amicizia sempre prontissime, alla preferenza, tutta araba, per la vita collettiva, alla cura amorosissima per i bambini, al fervore intellettuale dei giovani, dominano l’immaginario le fantastiche, fiabesche abitazioni verticali, antiche di millenni. Mattoni di fango solidissimi, decorati fino ad altezze vertiginose con fantasmagorie di calce bianca. Arabeschi, filigrane, archi e merli, interrotti da lampi di vetri multicolori alle finestre. Musei e siti archeologici senza uguali nella regione, risalenti al 1° millennio avanti Cristo, alla civiltà dei Sabei. Questa sconfinata e ineguagliabile ricchezza di un popolo incontaminato, che, con l’aiuto di generose spedizioni archeologiche, li ha curati e custoditi con perizia e amore, non esiste più. Polverizzata dai sauditi, tanto parvenu volgari quanto cavernicoli ignoranti, raccattati dai britannici nei caravanserragli, dotati di corona e messi lì, a far da palo al colonialismo.. Caricature della depravazione dinastica inglese, garanti delle comuni predazioni e della comune obliterazione dei diritti dell’uomo.
Qualche pigolìò dal breve fiato si è udito in Occidente sulla cancellazione delle memorie dei popoli e dell’umanità a Palmira, Nimrud, Niniveh, sulla devastazione e sui furti, gestiti dagli Usa, nel Museo Nazionale e nella Biblioteca Nazionale a Baghdad. Sull’assassinio dello Yemen, anche attraverso la cancellazione di cultura, storia, identità, non s’è alzato che qualche sopracciglio. Eppure sempre gli stessi sono i committenti, dello stesso mercenariato gli esecutori. E’ identico è lo scopo. Quello dei conquistadores quando, oltre a compiere genocidi, sgretolavano a cannonate le opere nel tempo dei popoli nativi. Questo, forse, è il connotato più forte e letale dell’imperialismo, il suo fine escatologico. Privare le terre delle loro presenze storiche, umane (ed ecco gli svuotamenti chiamati migrazioni, con il bonus imperialista aggiunto della destabilizzazione dei luoghi d’arrivo) e testimoniali. Quelle che danno il nome a mondi e popoli, la consapevolezza di sé e la sopravvivenza nel tempo. Il proprio contributo alla vicenda umana. Perché, senza nome, non sei nessuno, anche per te. Estirpare le radici che sorreggono e alimentano la pianta e ne favoriscono la continuità e l’espansione. Da un albero mozzato spesso rinascono virgulti. Da uno sradicato, viene solo secchezza e putredine. Le classi dirigenti dell’Uccidente lo sanno, lo praticano. Il culto monoteista di Mamona celebra così i suoi riti.
Restiamo nel mondo arabo. A Tripoli si sono inventati un capo-scafista (no, questo non si chiama Nato, sarebbe solo un subalterno), Salah al Maskhout, e parrebbe che si siano anche inventati la sua esecuzione da parte di quattro pistoleri con armi e munizioni dell’ambasciata Usa. Però commandos italiani, che avrebbero sopraffatto, “con incredibile efficienza e precisione”, la superiorità numerica e di armi della di lui guardia del corpo. Cosa che rende del tutto incredibile l’attribuzione a forze speciali del nostro pasticcione paese. Siamo quelli di Abu Omar, noi. Senza uno squadrone Cia non combiniamo niente. Salvo qualche strage di Stato, ma anche lì obbediamo a ordini di servizio da fuori e da molto in alto, vedi Gladio. E c’è un altro elemento che mette in dubbio una paternità italiana. Gli scafisti sono la manovalanza dei trafficanti, e i trafficanti sono i tour operator di coloro che governano il business militare e civile delle migrazioni di massa. Guai a disturbare questo business e la geopolitica che lo governa e non solo per i profitti del racket. Soprattutto per disseminare nel vento popolazioni, spargere sale sui loro territori e, al tempo stesso, sgambettare qualche alleato, l’UE?, che non si rizzi troppo in piedi.
Figurati se gli scagnozzetti della Pinotti e di Gentiloni possano aver anche solo immaginato di intralciare questa remunerativa strategia. Anche perché irritare i Fratelli musulmani di Tripoli, che gestiscono gli imbarcaderi sulla loro costa e il cui capo-Congresso, Nuri Abu Sahmain, si qualifica apertamente amico del boss presuntamente ucciso (ma che poi ha telefonato chiedendo che cazzo succede) e che ha alle spalle potentati investitori in Italia come il Qatar, non è proprio cosa nostra.
A proposito di sgambetti, c’è una notiziola intrigante. I curdi del PYD, quelli d Kobane, tanto cari a tutti coloro che vorrebbero oscurare la vera, grande, quadriennale lotta del popolo siriano e, dunque, assolutamente credibili, ci rivelano che il profugo sgambettato col figlioletto in braccio dalla stronza ungherese e perciò divenuto un idolo dei misericordiosi e destinatario di offerte d’asilo da mezzo mondo, ha un nome: Osama Abdul Mohsen, E chi è questo Osama? Nientemeno che un terrorista di Al Nusra, la formazione Al Qaida che, con l’Isis, condivide gli oneri e onori Nato di stuprare e massacrare donne e bambini siriani. Rivelano i curdi che il figuro, della città di Tel Abyad, entrò nelle bande terroriste fin dal 2011, combattè contro i curdi a Amudeh e Serekanieh e fuggì quando il PYD conquistò la zona. Sarebbe colpevole di atrocità contro i civili, da allenatore di una squadra di calcio nel 2010 avrebbe causato tumulti finiti con 50 curdi ammazzati, e nella sua pagina Facebook abbondano le foto di lui miliziano impegnato in bravate con i suoi compari. C’è da chiedersi chi l’abbia mandato in Europa e se sia una “rara flor”, oppure se faccia parte di una missione per qualche False Flag dalle nostre parti. A Madrid lo ha abbracciato Cristiano Ronaldo (The New Free Syrian Press, 21 Settembre 2015).
Siria, la trappola di Putin
Ottime notizie dalla Siria. Premetto che se si accende una luce sulla Siria martirizzata e resistente, ciò è dovuto a quasi cinque anni di fantastica lotta, sotto la direzione di Assad e del Baath, di un popolo di cui ho documentato i sentimenti, l’amore per il proprio presidente e la determinazione, nel film “Armageddon sulla via di Damasco”. Un popolo che già nelle precedenti tre guerre contro Israele aveva dimostrato il suo valore. Ovviamente la Russia di Putin, non più quella di Medvedev che aveva subito l’annientamento della Libia, ha giocato un ruolo decisivo. Non fosse stato per Mosca, le orde Nato si sarebbero già da tempo abbattute dal cielo, in soccorso alle bande di briganti mercenari che ne costituiscono la fanteria in tutto il Medioriente e che in 5 anni non hanno saputo avere la meglio sulle forze armate dello Stato e sulle sue milizie popolari (che non sono solo scite, né in Siria, né in Iraq, come vorrebbero le cronache del “manifesto”, ligie alla vulgata della guerra civile confessionale. Sia l’esercito, sia le forze popolari di autodifesa comprendono tutte le confessioni presenti nei due paesi).
Nelle ultime settimane, di fronte al ventilato intervento di terra della coalizione uccidentale, già anticipato dai turchi con la zona cuscinetto oltre il confine siriano, Putin s’è mosso sui due fronti.
Su quello diplomatico ha coinvolto in dialoghi per una composizione politica del conflitto le varie parti in causa, con incontri diretti tra il ministro degli esteri Lavrov e i governanti del Golfo, fino a quello con un Obama in grave difficoltà per i fallimenti successivi di tutte le sue opzioni, ultima quella che tentava di risuscitare la famosa forza ribelle moderata, risoltasi con l’ennesimo passaggio di quattro gatti raccattati in Siria, subito passati armi e bagagli con gli alqaidisti di Al Nusra. Ha affermato perentoriamente, insieme all’Iran, contro tutti i corvi, anche nostrani, che diffondevano voci su un abbandono russo di Assad, come nessuna soluzione alla crisi fosse possibile tagliando fuori il legittimo presidente della Siria e che l’unica forza effettiva contro il terrorismo jihadista era quella siriana. Ha ribadito l’evidenza solare di una finta guerra contro l’Isis pretesa dagli Usa e dagli alleati del Golfo, guerra che se fosse vera avrebbe potuto spazzare via i terroristi in men che non si dica, a partire dalle linee di rifornimento.
Mentre Obama, Netaniahu e soci si divincolavano nella paralizzante contraddizione tra il proprio uso contro Assad dei jihadisti importati da ogni dove, e la conclamata identificazione degli stessi quale apocalittica minaccia all’Occidente, Putin è passato al fronte militare. A Latakia arrivano mezzi e armamenti avanzati, a rinforzo dello schieramento governativo, e porti e aeroporti sulla costa vengono potenziati per accogliere aerei e truppe di Mosca. Se è vero che in Occidente si vuole combattere il terrorismo jihadista, fa capire Putin, ecco noi ci stiamo, siamo pronti. In quattro e quattrotto il carcinoma che tanto spaventa la “comunità internazionale” e dai cui orrori scappano le sterminate folle che invadono l’Europa, può essere sradicato. Per la seconda volta, come dopo la False Flag delle armi chimiche di Assad, disinnescata da Putin con le prove che si trattava di operazione sotto mandato turco e con la consegna dell’intero arsenale chimico siriano, il presidente Putin salva la Siria dall’olocausto pianificato dal mostro tricefalo Nato-Israele-Golfo. E una mano gliela dà, nel segno del blocco euroasiatico costituito tra Mosca e Pechino, anche la Cina. E’ del 25 settembre, come rivela Igor Morozov, presidente del Comitato per gli Affari Esteri della Federazione russa, la decisione cinese di partecipare alla lotta contro l’Isis.Una flotta cinese, composta da portaerei e incrociatori, è entrata nel Mediterraneo.
Siccome tout se tien in Medioriente, in parallelo Mosca costruisce a Baghdad un coordinamento per la sicurezza, l’intelligence e le operazioni di difesa dall’Isis, tra Iraq, Russia, Iran e Siria. L’intento dichiarato, secondo il premier iracheno Al Abadi, è “monitorare i movimenti delle bande terroriste e degradarne il potenziale militare”. In concreto, la mossa sembra indicare un ulteriore impegno iraniano, con le brigate Al Quds, a fianco dell’esercito di Baghdad e delle milizie popolari scite-sunnite, e ulteriori forniture di armi e mezzi russi, compresi aerei da combattimento. Devono rimpiazzare quelle che gli Usa hanno cominciato a negare quando i rapporti tra Washington e Baghdad sono andati deteriorandosi in seguito alle innumerevoli accuse mosse dagli iracheni sui lanci Usa di armi e rifornimenti alle unità dell’Isis.
Dalle capitali che fin qui avevano sostenuto, con mercenari e consenso politico, le ragioni dell’eliminazione di Assad e dello squartamento della Siria, si iniziano a flautare voci sulla possibilità di contemplarne la permanenza, almeno per una “fase di transizione” (benissimo, poi saranno i siriani a decidere, come hanno già ripetutamente fatto). A Cameron il parlamento britannico ha negato il consenso all’intervento (ovviamente trascurando l’annosa presenza sul campo delle teste di cuoio SAS). A Berlino, le cui posizioni contano più di ogni altra, si è detto chiaro e tondo che a un attacco contro la Siria non si partecipa. E perfino Roma, dell’internazionalmente irrilevante Renzi, nicchia. Solo un omuncolo, un autentico quaquaraquà, il presidente francese Hollande, pensa di giocare d’anticipo scatenando in contropiede i suoi quattro Rafale. Ovviamente l’obiettivo Isis strombettato dal sottopancia Nato è il solito falso scopo. Hollande è l’unico che ancora insiste a urlare via Assad. Ma se la sua grandeur d’accatto ha potuto esercitare muscoli colonialisti in Costa d’Avorio, Libia, Mali e dintorni, qui le cose le decidono i grandi.
Apocalissi biblica?
Dopo anni in cui l’Uccidente, Israele e sgherri regionali, hanno utilizzato ogni immaginabile mezzo per dissanguare e spopolare Siria e Iraq, i due popoli sono ancora in piedi. E i loro alleati sono potenti e sanno muoversi assai meglio. E’ concepibile che Obama tenti una fuga guerrafondaia in avanti e rischi nei cieli sopra Baghdad e Damasco la conflagrazione universale finale? Quella a cui puntano gli apocalittici che prendono per manuale d’istruzioni la bibbia. Per passare alla storia, a due passi dalla fine del mandato, come colui che ha provocato l’ultima guerra mondiale? Si tratta di psicopatici, è vero, al servizio e comando di psicopatici ancora più fuori di testa, ma un po’ di calcoli costi-benefici, c’è da sperare, li sappiano ancora fare.
C’erano alcune altre cose da dire. Ma già sono troppo lungo per molti. Mi limito a qualche telegramma.
Papa-Cuba-Usa
Su papa e Cuba, la figlia del Che (vedi sopra) ha detto in nuce quel che è successo all’Isola da quando è stata presa al guinzaglio da tre pontefici e un presidente Usa. Meravigliosa, ma non stupefacente perché ricorrente, l’unanimità degli orgasmi sinistri e destri nel giubilo per le astratte genericità buoniste che Bergoglio ha sciorinato a manetta tra l’Avana e Washington, alla corte di un rinnegato della rivoluzione e di un criminale di sette guerre e innumerevoli terrorismi. Ha condannato la pena di morte. Bene, bravo, grazie. Detto dal capo di un’organizzazione che nei secoli ha fatto fuori e fatto far fuori più gente da sola di tutte le altre messe insieme, non è male. Intanto, ciò che conta, al di là dei carezzevoli bla bla bla, è l’America Latina, già in corso di guevarizzazione, da riconsegnare al cattoliberismo della dottrina sociale della Chiesa. Meno Stato è più scuole, ospedali, media cattolicamente privati. Raul ha già detto sì. Obama e gli americani si sono commossi.
Volkswagen, che combinazione!
Avete fatto caso alla tempistica della micidiale botta data alla Germania con la siringata al curaro al suo cuore industriale? Alla Fiera di Francoforte, la Merkel stava incitando l’industria automobilistica tedesca ad altre grandi imprese imperialiste. Magari con il sostegno dei validissimi quadri siriani appena accolti. Magari a ulteriore danno dell’agognata egemonia automobilistica Usa. E uno. E due, più importante, Merkel aveva appena dichiarato che a partecipare alla guerra alla Siria non ci pensa nemmeno e che, sull’Ucraina, si atteneva agli accordi di tregua di Minsk. Sale sulle ferite aperte nel corpaccio imperialista dall’offensiva diplomatica e militare russa.
Il fatto è che, come si è saputo, tutti sapevano tutto della truffa al gas asfissiante Berlino, Washington, Bruxelles. Greenpeace l’aveva denunciata nel 2013, i media ne avevano parlato. Il fatto è anche che di truffa e avvelenamento collettivo campano governi e case automobilistiche. Tutti e tutte. Basta pensare allo scherzetto dei filtri Diesel italiani che bloccano le polveri grosse, ma bruciandole, poi ne diffondono di microscopiche, infinitamente più micidiali. Mortali.
Torna in mente quella intemerata reporter investigativa della Gabanelli che, seccato l’eterodosso Di Pietro con un reportage zeppo di falsità e calunnie, ha servito al potere multinazionale il ben più succoso piatto ENI. Tangenti all’Algeria! Potete scommetterci l’intero vostro TFR che non c’è società petrolifera al mondo che non lubrifichi i governanti da cui si aspetta che le diano accesso ai giacimenti. Ma l’ENI lavorava alla grande sia con gli arabi (quasi monopolista in Libia e Algeria), sia con i russi. Partner di Gazprom e padrona di giacimenti in Siberia, costruiva con i russi il gasdotto South Stream che tagliava fuori gli americani. Fetente, d’accordo, basti pensare alla Val d’Agri e alle trivelle in Basilicata. Ma un po’ troppo nazionalista. Parolaccia. Ci ha pensato Gabanelli e la testa dell’Eni, Scaroni, è saltata.
Tsipras, un boia santo subito
Pare che la fenomenologia Tsipras si stia moltiplicando. Avete presente quel brav’uomo di Sanders, candidato democratico che sta sopravanzando la gorgone Hillary con promesse di giustizia sociale e pace? Qualcuno dei suoi sicofanti nostrani ha menzionato la conferenza in cui, contestato da chi gli rimproverava la solidarietà a Israele, ha risposto “Basta! Chiudete il becco!”? E qualcuno vi ha fatto notare che l’altro ancor più brav’uomo, Corbyn, ha inveito contro il tiranno Assad da obliterare? Oppure vi hanno fatto trapelare che Pablo Iglesias di Podemos ha espresso tutta la sua solidarietà al martire della democrazia venezuelana Leopoldo Lopez, altro brav’uomo che, dopo aver sostenuto il golpe contro Chavez del 2001, si è ribellato al Venezuela di Maduro con pogrom terroristici di bande fasciste (43 morti, centinaia di feriti) e sabotaggi economici ed è stato ingiustamente condannato al carcere dal dittatore erede di Chavez? Rispetto all’altro idolo, Tsipras, questo è niente.
Faccio fatica a parlare di questo personaggio, esecutore testamentario del suo popolo. Ma faccio ancora più fatica a parlare dei corifei che continuano a intrecciargli sul capo corone d’alloro e ad andare in processione salmodiando novene e peana. Un’autentica macchia nera sulla storia trimillenaria di un popolo che ha bucato con la luce della ragione e della bellezza l’oscurità della superstizione e delle tirannie, le quali tutte di superstizione si nutrono. Vinta un’elezione col trucco del colpo ravvicinato ai dissidenti, grazie all’astensione di un greco su due, la perdita di un terzo dei voti e quindi il consenso del 20% scarso, il “manifesto” lo ha salutato in prima pagina con questo fuoco d’artificio:su gigantografia: “BENE, BRAVO, TRIS”.
Dove il “bene”, immagino, è per come ha fregato chi non ci stava a buttare nel secchio il proprio paese ed era appena nato. Il “bravo”, lo deve aver suggerito la lobby, ormai egemone nel giornale, per aver rinnovato abbracci, effusioni e alleanza con Kammenos, capo del partito ancora più di destra e quindi in coalizione, da poco reduce dalla congiunzione ideale, materiale e militare a Tel Aviv con il fratello Netaniahu.
Il capo dell’unica democrazia in Medioriente, d’ora in poi, potrà contare, per la promozione militare dell’eletta civiltà sionista, sull’intero territorio greco, con tutte le sue armate. Proprio quelle che, grazie alle cure tedesche, hanno precipitato il paese nell’abisso di un debito che, grazie a Tsipras, ne curerà le esequie. Tutto questo non può disturbare la fede a prescindere di chi aveva già offerto ogni comprensione allo Tsipras, ancora in fieri, che giurava fedeltà alla Nato e all’UE.e nominava la signora Bilderberg, Spinelli, a capo dell’analoga buggeratura italiana (felicemente estinta). Per convocare ai festeggiamenti di colui che ai greci ha inflitto un cappio ancor più stretto di quello che in massa avevano respinto col referendum, il “manifesto” ha usato le sue pagine come trombe del giudizio. E dalle tombe sono emersi i Marco Revelli, i Guido Viale, le Norme Rangeri, i Burgio, tutte le teste d’uovo della “vera e unica sinistra”, in gran parte anche un po’ rincitrullite poiché spossate dall’inane fatica di Sisifo di far risalire il masso che poi regolarmente gli ricade in testa. Tutti, con grande coerenza, a battere le mani in standing ovation al masso piombato in testa alla Grecia.