Per una discussione teorica e politica
Un
nuovo tornante della storia
Con l’inizio dell’operazione militare speciale della Russia
in Ucraina siamo a un nuovo tornante della storia, una di quelle situazioni
nuove che si presentanodopo tantissimi anni, un tornante paragonabile alla
Rivoluzione francese o a quella dell’Ottobre del 1917.
Per questa ragione è da respingere la tesi, cara anche a
una certa sinistra, che la guerra in Ucraina sia una guerra imperialistica tra
gli USA e la NATO da una parte e la Russia e i suoi alleati dall’altra, simile
al grande conflitto mondiale del 1914/18. Il confronto storico è più simile
alla grande coalizione che fu costituita in Europa per soffocare la Rivoluzione
francese o alla guerra civile nella giovane Repubblica dei soviet tra i
bianchi, sostenuti attivamente da una coalizione occidentale, e i bolscevichi,
dopo la presa del potere nel 1917, allo scopo di restaurare il regime zarista.
È evidente che in Francia il fine era quello di riportare al potere la
monarchia assolutista e in Unione Sovietica di impedire che le idee
rivoluzionarie socialiste potessero diffondersi in tutto l’Occidente.
Dal
capitalismo al dominio del capitale finanziario
Alla base dello scontro, politico e militare, vi è la
volontà da parte dell’Occidente collettivo di contrastare, anche con la guerra,
la costruzione di un ordine mondiale multipolare. La cosiddetta “guerra
mondiale a pezzi” ha questo segno chiaro, netto, e si è potuta scatenare solo
dopo che gli accordi di Bretton Woods, che nel 1944 avevo stabilito la
convertibilità del dollaro in oro, furono messi in discissione da Nixon nel
1971.
L’accordo di Bretton Woods prevedeva un sistema monetario
globale fondato sulla convertibilità del dollaro in oro. Si era costruito un
sistema basato sui rapporti fissi di cambio tra le valute, tutte agganciate al
dollaro, il quale a sua volta poteva essere convertito in oro, in modo da
rendere stabile il sistema e disincentivare gli eccessivi movimenti di capitali
per fini speculativi ed evitare crisi sistemiche come quella del 1929. Con
quegli accordi si istituirono il FMI e la Banca Mondiale. La convertibilità del
dollaro in oro impediva agli USA e a ogni altro paese di stampare moneta a
proprio piacimento, per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla stessa
moneta.
Il superamento degli accordi di Bretton Woods ha portato a
una politica che permette di stampare moneta senza nessun vincolo e così il
sistema valutario ha iniziato a trasformarsi in un sistema di fluttuazione dei
cambi senza nessuna certezza, con un dollaro sempre più volatile. Le crisi
finanziarie dei nostri tempi vengono da quella decisione presa da Nixon nel
1971. Le libere fluttuazioni valutarie hanno determinato un mercato finanziario
senza limiti, senza regole né vincoli, dove l’unica legge vigente è quella di
realizzare il massimo profitto che si genera soprattutto acquistando e vendendo
valuta. La moneta, da strumento dello scambio commerciale o capitale di credito
per il capitale produttivo, è divenuta essa stessa merce.
Questo passaggio, che ha comportato l’assenza di freni per
il capitale finanziario la cui attività speculativa sempre più prescinde dalle
esigenze di sviluppo della produzione, non è di poco conto. Si è oramai
costituita una grande bolla finanziaria, con una enorme massa di denaro che si
sposta rapidamente, senza nessuna logica produttiva, in tempo reale attraverso
le reti telematiche, da un punto all’altro del globo, solo al fine di operare
in modo speculativo e realizzare enormi profitti.
Il costante sviluppo del capitale finanziario ha prodotto
una mutazione strutturale del capitale in Occidente: dall’essere espressione
del sistema capitalistico a sistema politico dominato dalla finanza. Marx opera
una distinzione tra capitale produttivo e capitale finanziario; considera
quest’ultimo cosa ben diversa dal capitale commerciale e di credito che aveva
avuto una parte rilevante nelle società mercantilistiche precapitalistiche.
Questa distinzione permette a Marx di stabilire il modo proprio del capitale
finanziario di regolamentare anche la società, in qualche misura autonomamente
dallo stesso capitale produttivo. Successivamente Hilferding e Lenin hanno
ripreso l’analisi sul ruolo predominante del capitale finanziario soprattutto
accentuandone gli aspetti di guerra economica e l’approdo imperialistico che
deriva dal suo sviluppo.
Con la formazione del capitalismo monopolistico di Stato la
preminenza del capitale finanziario è stata contenuta e regolata. L’intreccio
tra monopoli industriali e finanziari si saldano attraverso lo Stato. In questa
connessione lo Stato, da una parte traduce in pratica la visione complessiva
del capitale finanziario, e nello stesso tempo, dall’altra parte, non lo
riconosce come il depositario dell’intera ricchezza del paese. In questo quadro
il modello keynesiano è il modo in cui regolamentare il capitale finanziario
per mantenere alto il livello di produttività e per contenere l’accumulazione
ulteriore di capitale finanziario per scopi speculativi. Lo sviluppo del
welfare è possibile, perciò, solo in un sistema capitalistico regolato dallo
Stato.
Oggi, in tutto l’Occidente collettivo, non siamo più in un
sistema di capitalismo monopolistico regolato dallo Stato, ma siamo giunti al
dominio del capitale finanziario che fa a meno dello Stato, ridotto alle sue
funzioni essenziali. In Occidente, nel periodo compreso tra gli anni Settanta e
Novanta del secolo scorso, si è definitivamente passati a una nuova forma di
dominio, quella del capitale finanziario che, oltre a comprimere o addirittura
a negare lo sviluppo del capitale produttivo, determina pure l’insorgenza di ulteriori
gravi ineguaglianze inaccettabili. Sono gli anni in cui i grandi gruppi
industriali si segnalano per una accentuazione sempre più crescente dei tratti
finanziari, cioè un’attività volta a spostare i propri interessi dalla
produzione alla finanza.
In Italia questo
passaggio è avvenuto attraverso scelte decisive del potere politico su spinte
forti della finanza. La liquidazione della Cassa del Mezzogiorno, lo
smantellamento dell’industria pubblica fiore all’occhiello dell’economia
italiana, la privatizzazione di servizi strategici, del sistema bancario e
della Cassa Deposito e Prestiti, la collocazione autonoma dal potere politico
della Banca d’Italia, fino all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso
nell’euro, sono i più rilevanti atti politici che hanno permesso l’ascesa del
capitale finanziario Queste decisioni sono state accompagnate da numerose
violazioni e modifiche della Carta costituzionale e da riforme elettorali in senso
maggioritario. Scelte che, tra l’altro,quasi sempre sono state fatte da governi
di centrosinistra,pur con l’avallo delle destre. Con “mani pulite” poi si è
liquidata gran parte della classe dirigente della prima Repubblica. Oggi, a
completamento di questo disegno, si discute di autonomia differenziata e di
elezione diretta del premier.
La questione della mutazione della forma del capitale è
implicitamente contenuta nel pensiero di Marx che definì la sua opera “Il
Capitale” (e non il capitalismo) come studio del processo della sua
riproduzione. La sua era una analisi strutturale. Partiva dalla considerazione
che il capitale è una categoria dinamica e che le sue forze, le forze sociali
cui esso corrisponde, appaiono molti secoli prima della formazione in termini
strutturali del capitalismo. Egli è attento a cogliere la diversità storica
delle diverse forme di capitale, finché il capitale industriale non diviene
forza predominante, appunto con lo sviluppo capitalistico. Questa dimensione
storica del capitale e della produzione di merci per Marx hanno una rilevanza
teorica e politica. La produzione di merci e di beni era certamente
preesistente al sistema capitalistico e quindi tale produzione non va confusa
con i caratteri della produzione capitalistica. Storicamente il capitale muta e
determina nuovi sistemi politici, istituzionali ed economici.
Questo passaggio dal capitalismo al dominio del capitale
finanziario è oggi il tratto distintivo dell’Occidente collettivo rispetto al
resto del mondo. Sul piano internazionale si esprime con la strenua difesa,
anche militare, di un ordine unipolare basato sulla potenza statunitense e sul
piano politico con la costituzione di regimi politici a-democratici, come
quelli dominanti in Europa e nella stessa UE.
Sovranità,
globalizzazione, BRICS
L’operazione militare speciale della Russia in Ucraina è
stata un potente fattore di accelerazione dello scontro per realizzare una
visione multipolare. I BRICS hanno tratto da questa accelerazione un vigoroso
sviluppo ed estensione. Lo scontro ha il fine di rovesciare la globalizzazione
finanziaria costruita negli ultimi 50 anni dalle oligarchie dell’Occidente per
garantirsi il dominio mondiale e continuare il saccheggio e la rapina del Sud
globale.
Russia e Cina non sono contro la globalizzazione, ma contro
la globalizzazione finanziaria espressione del sistema che domina in Occidente.
Tre sono i fondamenti della globalizzazione: mobilità dei capitali finalizzati
per infrastrutture, per lo sviluppo produttivo e per l’innovazione scientifica
e tecnologica; mobilità della mano d’opera, possibilmente qualificata e
regolamentata; sviluppo degli scambi commerciali di manufatti e materie prime
nell’ambito di una cooperazione internazionale e nel rispetto della sovranità e
della dignità di ogni paese, grande o piccolo che sia. Si realizza pertanto una
globalizzazione basata su principi che sono esattamente il contrario di quelli
praticati dal capitale finanziario che hanno determinato rapina e caos
emigratorio.
È proprio sul concetto di sovranità di ogni nazione che si
basa la globalizzazione dei BRICS su cui costruire un nuovo ordine mondiale
multipolare. La sovranità è un valore che non deve essere lasciato alle forze
nazionaliste, reazionarie e xenofobe, che da sempre ne hanno fatto un pessimo
uso, foriero di grandi sventure. È un valore fondamentale che deve essere fatto
proprio dalle forze del cambiamento, di una moderna forza rivoluzionaria. Il
multipolarismo – da non confondere con il multilateralismo che è una visione di
ispirazione liberale – è un processo di integrazione e di cooperazione
economico, commerciale e culturale tra popoli diversi, che mantenendo ognuno la
propria identità e sovranità, sviluppano una rete di rapporti fruttuosa per la
crescita e il benessere dell’intera umanità. Il valore della sovranità non è
pertanto in antitesi con quello di internazionalismo socialista: i due momenti
si integrano e si saldano in una sintesi che oggettivamente si pone nel campo
del cambiamento e del progresso. Spetta ai marxisti, ai rivoluzionari,
interpretare questa sintesi per condurre e portare avanti la lotta per il
socialismo.
La battaglia in corso per frenare e contenere la
finanziarizzazione dell’economia e quella per la de-dollarizzazione negli
scambi commerciali condotte, in primo luogo, da Russia e dai BRICS hanno
proprio lo scopo di mettere in discussione la globalizzazione finanziaria
voluta dall’Occidente, per dare nuovo slancio a una visione multipolare. E le
oligarchie finanziarie occidentali reagiscono con la guerra. Una “guerra
mondiale” fatta a pezzi. Il deterrente nucleare è ancora per le oligarchie
finanziarie un ostacolo insuperabile.
BRICS,
antimperialismo e lotta per il socialismo
Un nuovo ordine mondiale non è però un altro modo per
rilanciare la lotta antimperialista. Certamente, via via che si afferma una
visione multipolare si spezzano le vecchie e le nuove catene del colonialismo
nel Sud globale. Certamente il multipolarismo dà nuovo vigore alla lotta
antimperialista. Ma questo è un compito preciso delle forze rivoluzionarie in
ogni angolo del mondo e dei paesi socialisti o a orientamento socialista. Il
Partito comunista cinese e i comunisti russi ne sono consapevoli. Ed è per
questo che la Cina e la Russia di Putin evitano accuratamente di caricare i
Brics di una concezione antimperialista. Non vi è traccia nel PCdFR di una
critica a Putin che vada in questa direzione. Resta comunque il rilevante
aspetto che un nuovo ordine mondiale multipolare favorisce la possibilità di
una prospettiva socialista mondiale. Per questo la battaglia in corso per un
ordine multipolare è anche, in ultima istanza, lotta per il socialismo.
I BRICS sono un insieme di paesi con sistemi economici e
politici tra loro molto diversi, ad esempio l’Arabia Saudita o gli Emirati
Arabi non possono essere annoverati tra i paesi socialmente avanzati; sono
paesi accomunati dall’essere economie mondiali emergenti che non costituiscono
però un’alleanza militare, anche se sono molte le attività che vanno in questa
direzione. Anche tra la Russia e la Cina vi sono differenze non da poco. La
prima è un paese a capitalismo monopolistico di Stato in cui molto forte è il
welfare, anche come retaggio delle politiche sociali dell’ex Unione Sovietica.
La Cina è invece un paese socialista che basa il suo sviluppo produttivo su un’economia
di mercato sotto il controllo dello Stato e del PCC. Sarebbe un errore grossolano
dunque caricare i BRICS di un significato ideologico che non hanno. Ciò che
unisce i BRICS è la comune visione contro il dominio occidentale del capitale
finanziario, contro la globalizzazione finanziaria. Gli effetti della ricaduta
nazionale di tale politica non sempre vanno a favore delle classi subalterne, a
idee di giustizia sociale e socialiste. Spesso, come in India, vanno a
ingrassare una già forte borghesia nazionale produttiva.
La lotta di classe è tutt’altro che superata dunque e in
questi paesi si sviluppa in forme del tutto inedite. Studiare e approfondire le
posizioni del PCdFR aiuta molto a comprendere su quali obiettivi condurre la
lotta di classe senza indebolire o mettere in discussione la funzione
strategica del paese nella battaglia per un nuovo ordine mondiale. La stessa
cosa vale per il PCC, in cui vi è un costante dibattito politico e teorico su
queste questioni.
In questa comune battaglia contro la globalizzazione
finanziaria i BRICS, e più in generale il Sud globale, hanno dalla loro parte
una formidabile arma: lo Stato. Sono tutti paesi in cui il ruolo dello Stato è
fondamentale per le scelte politiche ed economiche, per lo sviluppo e la
crescita del paese, per la sua sovranità e di conseguenza su dove posizionarsi
a livello internazionale.
Sul
concetto di libertà
In questo contesto occorre uscire dagli equivoci su alcuni
paesi, come la Turchia e l’Ungheria, nei confronti dei quali è in corso una
durissima campagna in Europa, anche da parte di importanti settori di sinistra.
È del tutto evidente che sono paesi con pesanti limiti politici che vanno
denunciati e non devono perciò essere rimossi. Ma la criticità di questi paesi
non è di certo minore di quella dell’UE e dei suoi paesi fondatori, come il
nostro o la Germania o la Francia. È opportuno un confronto su che cosa s’intende
per concetto di libertà evitando il mito dell’assolutezza e della verità data
una volta per tutte.
Non vi è
un concetto di libertà che possa considerarsi un valore umano universale in
ogni luogo e in ogni tempo, che sia interpretato oggi come ieri e come lo sarà
domani. E non è sufficiente sostenere che maggiore libertà comporti regimi
politici più civili. Si dovrebbe valutare quale dovrebbe essere il grado di
libertà concesso e il parametro di riferimento. Il concetto di libertà deve
essere quindi contestualizzato storicamente. Per esempio, la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo, uno degli atti fondamentali nella storia dei sistemi
liberali, non abrogava la schiavitù. Si deve giungere dunque alla conclusione
che gli Stati Uniti erano un sistema illiberale e autoritario?
Il concetto di libertà va storicizzato anche per il
presente. Moltissimi in Occidente sono convinti che le nostre istituzioni e
regole, i nostri costumi e tradizioni, siano il meglio possibile in assoluto,
che rappresentino il grado più alto di libertà. Ma per valutare il grado di
libertà di un individuo è necessaria un’analisi «dello stato di cose esistente»
e solo attraverso quest’analisi si possono interpretare le differenti
iniziative che un individuo può intraprendere per affermare una volontà basata
su diverse scelte, poiché queste sue scelte sono dentro a un quadro delle
libertà date in quel preciso contesto storico. Pertanto, la situazione odierna,
pur profondamente diversa da quelle in cui operavano politici e filosofi del
passato, è determinata dalla connessione che questi diedero ai problemi che si
presentavano nella loro epoca.
La libertà attuale è perciò l’insieme delle azioni e delle
linee di condotta realizzate nel passato e trasmesse al presente, e ciascuna di
queste azioni e linee di condotta è dentro l’attuale «stato di cose esistente».
Ma questo quadro odierno non è fissato una volta per tutte, come non lo erano i
quadri di riferimento che si sono succeduti nel passato. C’è chi tenta di
superarlo, dunque è rivoluzionario o riformista, mentre c’è chi tenta di
difendere lo status quo o di tornare al passato ed è così un conservatore o un
regressivo. Ma tutto dipende dagli obiettivi sociali (quindi dalle libertà
sostanziali) che ci si prefigge. Ma il pensiero liberale nega sdegnato questa
processualità in sviluppo. Si appella ai principi, anche se poi in molte
circostanze, per ragioni di opportunità, ha giustificato regimi come quelli
fascisti che soppressero la libertà data, in quanto il “pericolo totalitario o
autoritario” del socialismo è per il pensiero liberale decisamente maggiore
rispetto al pericolo fascista. In nome di questo ragionamento ha favorito e
sostenuto regimi fascisti o dispotici contro la minaccia del “pericolo rosso”.
E oggi in qualche modo la storia si ripete in Ucraina.
Non è vero che l’uomo nasce libero. È vero piuttosto che
poiché l’uomo aspira alla libertà, diventa libero con la lotta che conduce in
base appunto al suo concetto di libertà. E nel conflitto valuta se la sua
iniziativa è compatibile con «lo stato di cose esistente» o se deve andare
oltre all’esistente, in quanto sono oggettivamente maturate contraddizioni che
lo spingono a farlo. Quando si manifesta questa consapevolezza, che nel
frattempo è divenuta consapevolezza collettiva, si determina una spinta rivoluzionaria
per affermare un nuovo concetto di libertà. La lotta per la libertà, o meglio
di un diverso modo di intenderla, è un dato oggettivo prodotto dal processo
storico. Quindi sono del tutto infondate le tesi che riducono la libertà
individuale a un procedimento esclusivamente soggettivo o quelle che
addirittura ritengono che sia innata nell’uomo dal momento della sua nascita.
Allora non ha senso fare della libertà un mito, se tale concetto non è situato
in un contesto storico dove sono stati stabiliti comportamenti, regole e doveri
morali, da sostenere o da contrastare.
Non si ha perciò nessuna certezza che il futuro
dell’umanità sia circoscritto al binomio libertà-democrazia. Non è possibile
porre in relazione i due termini, cioè la libertà, che per affermarsi ha
bisogno dell’azione e della lotta, cioè di un costante sviluppo storico, e la
democrazia, ideologia manifestatasi come aggiustamento del pensiero liberale, che
domina in Occidente dalla metà del Novecento. Si utilizza la locuzione
ideologia in quanto la democrazia, a differenza della libertà,è una ideologia
enunciata ma mai realizzata e addirittura concettualmente trapassata oggi nella
forma a-democratica con la quale si nega il conflitto di classe. Dunque, la
relazione dialettica tra i due termini, libertà e democrazia, è insostenibile,
in quanto è un rapporto tra due eterogeneità profondamente diverse, la prima
storica la seconda ideologica. Si discute di democrazia come se fosse un’entità
storica in sviluppo rispetto alla sua messa in discussione oggi da parte del
pensiero neoliberale. E non si tiene conto che il pensiero neoliberale mette in
discissione una ideologia mai realizzata se non in diversi aspetti formali, ma
senza mai dichiaralo apertamente.
Il confronto tra Occidente e il resto del mondo, sia con la
Cina che con gli altri paesi a orientamento socialista, sia con i paesi che
presentano forme di capitalismo monopolistico di Stato sia con i paesi di nuova
industrializzazione o che vogliono emanciparsi dal giogo dell’imperialismo, non
è solo di carattere geopolitico, come molti commentatori e analisti tendono ad
affermare, ma investe il futuro del pianeta. Però si vuole mettere in relazione
dialettica il concetto di libertà con la democrazia così come si è determinata
nella forma estremamente limitata e imperfetta e radicalmente distante dal
principio enunciato, tale da non corrispondere ai bisogni di libertà civili e
sociali. Per dirla in altri termini il lavoro, la casa, l’istruzione,
l’assistenza sanitaria e godere del tempo libero non sono diritti garantiti dalla
ideologia della democrazia, e ancor meno oggi che è trapassata in concreto in regime
a-democratico.
La libertà si rileva in tutta la sua intrinseca potenza
nella lotta per superare gli impedimenti posti dall’ideologia della democrazia
che sbarra la strada al pieno sviluppo di una società più giusta. La lotta per
la libertà, perciò, trova piena espressione nel rimuovere tali impedimenti, ma
questa aspirazione non va assolutizzata o confusa con l’idea di libertà che si
aveva in altri periodi storici. La libertà è lotta per superare gli ostacoli
che si frappongono al pieno sviluppo delle iniziative sorte a partire dalla
situazione concreta. La libertà non è un’astratta petizione di principio. Non è
un disquisire filosofico su una nozione piuttosto che su un’altra che sollecita
le anime belle a svolgere dibattiti appassionati e coinvolgenti. La libertà per
la quale un marxista deve battersi è la realizzazione di un diverso sistema
sociale nel quale sia garantita la fine della sottomissione della sfera della
libertà a quella della necessità.
È stato Hegel che ha colto in positivo il rapporto tra
libertà e necessità rispetto alla filosofia precedente che per poter definire
la libertà doveva definire ciò che non fosse libero. Il legame tra libertà e
non libertà era quindi sempre visto in senso negativo. Si opponeva la libertà
alla necessità e si ricercavano le condizioni attraverso le quali la prima
potesse emanciparsi dalla seconda. Evidenzia Engels nell’“Anti-Dühring”: «Hegel
fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità.
Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. Cieca è la necessità
solo nella misura in cui non viene compresa (…) La libertà non consiste nel
sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste
leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza di farle agire secondo un
piano per un fine determinato (…). Libertà del volere non significa altro,
perciò, che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi
quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato
punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il
contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di
conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie,
sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua
mancanza di libertà, il suo essere dominato da quell’oggetto che precisamente
essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e
della natura esterna fondata sulla conoscenza delle necessità naturali; essa,
perciò, è necessariamente un prodotto dello sviluppo storico». Per il marxismo,
dunque, la libertà è basata sul principio dell’autodeterminazione, non è innata
e attribuita individualmente all’uomo, bensì alla totalità a cui l’uomo
appartiene, all’ordine sociale e storico vigente.
Paesi come Ungheria, Turchia e Pakistan sono considerati illiberali
poiché non praticano la “nostra democrazia”. In realtà sono paesi in bilico,
tra lo schierarsi nel campo di un nuovo ordine mondiale e la possibilità di
essere totalmente riassorbiti nel campo dominato dal capitale finanziario,
dagli USA e dalla visione unipolare che difendono strenuamente. Una forza
politica rivoluzionaria, pur denunciando i limiti di libertà di questi paesi –
cosa che certa sinistra non fa col mondo occidentale – deve invece sostenerli
nella difesa della loro sovranità e nella ricerca di una collocazione
internazionale autonoma dall’Occidente collettivo. Per realizzare una visione
multipolare sarà necessaria una fase lunga in cui alcune nazioni importanti resteranno
in bilico. Sarebbe semplicistico ridurre il problema a questione tattica e a
una estenuante discussione sul considerarli o no “alleati” delle forze
politiche e dei paesi impegnati in questa battaglia epocale. I processi storici
si valutano in altro modo, nel cogliere gli aspetti fondamentali della politica
che le forze in campo in ogni paese perseguono.
In
Occidente un regime a-democratico
Il dominio del capitale finanziario ha costruito in
Occidente un regime a-democratico, mettendo in discussione anche il pensiero
liberale. Abbiamo impotenti assistito alla mutazione della democrazia formale
in una forma appunto a-democratica.
Con il dominio del capitale finanziario, infatti, la
democrazia formale è andata modificandosi adottando strutture ed enti
sovranazionali a-democratici non vincolati da nessuna forma di sovranità
popolare, neppure formale. Di questo aspetto l’Europa è uno degli esempi più
lampanti attraverso il ridimensionamento del ruolo legislativo dei parlamenti
nazionali e l’elezione di un Parlamento europeo che non conta assolutamente
nulla. Le decisioni più importanti sono prese da istituzioni, come la BCE, che
non rispondono a nessun potere politico elettivo. Il potere è nelle mani di
ristrette oligarchie finanziarie che decidono per milioni e milioni di
cittadini europei e che hanno plasmato gli Stati nazionali e le istituzioni
europee a tutela dei loro interessi, salvaguardando in primo luogo proprio il
mercato finanziario.
Indubbiamente le società socialiste presentano dei limiti
rispetto allo sviluppo pieno della democrazia formale. Ma in Occidente avviene
lo stesso processo in modo peggiore, in quanto non sono garantiti quei diritti
sociali che nei paesi a orientamento socialista sono invece tutelati
pienamente. Questo processo a-democratico della società occidentale presenta
dei tratti di totalitarismo o di semi-totalitarismo. Occorre però non
commettere lo stesso errore di Hannah Arendt nel suo giudizio sul socialismo.
Allora è meglio adottare la definizione di regimi a-democratici. Il
totalitarismo è una politica di forte restringimento degli spazi di libertà che
già si era affermata e diffusa in Europa molto prima dell’avvento del dominio
del capitale finanziario, tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della Prima
guerra mondiale. Oggi, con la guerra in Ucraina, sta riaffiorando in termini
drammatici.
L’ideologia
della democrazia
Proporre la democrazia come ideologia sottintende che una
società democratica, così come astrattamente definita, non è mai esistita. È
impossibile, infatti, definire storicamente il concetto di democrazia. Non
funzionava neppure nell’antica polis ateniese e comunque era qualcosa di
profondamente diverso da come la si intende oggi. Il mito della democrazia
greca è un grande imbroglio retorico diffuso dal pensiero liberale per
dimostrare l’indubbia superiorità del sistema democratico su qualsiasi altra
forma di governo.
La storia dell’Occidente “democratico” è caratterizzata da
un lato dall’affermazione, graduale o per salti, della democrazia formale, cioè
dell’aggiustamento dei sistemi liberali, e dall’altro lato da rapporti di
schiavizzazione dei neri (ma anche degli asiatici), dalla loro deportazione
dall’Africa alle Americhe e dallo sterminio di massa degli indios, degli
indiani e degli aborigeni australiani.
Il più grande genocidio della storia dell’umanità in epoca
moderna è stato quello degli indigeni americani, uno sterminio per alcuni versi
più grave delle infamie di Hitler. La storia dell’Occidente è quindi lastricata
di genocidi: “genocidi di razza”, “genocidi di classe, “genocidi di popolazioni
inermi”. Ora il genocidio di palestinesi a Gaza. I genocidi di razza in
particolare sono stati attuati attraverso guerre di conquista e legittimati da
teorie che sostenevano la superiorità di sangue della “razza” conquistatrice e
quindi la necessità di proteggerne la purezza da incroci con popoli considerati
inferiori. Ma anche in materia di leggi sociali non si scherzava. Negli USA,
tra il 1907 e il 1915, sulla base della dottrina dell’“eugenetica”, ben tredici
Stati emanarono leggi per la sterilizzazione di delinquenti abituali,
violentatori, vagabondi e disabili mentali al fine di impedire la riproduzione
di individui inclini al delitto e al parassitismo.
Prima dell’avvento del dominio del capitale finanziario la
democrazia contemporanea si basava in Occidente teoricamente sul principio per
cui ogni uomo è titolare di diritti inalienabili; dunque, poneva
concettualmente il problema del superamento di tre grandi discriminazioni:
razziale, censitaria e sessuale. L’aspirazione a superare queste tre
discriminazioni fa parte ormai del patrimonio etico dell’intera umanità poiché
vi sono state due rivoluzioni, quella francese e quella russa del 1917, che
hanno radicalmente mutato il corso della storia ponendo con forza il problema.
Ma in questi
ultimi quarant’anni, dopo il 1989, le discriminazioni non sono state superate,
anzi sono aumentate. Si è allargato il divario tra democrazia formale e
democrazia sostanziale. Infine, è evidente che la crisi della democrazia
formale sia dovuta alle contraddizioni del capitale. Sono constatazioni che scaturiscono
da una lettura oggettiva della storia che dovrebbero portare a delle precise
conclusioni. Ma non è così per i fautori del pensiero unico, i quali hanno il
recondito desiderio di imporre una indefinita agiografia per assicurare il
trionfo del revisionismo storico.
Il Novecento in Occidente è stato caratterizzato, dopo la
parentesi tragica della Seconda guerra mondiale, dall’acquisizione in linea di
principio dei diritti economici come parte integrante dei diritti individuali:
lo Stato sociale e il suffragio universale. Ma l’affermazione di questi
principi la si deve al movimento comunista. Con il crollo dell’URSS e l’avvento
del capitale finanziario si è decisamente tornati indietro anche sul terreno
della democrazia formale, ridotta oggi a un simulacro! Il neoliberalismo ha via
via depennato dalla vita politica e civile l’insieme dei diritti inalienabili
dell’uomo sanciti dai processi rivoluzionari. Ha trasformato la democrazia
formale in un regime a-democratico. Si fa un gran rumore, un bel parlare sul
fatto che il comunismo è morto, ma lo spettro dei suoi ideali si aggira su
tutto l’Occidente, preoccupato dall’influenza che la Rivoluzione d’Ottobre
ancora esercita tra le popolazioni e che si ripropone in forme nuove, basta
saperle marxisticamente interpretare.
È bene chiarire che il comunismo è una ideologia, tra
l’altro mai realizzata, ma anche la democrazia è una ideologia mai realizzata.
Non vi è un solo esempio di paese dove è stata attuata la democrazia
sostanziale. Non vi è un caso in cui tale forma è stata realmente un regime di
governo di una comunità. Se la democrazia è prima di tutto uguaglianza tra gli
uomini sotto ogni aspetto, con diritti civili, politici e sociali uguali per
tutti, allora la democrazia in Occidente non ha fatto molta strada. In questo
senso le società a orientamento socialista sono decisamente più avanti,
nonostante i limiti che ancora le contraddistinguono. Se mai comunismo e
democrazia dovessero essere realizzati sarebbero la stessa cosa!
Il PCI di Togliatti, nell’elaborare la strategia di
avanzata al socialismo, pose come questione imprescindibile il nesso tra
democrazia e socialismo attraverso il concetto di democrazia progressiva. Non a
caso l’accento era posto sulla parola “progressiva” in quanto il PCI era
consapevole che per ottenere la democrazia sostanziale non era sufficiente
adottare una Costituzione avanzata (anche se la sua approvazione fu giustamente
considerata una grande vittoria), ma partendo appunto dai principi contenuti
nella Carta occorreva svolgere un’azione politica costante affinché il Paese
reale non rimanesse indietro rispetto appunto ai principi sanciti dalla
Costituzione. Nel corso degli anni molto si è discusso sul colmare il divario
tra il Paese reale e i dettati della Costituzione, ma oggi questo divario è
drammaticamente aumentato. Un regime democratico non si valuta solo dalla legge
costituzionale che si è dato, ma soprattutto dalla fedeltà della politica ai
principi in essa contenuti e alla loro applicazione. Si potrebbe polemicamente
pertanto affermare, proprio perché la nostra Costituzione è stata disattesa e
violata costantemente e per diversi aspetti tradita, che il nostro regime è
semi-autoritario (o semi-totalitario). E questa caratteristica oggi con la
guerra è ancora più accentuata.
La
questione sociale
Anche sul piano sociale si è tornati indietro. Siamo al
paradosso di chi sostiene che la democrazia è una variabile, cioè non è lo
stato naturale della società, mentre il mercato lo è! La destrutturazione dello
Stato sociale in Occidente parte proprio dall’assunzione del mercato come
misura dei valori delle società avanzate, dunque secondo questa logica mutua i
propri terreni della conflittualità all’interno delle regole ferree della
compatibilità delle leggi economiche. L’epoca delle politiche keynesiane è
finita. Lo Stato del compromesso sociale è morto e con esso sono venute meno le
politiche di intermediazione tra società, Stato e poteri economici e
finanziari. Scompaiono dallo scenario politico le strategie sulla
ridistribuzione del reddito, tutt’al più sono trasformate o ridotte alla
strenua difesa di una politica di restituzione di ugual ricchezza (se non di
più), tolta precedentemente dal fisco, a chi ha già molto.
In Europa la “sinistra liberale” crede che sia sufficiente
difendere il pluralismo politico o valorizzare le esperienze di lotta di
soggetti e movimenti (definiti nuove forme di antagonismo) per contrastare
questo stato vigente. Ma questi soggetti e movimenti contribuiscono alla lotta
per la trasformazione della società se la loro valorizzazione è contestualmente
accompagnata (se non addirittura preceduta) da azioni di ricomposizione e
unificazione dei bisogni di classe. Senza queste azioni altro non sono che
moltitudine in grado di auto-identificarsi solo esclusivamente come momento di
una pluralità, cioè come opzione politica soggettiva nell’ambito della
democrazia dell’alternanza.
Nel Dna della sinistra europea oggi è rimasto solo
l’involucro vuoto del concetto di democrazia formale, tra l’altro trapassata in
un sistema a-democratico. Da ciò deriva la sua subalternità al pensiero
liberale, ancora più drammaticamente evidente quando sceglie di sostenere la
strada delle dottrine economiche neoliberiste imposte con lacrime e sangue alle
popolazioni. Non vi sono né le capacità né la volontà di recuperare un pensiero
forte capace di condurre la lottaper una più equa giustizia sociale. Anzi, le
diseguaglianze sociali sono notevolmente cresciute. L’élite politica e
burocratica europea, espressione delle oligarchie finanziarie, è insensibile al
tema, semplicemente non se lo pone. Nell’involucro vuoto regna sovrana solo
l’ideologia della democrazia funzionale al dominio del capitale finanziario.
L’ideologia
della democrazia espressione del dominio del capitale finanziario
Con l’affermarsi del dominio del capitale finanziario in
tutto l’Occidente è andato avanti anche un processo di laicizzazione sia dello
Stato sia della società. Ciò che caratterizza la società occidentale
contemporanea è il sorgere di una pluralità di morali, non vi è più una morale
prevalente. La conseguenza è che l’etica dominante non è facilmente
riconoscibile e lascia formalmente il posto, ma assolutamente non cessa la sua
funzione, a un insieme di morali tra loro spesso in contraddizione. Quindi
questa pluralità contraddittoria di morali offusca l’etica dominante. Ma se si
guarda con attenzione questo insieme confuso di morali ci si accorge che la
chiave di lettura del processo è nella ideologia della democrazia che le
incatena: questa è l’etica dominante. Il capitale finanziario ha infatti
bisogno di non apparire come il vero controllore della società e dunque
fornisce spazi illusori di libertà con la moltiplicazione di morali che
comunque sono costrette a esprimersi dentro un sistema a-democratico
istituzionale e politico realizzato dalla ideologia della democrazia, con la
quale il capitale ha costruito le sue fortune. E all’interno di questo sistema
conduce guerre e commette crimini in nome proprio della democrazia, della sua
etica, come una volta lo si faceva in nome di Dio.
Nel processo di transizione teso al superamento del
capitalismo l’etica non è l’aspetto sovrastrutturale di tutela delle tradizioni
storiche date, ma diviene, con le lotte, fattore che favorisce negli individui
la coniugazione tra il potente momento intellettuale e la politica per
combattere le forze schierate in difesa «dello stato di cose presente». Dunque
da qui occorre ripartire per affrontare oggi la questione dell’etica in una
visione marxiana, tenendo però conto dei problemi inediti, politici e teorici,
posti dalla moderna società, primo fra tutti quello del sorgere di una
pluralità di morali, a differenza delle società a capitalismo maturo
dell’inizio del Novecento, plasmate prevalentemente da due morali: la morale
cristiana e la morale liberale, a volte in conflitto fra loro, ma sempre
alleate contro l’etica socialista delle classi subalterne.
L’odierna pluralità di morali porta a smarrire l’etica come
fattore del conflitto sociale, poiché non favoriscono negli individui la
coniugazione tra momento intellettuale e momento politico per condurre la lotta
per il socialismo. La laicizzazione è un tratto potente della società
contemporanea. La crisi delle ideologie è legata anche al processo
dell’affermarsi della laicità. Per molti aspetti si può valutare positivamente
il ritorno a diverse morali, ma questo processo non è accompagnato dall’idea di
una valutazione di merito. Siamo oggi alla molteplicità delle morali senza
nessuno strumento valutativo, se non soggettivo, che consenta di definire quali
siano le cose giuste da fare. Questo è il capolavoro della democrazia
dell’ideologia, così è se vi piace!
Non si hanno più valori come riferimenti oggettivi per
definire la qualità di una società che è tale per alcuni ed è invece pessima
per altri, così anche il risultato dell’alternanza dei governi diventaoggetto
di una valutazione soggettiva: chi vince le elezioni (utilizzando meglio la
demagogia) ha sempre ragione. Il giudizio sul governo è del tutto soggettivo in
quanto tutti i governi, varianti di un regime a-democratico, sono, in ultima
istanza, espressione del capitale finanziario.
I filosofi greci distinguevano i diversi governi e ne
valutavano l’azione. Nell’Occidente “democratico” non vi è oggi una distinzione
assimilabile a quella di Socrate, Platone o Aristotele. I governi, nell’ambito
della ideologia della democrazia, sono tutti più o meno buoni e cattivi nello
stesso tempo. Si può e si deve discutere di alcune loro azioni politiche in
materia civile, economica e sociale, le si può sostenere o contrastare, ma
nella sostanza non si mette mai in discussione la presunta natura democratica
del governo. In questo contesto prende piede la concezione weberiana, specchio
filosofico di una pluralità di morali espressione della società dei consumi,
per cui il senso comune si perde in un mondo liquido composto dalla cosiddetta
moltitudine degli individui che rincorrono spazi illusori di libertà, senza
rendersi conto di fruire solo di quegli spazi che il capitale offre in nome
della democrazia. Anzi si contrappone la democrazia al comunismo miseramente
fallito in URSS. E non si va per il sottile, non si spiega che il comunismo è
una ideologia mai realizzata, cosa assai diversa dalle democrazie popolari, dal
socialismo realizzato, ecc. ecc. Queste definizioni utilizzate nel passato sono
rimosse e incluse nel grande calderone del comunismo.
Anche la democrazia è una ideologia mai realizzata, anzi la
forma di governo concretamente praticata in questa fase storica è un sistema
istituzionale e politico a-democratico. Questa forma favorisce, come si è
visto, una pluralità di morali, in conflitto tra loro, che spesso prescindono
dalla struttura economica della società. Ad esempio, la questione salariale,
generata dal conflitto capitale-lavoro, è ridotta a pura vertenza sindacale,
fino a giungere, a quello che potrebbe sembrare un paradosso ma non lo è, che
una parte importante dei tesserati della Cgil siano elettori del centrodestra.
Dunque, sono morali trasversali, liquide, raramente riconducibili alla lotta di
classe, alla lotta per il socialismo. Morali che sarebbe errato considerare
però di natura interclassista, in quanto sono del tutto soggettive, riflettono
gli effetti del processo di laicizzazione dello Stato e della società.
Si considerino le pratiche sessuali in rapporto al piacere
e all’amore. Molte sono le morali su questo tema e non possono essere
rigidamente catalogate in morali di destra o di sinistra. Come l’estensione di
alcuni diritti civili.Questi temi si prestano a diverse interpretazioni. Ma
diviene chiaramente un’azione politica regressiva quando la negazione dei
diritti risponde solo alla morale cristiana, intesa come morale universale
(integralismo), la sola da seguire in quanto dettata da Dio. Se anche la religione
cattolica accetta tale laicità la questione è bella e superata, non determina
conflitto sociale. Ognuno si comporta in base al suo credo e alla sua fede. E
si potrebbe continuare con il ruolo della famiglia o con i rapporti
omossessuali. La contraddizione caso mai sta nel fatto che il processo di
laicizzazione, quindi dell’affermazione piena di diritti civili in merito alla
sessualità e alla famiglia, è più sentito da consistenti settori sociali
borghesi rispetto alle fasce popolari, più tradizionaliste. È anche vero però
che la trasversalità favorisce quel senso comune di vivere in una società
formata da una moltitudine indistinta in cui il concetto di classe appare
notevolmente attenuato, sostituito per lo più dal concetto di popolo che
rivendica la sua sovranità in nome della democrazia in contrapposizione a un
potere di cui poco o nulla sa.
Stesso identico
ragionamento per la questione ambientale. Negarla sarebbe drammaticamente
sbagliato. Si deve affrontare in tutti i suoi aspetti con radicali misure
strutturali pianificate tramite un nuovo modello di sviluppo sotto il controllo
pubblico dello Stato e non disperdere la priorità ecologica in un dibattito
fatto di mille rivoli, spesso ideologici e a volte pure ridicoli, funzionali
agli interessi del capitale finanziario. Anche sulla questione ambientale
ognuno ha il suo credo, la sua fede, la sua morale, il suo punto di vista
soggettivo ed è libero di esprimerlo come meglio crede. Così si crea il consenso
dell’opinione pubblica per realizzare ingenti operazioni finanziarie speculative
ai danni delle popolazioni con programmi di riconversione ecologica, che però neanche
sono green economy ma solo green washing. Proprio sulla questione ambientale si
può cogliere la portata della funzione della ideologia dominante, che reprime
solo lo stupido negazionismo (anche questo, tra l’altro, è un credo) e non la
morale che ognuno si è formato nell’essere un individuo della moltitudine.
Quando si afferma che il capitale finanziario ha bisogno di
non apparire come il vero controllore della società s’intende evidenziare
proprio questo fenomeno, cioè la sua capacità di rendere subalterne le diverse
morali, in conflitto tra loro, tramite l’ideologia della democrazia – che è e
resta l’etica dominante – senza che vengano esercitate costrizioni
particolarmente repressive, e nel contempo riuscire a dare a ogni morale,
riconosciuta come tale, la sensazione di aver conquistato spazi di libertà. E
il fenomeno diventa ancora più sofisticato e articolato in quanto siamo in una
società multietnica, con la presenza di altre religioni e tradizioni che
alimentano il bacino delle diverse morali, anche se queste diversità aprono
faglie vistose nell’etica dell’ideologia della democrazia,
È evidente che
in tale scenario quello che una volta era il fiume impetuoso dell’etica
marxista si è ridotto in Europa a un rivolo a malapena mantenuto vivo, non
ancora completamente prosciugato grazie alla volontà di una minoranza di
militanti che testardamente ripropongono un’etica rivoluzionaria in alternativa
al regime a-democratico. Allora il capitale nella sua mutazione in capitale
finanziario ha vinto? Questo è il solo mondo possibile? Hanno ragione i
liberali di ogni ordine e specie? Intanto ci sarebbe molto da discutere su
quello che dal punto di vista geopolitico sta avvenendo. Ma la realtà globale è
ben più complessa e articolata, vi trova grande spazio un altro mondo molto più
grande che frettolosamente viene liquidato con l’etichetta di non democratico,
illiberale, autoritario, e persino totalitario. Così il mondo si riduce
all’Occidente che diviene il tutto.
L’ideologia della democrazia è il punto di forza del
capitale finanziario, Crea consenso. Ma è anche la sua debolezza in quanto ne
determina, per laceranti contraddizioni di impoverimento di tutti gli aspetti,
non solo il declino economico, ma anche politico e culturale, persino
religioso.
Con la
guerra in Ucraina non siamo alla riproposizione della “guerra fredda”
La guerra tra Russia e Ucraina viene spesso presentata come
un ritorno alla “guerra fredda”. Il paragone però è fuorviante, non regge. Nella
“guerra fredda” vi erano due sistemi, politici, economici e sociali ben
definiti: da una parte il capitalismo, dall’altra parte il socialismo
realizzato. Tutta la diplomazia e le relazioni internazionali ruotavano attorno
a questa realtà, anche i numerosi paesi cosiddetti non allineati, come la
Jugoslavia, l’India e la stessa Cina, si muovevano dentro questo contesto. E
pure le strategie militari, compresa la corsa al riarmo delle due superpotenze,
USA e URSS, non prescindevano dai rapporti di forza usciti dalla Seconda guerra
mondiale. Tant’è che, nonostante la contrapposizione tra blocchi, vi erano
spazi, per una serie di paesi, anche europei, per poter condurre iniziative
diplomatiche in parte autonome, che comportavano anche scambi commerciali e
relazioni economiche.
Si pensi all’azione delle socialdemocrazie, in primis di
quelle tedesche e scandinave, o ai rapporti economici fruttuosi che i governi
italiani di centro-sinistra stabilivano con l’Unione Sovietica e gli altri
paesi socialisti. Nessuno statista occidentale, in quegli anni, fece mai
dichiarazioni bellicose nei confronti dell’URSS o tentò di praticare una linea
volta a smembrarla. Unica eccezione fu Churchill, che subito dopo il 1945,
sconfitta la Germania nazista, si avventurò in dichiarazioni forti di
aggressione militare all’URSS di Stalin, che non aveva ancora la bomba atomica,
ma rimase una voce isolata e non fu ascoltato, per fortuna, dagli statunitensi.
Tutti gli Stati di entrambi i blocchi si muovevano all’interno di quanto
stabilito dagli accordi di Yalta che sancivano la presenza di due sfere di
influenza, quella degli USA e quella dell’URSS.
Senza infrangere
gli accordi di Yalta le due superpotenze si garantivano dei margini di
interpretazione autonoma di quanto stabilito. Da parte sovietica si avanzava la
strategia della “coesistenza pacifica”, realizzando la quale si sarebbero
aperti molti spazi per le forze progressiste in Occidente, per nuovi processi di
decolonizzazione del Terzo Mondo e per le lotte di liberazione nazionali. Tra
l’altro la guerra coreana era stata una lezione per tutti: su quella strada si
rischiava di giungere a un nuovo e più drammatico conflitto mondiale, con
conseguenze catastrofiche per l’intera umanità. Da parte USA invece si
praticava la politica di contenimento dell’influenza sovietica, facendo ricorso
alle armi e anche ai golpe militari, se necessario, in quei paesi che
formalmente non erano militarmente loro alleati ma erano parte integrante del
sistema economico imperialistico. Mai dalla Casa Bianca però fu attuata una
politica di aggressione militare diretta e frontale al Patto di Varsavia. La
crisi di Cuba fu risolta dopo che Kennedy decise di ritirare i missili con
testate nucleari dalla Turchia e di conseguenza Krusciov rinunciò a installare
armi dello stesso tipo a Cuba.
Questo atteggiamento simile delle due superpotenze apriva
enormi spazi politici, non solo alle forze progressiste e di sinistra in
Occidente e ai movimenti di liberazione, ma pure al movimento pacifista, che si
affermò con l’enorme contributo anche dei cattolici, e negli USA della sinistra
liberal, che fece suoi gli orientamenti emergenti dalle nuove generazioni,
molto coinvolte da fermenti culturali e di costume che caratterizzarono quegli
anni. Si pensi a proposito all’influenza della musica rock, della poesia e
della letteratura della Beat Generation. Dunque, la “guerra fredda” era una
situazione derivata da Yalta ma non determinava il congelamento dei processi
mondiali. Dentro al contesto della “guerra fredda” vi erano ampie brecce che
consentivano ai movimenti di massa di pesare e di condizionare la politica e
persino la geopolitica. La lezione del Vietnam è stata anche tutto questo.
Gli scenari attuali poco o nulla hanno a che fare con la
“guerra fredda”. Le ragioni che hanno spinto Putin all’operazione militare
speciale sono: l’estensione della Nato fino ai confini della Russia;
l’aggressione al Donbass e alle regioni di lingua russa da parte di Kiev, con
bombardamenti che in otto anni di guerra hanno provocato 14.000 morti, molti
dei quali civili, tra cui donne e bambini; il boicottaggio sistematico
dell’Ucraina degli accordi di Minsk; l’integrazione delle milizie naziste e
degli ultra nazionalisti nell’esercito regolare ucraino dopo il colpo di Stato,
voluto, sostenuto, finanziato e guidato dagli USA, che già erano presenti
attivamente da anni nell’ex Repubblica Sovietica attraverso la NATO, la CIA e
una serie di laboratori segreti per produrre armi biologiche di sterminio di
massa; la persecuzione della etnia russa con vessazioni e metodi razzisti; la
messa al bando di ben 11 partiti e dei mezzi di informazione dell’opposizione,
con arresti e uccisioni di politici, sindacalisti e giornalisti; la persecuzione
della Chiesa ortodossa che ha nel Patriarca di Mosca il suo punto di
riferimento. Sulla base di queste motivazioni si è innescato l’intervento
militare russo, che tra l’altro ha anticipato quello del governo ucraino, che
stava già ammassando un grosso esercito ai confini delle due Repubbliche ribelli
del Donbass. Per questo il conflitto in Ucraina ha anche la caratteristica di
guerra civile.
Perché
si è giunti all’operazione militare speciale russa in Ucraina
La ragione principale però che ha spinto Mosca a mettere in
atto l’operazione militare speciale, pur non sottovalutando l’insieme delle
ragioni citate precedentemente, è squisitamente politica, o se si vuole
geopolitica e di sicurezza nazionale. Gli USA, dopo la fine dell’Unione
Sovietica e il dissolvimento del campo socialista in Europa, hanno radicalmente
modificato il loro atteggiamento sulla questione russa. Da una politica di
contenimento dell’influenza mondiale dell’URSS sono passati a una politica di
vera e propria aggressione alla Russia, nutrendo la speranza che fosse
possibile non solo disarticolare l’ex Unione Sovietica, ma la stessa Russia,
che ha un immenso territorio di 17.100.000 km² con la Siberia dove si trovano
circa il 50 per cento delle risorse strategiche del pianeta. Questo cambio di
linea è stato provocato da due novità che si sono determinate alla fine del
secolo scorso.
La prima
riguarda lo scioglimento dell’URSS, dopo il quale l’Occidente credeva, o si
illudeva, che si sarebbe andati verso la costruzione di un mondo unipolare,
dominato dagli USA. Finalmente le diverse centrali imperialistiche avrebbero
avuto mano libera per saccheggiare e depredare ancora di più tutti i paesi che
prima, in qualche modo, erano stati tutelati dall’URSS e ciò avrebbe permesso
agli USA e ai loro alleati di presentarsi al Sud del mondo come quelli che
dettavano ancor di più le regole. Il costante allargamento della NATO a ridosso
dei confini con la Russia ha anche questo obiettivo.
Questa convinzione è all’origine di una serie di guerre, a
iniziare dallo smembramento della Jugoslavia, paese leader dei non allineati,
senza che la NATO si ponesse troppi problemi nel bombardare la Serbia. E in
seguito le guerre contro l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, lo Yemen, la Somalia,
tanto per citare le più importanti. Ciò era reso possibile da una Russia troppo
debole per svolgere un ruolo di contrappeso, e tra l’altro molto impegnata in
guerre alle porte di casa, in Georgia e in Cecenia, e dalla Cina che non era
ancora quella grande potenza economica che è oggi. Sul piano politico si
pensava di perpetuare l’unipolarismo attraverso le “rivoluzioni colorate” e i
colpi di mano per costituire, con il pretesto di portare libertà e democrazia,
governi fantoccio legati all’Occidente, in particolare agli USA o ad alcune
potenze europee.
La seconda novità fa riferimento al passaggio dal
capitalismo al dominio incontrastato del capitale finanziario, che proprio in
quegli anni in Occidente, maturava in tutta la sua enorme portata. Ed è ovvio
che un sistema geopolitico unipolare, basato sulla potenza militare
statunitense, fosse funzionale alle attività speculative e di
finanziarizzazione dell’economia da parte delle oligarchie finanziarie.
Spesso però “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”.
La fase unipolare è stata breve, non ha retto ai processi in atto.
In primo luogo, si è sottovalutato l’imponente sviluppo
economico della Cina e la sua capacità di passare da una produzione di quantità
a una produzione di qualità affermandosi come primo paese nella produzione tecnologica.
In secondo luogo, l’Occidente ha colto solo tardivamente i
processi politici che hanno portato la Russia da Eltsin a Putin, con un
conseguente risveglio politico, economico, culturale e militare della nazione.
Inoltre,il capitale finanziario ha portato a un forte
ridimensionamento del ruolo dello Stato come soggetto principale nel
pianificare gli interventi per lo sviluppo produttivo, per grandi opere
infrastrutturali, per estendere, migliorare e qualificare il welfare, per
attuare politiche monetarie. Dove il capitale finanziario esercita
incontrastato il suo dominio, cioè in buona parte dell’Occidente, il tema della
programmazione è totalmente rimosso e al suo posto sono subentrate le
privatizzazioni selvagge a favore di ristrette élite finanziarie. L’azione dei
governi è ridotta a gestire un po’ di spesa corrente e a favorire
l’introduzione di nuove e sempre più pesanti privatizzazioni (soprattutto oggi dei
beni comuni) e l’esternazione dei servizi. Ma soprattutto ha smantellato il suo
sistema produttivo, a iniziare dall’industria pesante decisiva nella
costruzione di armamenti convenzionali. La guerra in Ucraina conferma
drammaticamente questo aspetto. I paesi della NATO sono molto lontani dai ritmi
di produzione dell’industria bellica russa per non parlare della capacità della
Cina.
Il mondo, infine,
non è tutto dominato dal capitale finanziario. Ci sono tanti paesi del Sud
globale nei quali lo Stato esercita e svolge le sue funzioni, soprattutto
stabilendo modalità e obiettivi degli indirizzi economici. Il Sud è un insieme
complesso di paesi con diverse espressioni politiche e diversi sistemi
economici e sociali. Vi sono paesi socialisti o a orientamento socialista,
paesi in via di sviluppo ma ricchi di materie prime, paesi con forme di
capitalismo monopolistico di Stato, sia pur molto diversificate. Sono questi
gli Stati dove vengono attuate forme di pianificazione e politiche più o meno
di natura neokeynesiana per migliorare le condizioni materiali di vita e tutelare
la sovranità nazionale. Ma mentre vanno avanti questi processi, in Occidente si
deve constatare la morte del riformismo: a tal proposito basta riflettere su
cosa sono diventati i paesi scandinavi, un tempo additati come esempio più
significativo del modello riformista.
Gli Stati del Sud del mondo rappresentano oltre i due terzi
della popolazione mondiale e sempre meno vogliono stare alle regole dettate da
una visione unipolare e prepotente dei rapporti internazionali, una visione che
è tutt’uno con gli interessi e le attività del capitale finanziario e dei
principali poli imperialisti mondiali. Questi Paesi sono contrari alla
globalizzazione finanziaria. E proprio sulla questione di un ruolo forte dello
Stato per affrontare e risolvere i grandi problemi dell’umanità che in questi
anni si è determinata una frattura che ha creato due veri e propri campi
distinti. Accordi internazionali, come il BRICS, per citare il più importante,
vanno appunto nella direzione di rafforzare quella idea di globalizzazione e di
circolazione di denaro-merci-forza lavoro sulla base del reciproco interesse
respingendo la concezione di una globalizzazione finanziaria, speculativa e di
rapina. Non c’è allora da stupirsi se sono già una trentina, i paesi che hanno
chiesto di voler entrare a far parte dei BRICS oltre gli ultimi nuovi ingressi.
A tutto ciò si aggiunge il consolidamento dell’asse
strategico tra Russia e Cina che si rafforza proprio nella lotta per contenere
l’azione devastatrice del capitale finanziario e la sua visione unipolare.
L’intesa tra queste due grandi potenze trascina tutto il Sud globale e gli
conferisce il coraggio necessario per alzare la testa, per essere
coprotagonista di un mondo che cambia, che va nella direzione di una pratica
multipolare nei rapporti internazionali, per contrastare e contenere l’azione
distruttiva del capitale finanziario. Un Sud del mondo che forse per la prima
volta nella sua storia è consapevole di poter riscattare oltre cinque secoli di
colonialismo e di imperialismo imposto dagli europei, dai nord americani e dal
Giappone.
Per questa
ragione è la situazione internazionale che spinge e obbliga gli Stati a stare
in un campo o nell’altro. Non sono i due campi della “guerra fredda” dove era
possibile il formarsi di un ampio schieramento di paesi non allineati. Nella
situazione di oggi gli spazi per tale politica non ci sono. Non è possibile più
muoversi tra le righe della politica di contenimento dell’URSS da parte USA e
la strategia della “coesistenza pacifica” praticata dai sovietici. La
situazione attuale è di forte movimento e la partita cruenta che si sta
giocando è come ridisegnare un ordine mondiale. E in questa partita, sia pur
con diverse sfumature e distinzioni, si sta o da una parte o dall’altra.
A questo nuovo tornante della storia non si è arrivati
all’improvviso, ma le premesse sono maturate negli ultimi vent’anni attraverso
una serie di eventi che presi singolarmente forse non hanno un forte impatto,
ma analizzati nel loro complesso mostrano come il cambiamento affondi le sue
radici indietro nel tempo.
A partire dagli
esiti della cosiddetta Primavera araba, in particolare in Egitto e in Algeria
con la nascita di governi, che dopo un iniziale sbandamento, si sono sempre più
allontanati dall’Occidente e in forme diverse sono diventati alleati della
Russia.
Per continuare con il fallimento del tentativo di
destabilizzazione della Siria concluso con la riammissione della Lega Araba,
con vivo disappunto degli USA. Nell’intervento militare russo a sostegno di
Damasco si evidenzia concretamente l’inizio della sua controffensiva. Senza
sottovalutare il ruolo predominante che hanno acquisito in questi anni in Medio
Oriente potenze regionali come l’Iran e la Turchia, e in Asia l’India,
l’Indonesia e il Pakistan.
Merita un’analisi anche la situazione del tutto nuova che
si è determinata in alcuni paesi strategici dell’America Latina. E adesso
nell’Africa equatoriale.
Al quadro delineato si aggiunge il tentativo miseramente
fallito di “rivoluzione colorata” in Bielorussia.
Infine, non va
dimenticata la crisi profonda del sistema politico, sociale e culturale
statunitense che ha favorito l’affermarsi di una “anomalia” come Trump, con una
lotta di classe dall’alto tra le grandi oligarchie finanziarie e il sistema
produttivo statunitense.
Ai fatti citati si devono aggiungere, senza minimizzare la
loro influenza, le ricorrenti crisi che si sono determinate in questo ventennio
per effetto delle contraddizioni insanabili del capitale finanziario e la messa
in discussione da parte dell’OPEC, con l’Arabia Saudita in primo piano, del
sistema del petrodollaro su cui gli USA per anni hanno fatto leva, dopo la
messa in discussione degli accordi di Bretton Woods per riaffermare l’egemonia
della loro moneta (sempre più carta straccia, senza nessun valore) a livello
globale. Tra l’altro oggi è proprio la Russia, che lavora in forte intesa con i
paesi arabi, ad esercitare un ruolo guida dell’OPEC.
Bisogna ricordare anche che la veemenza politica, spinta
fino all’uso di matrice nazista della russofobia – sentimento di paura e di
ostilità verso il popolo e la cultura russa – non ha mai caratterizzato la
“guerra fredda”, neanche nei momenti di crisi più acuta. Allora, con la
divisione del mondo in due blocchi nessuna delle due superpotenze nucleari è
mai intervenuta militarmente né mai ha disposto l’applicazione di sanzioni
economiche se l’altra parte calpestava la sovranità, i diritti e le aspirazioni
di un paese che, pur facendo parte integrante di uno dei due campi, cercava una
via autonoma per il suo futuro. La partita, anche a livello militare, si
giocava in quelle zone del mondo non decisamente posizionate in una delle due
aree di influenza. Ha ragione Xi Jinping quando sostiene che siamo protagonisti
di cambiamenti che non si vedevano da cento anni. Tutti questi elementi
concorrono per affermare, come si è già detto, che siamo a un grande tornante
della storia, come fu quello della Rivoluzione francese o della Rivoluzione
d’Ottobre. È una narrazione molto superficiale
sostenere quindi che la situazione di oggi sia un ritorno alla “guerra fredda”.
In scala ridotta un processo di graduale e sempre più
convinto sostegno alla Russia vi è stato da parte di settori, pur minoritari,
della sinistra rivoluzionaria europea. Da questa riflessione ne deriva un’altra
che occorre sottolineare poiché più volte è stato enunciato che la Russia, per
condurre l’operazione militare sia stata economicamente fagocitata dalla Cina.
Indubbiamente la Cina è una potenza economica ben più forte della Russia, però
quest’ultima ha enormi riserve di materie prime e un potente arsenale militare
(e nucleare) molto più forte di quello cinese, una tutela anche Pechino. Ma
soprattutto il Cremlino ha saputo condurre una iniziativa politica e
diplomatica che ha portato la Russia ad essere di fatto leader dei paesi del
Sud del mondo. Le due potenze hanno bisogno l’una dell’altra e insieme
prospettano al Sud del mondo la vittoria nella battaglia per un nuovo ordine
mondiale. D’altronde la Russia, a differenza della Cina, ha una secolare ed
esperta scuola diplomatica tracciata da giganti come Molotov, Gromyko e ora
Lavrov. Una diplomazia che sa tessere fruttuose relazioni diplomatiche in tutto
il mondo. Non a caso da sempre, dalla nascita dell’Unione Sovietica, la
diplomazia russa è punto di riferimento per molti paesi del Sud globale.
Quale
pace?
La posizione occidentale che indica come unica pace giusta
quella che prevede non solo il ritiro della Russia da tutti i territori
occupati, compresa la Crimea, ma anche la sua umiliazione, è bassa retorica di
guerra. Voler mettere in ginocchio la Russia anche con le sanzioni e
minacciandola militarmente è divenuto un boomerang per l’Occidente. Non si
scongiura così la devastazione del bel “giardino occidentale”, realizzato con
secoli di sfruttamento e di rapina del Sud del mondo. A meno che non ci sia un
qualche “Stranamore” che pensa alla guerra nucleare. Addirittura, i più
oltranzisti teorizzano ancora oggi che la Russia possa essere smembrata.
Spazi dunque per trattative non ce ne sono. La strategia
militare dei russi consiste nel condurre una guerra a bassa intensità puntando
non solo alla disfatta di Kiev ma anche al logoramento dell’Occidente. L’uso
della forza militare applicata selettivamente e in modo limitato ha anche lo
scopo di evitare che alcuni paesi confinanti con la Russia possano avere il
pretesto per puntare a un allargamento del conflitto. Una conduzione militare
funzionale all’intensa attività politica e diplomatica dei russi e dei cinesi,
volta al consolidamento dei loro rapporti di amicizia con il Sud del mondo. Il
risultato è che non è la Russia ad essere isolata ma è l’Occidente che è sotto
assedio. Un dato questo del tutto evidente nella partita delle sanzioni
economiche in cui l’Europa è la prima a farne le spese, a partire dalla
Germania che è in recessione.
Occorre non sottovalutare il rischio di una guerra nucleare,
ma è senz’altro vero che se non ci fossero le armi nucleari la terza guerra
mondiale sarebbe già scoppiata; quindi, rovesciando la questione, le armi
nucleari rappresentano un deterrente molto forte, proprio perché non ci
sarebbero né vinti né vincitori. La possibilità di una guerra nucleare tattica
in Europa è una trovata giornalistica: la risposta a una bomba nucleare tattica
sarebbe una guerra nucleare mondiale che coinvolgerebbe anche gli Stati Uniti.
Il primo missile nucleare russo non sarebbe lanciato sulle capitali europee ma
sugli USA. Il rischio di una guerra nucleare non è quindi scongiurato ma resta
un’opzione remota. Ecco perché la sconfitta militare della Russia ragionevolmente
non può essere contemplata. Pure per questa ragione i russi conducono in
Ucraina una guerra a bassa intensità e gli USA, invece di ricercare un
negoziato di pace che contempli le richieste di sicurezza nazionale del
Cremlino, hanno risposto armando fino ai denti l’Ucraina in questa sporca
guerra ibrida che stanno conducendo. La partita si gioca su chi si logora per
primo per creare le condizioni di un cambiamento radicale di orientamenti
politici nelle file dell’altro campo. E i russi in questa guerra di logoramento
sono in netto vantaggio, anche perché forti sono i segnali di un collasso
dell’Ucraina.
È evidente che in questo contesto, molto diverso dalla
“guerra fredda”, non è sufficiente un pacifismo equidistante dalle due grandi
potenze nucleari. La lotta per la pace contro la guerra non può prescindere
dalla costruzione di un nuovo ordine mondiale. La pace si impone con una
visione multipolare e fino quando l’Occidente non rinuncerà a una politica di
dominio globale un conflitto mondiale, sia pur a pezzi, sarà condotto di volta
in volta in nuovi scenari di guerra. La parità nucleare tra le due grandi
potenze – e molti esperti sostengono addirittura che l’arsenale nucleare russo
sia oggi superiore a quello statunitense – ripropone, sia pur con grande
inquietudine, l’idea della deterrenza per evitare la distruzione del pianeta.
La
crisi del movimento pacifista
Occorre non un generico movimento pacifista, ma un forte
movimento per la pace, non equidistante, che connetta la questione della guerra
con la costruzione di un nuovo ordine mondiale. Un movimento per la pace che si
schieri in concreto con il Sud globale che lo chiede con grande determinazione.
Si è vista con la tragedia di Gaza l’imponente mobilitazione mondiale. Sul
piano dell’informazione Israele la guerra già l’ha persa, mentre sul piano
politico ha imboccato un vicolo cieco. Ma se in Italia il movimento pacifista
dichiara di condannare il terrorismo di Hamas e nello stesso tempo il genocidio
israeliano a Gaza, se non denuncia le ripetute aggressioni israeliane in Libano,
in Siria e in Iran, se sostiene i curdi, che all’inizio della guerra civile
siriana erano schierati con l’ISIS e sono oggi pronti a difendere le basi
americane per il controllo dei pozzi petroliferi, se non riconosce il ruolo
positivo della Russia nella regione contro il terrorismo e sistematicamente
conduce una campagna di demonizzazione contro l’Iran, allora un grande
movimento di massa di solidarietà con i palestinesi non si svilupperà mai. E
cinicamente la politica italiana continuerà a sostenere Israele nel “suo
diritto a difendersi” e seguiterà a inviare navi nel Mar Rosso contro gli
Huthi.
La guerra in Ucraina ha posto inoltre la questione della
crisi del movimento pacifista cattolico. La laicizzazione della società
impedisce alla Chiesa di svolgere un ruolo decisivo ed efficace per la pace.
Papa Francesco dice cose importanti ma la politica non lo ascolta, resta sorda
ai suoi appelli. Il Pontefice dichiara «che non è il cappellano dell’Occidente»
e prende una posizione molto coraggiosa sulla guerra in Ucraina, mosso
veramente da una visione ecumenica da capo mondiale del cattolicesimo. Ma in
Occidente il grosso dell’establishment che si riconosce nella religione
cattolica costituito da politici, giornalisti, manager, banchieri,
intellettuali, persino da una parte del clero, semplicemente lo ignora. Per la
prima volta nella storia moderna della Chiesa la parola del Pontefice, non più
posizionato sulla scelta della difesa dei valori dell’Occidente, è inascoltata,
è di fatto respinta.
Tutto può avvenire nei prossimi anni, se tale frattura nel
mondo cattolico non sarà ricomposta, ma oggi ha una forte ricaduta politica
negativa. Ai tempi di Giovanni XXIII una parte importante del mondo cattolico
in Occidente era spinta a impegnarsi per la pace, a essere parte integrante del
movimento pacifista. Oggi, nonostante gli accorati appelli del Papa, buona
parte dei cattolici non si sentono coinvolti nella lotta per la pace, come a
dire la politica è una cosa e la religione è altra.
Ma tutto il movimento pacifista in Europa è in crisi. Non a
caso le grandi mobilitazioni di massa sono per la Palestina, contro la mattanza
di Israele a Gaza, e non per porre fine alla guerra in Ucraina. Questo perché
il movimento pacifista si muove su un vecchio schema di mobilitazione oggi del
tutto superato. Ha un impianto politico e culturale appunto dei tempi della
“guerra fredda”.
Sulla
sinistra europea e la questione “coloniale”
Un ragionamento simile può essere fatto per la sinistra
europea e per i democratici. Se si è subalterni all’ideologia dominante, in cui
forte è oggi la componente laicista (non laica, attenzione!) diviene difficile
trovare il nesso tra lotta per la pace e la lotta per un nuovo ordine mondiale.
Sono tutte forze che, a parole si dichiarano per la pace, ma in pratica danno
tutto il loro sostegno alla guerra USA e NATO in Ucraina. Imbevute spesso di un
ideologismo laicista (espressione della nuova borghesia affermatasi con il
dominio del capitale finanziario), sono portatrici di una concezione tronfia di
banalità sui diritti civili, sulla libertà e la democrazia – come se
l’Occidente avesse le carte in regola per dare lezioni a tutti – sostengono di
fatto la scelta di campo occidentale e le sue denunce di parte non più
accettabili per il doppio standard di giudizio. Hanno rimosso tra l’altro la
storia, omettendo che il cosiddetto modello liberale in Europa e negli USA si è
potuto affermare poiché ha praticato per secoli una politica di rapina nei
confronti del Terzo Mondo. Se tale politica si indebolisce, e oggi è sempre più
evidente questo processo, allora il modello liberale entra in crisi e diviene
autoritario nella forma di un regime a-democratico. A questo processo si
accompagna l’evidenza che l’ex Terzo Mondo si sta ricollegando anche al filone
politico e culturale del marxismo e del leninismo.
Marx per primo pose la questione coloniale, relegata poi in
un angolo dalle socialdemocrazie, ripresa con forza da Lenin e dalla Russia dei
soviet e infine rilanciata da Stalin sino a diventare uno dei cardini della
politica internazionale dell’Unione Sovietica. Oggi tale aspetto è stato
mirabilmente ripreso da Putin che non è un comunista, ma l’attenzione alla
questione coloniale (che oggi riguarda l’emancipazione del Sud del mondo dalle
politiche di rapina dell’Occidente) rimane una bussola di orientamento ieri
dell’URSS e oggi della Russia. È un dato politico ben percepito da molti paesi
del Sud, consapevoli che i conti per un passato di sfruttamento non devono
farli con i russi (e direi neanche con i cinesi), ma con gli anglosassoni, i
francesi, i tedeschi, gli spagnoli, gli italiani, con tutto l’Occidente.
A sinistra hanno una certa influenza anche alcune tesi che
sono fuorvianti nel migliore dei casi e nei casi peggiori sono maliziosamente
costruite dalle centrali imperialistiche. Sono quelle che definiscono la guerra
in Ucraina “guerra capitalista”, “guerra imperialistica” o “tra due
imperialismi”, o avanzano analisi geopolitiche superficiali come quella che le
tre grandi potenze, USA, Russia, Cina, sarebbero degli imperi e pertanto
ragionino esclusivamente come tali. Concetti come questi non aiutano a
costruire quel nesso tra lotta per la pace e lotta per un nuovo ordine
mondiale, anzi disorientano. Se un negoziato per porre fine alla guerra è oggi
un obiettivo difficilmente raggiungibile, allora è evidente che un movimento
per la pace che si attesta su un generico pacifismo, “né con gli uni né con gli
altri”, non farà strada e politicamente incide poco.
L’equidistanza poteva avere grandi margini di manovra
durante la “guerra fredda”, quando nello schieramento dei non allineati
confluirono in una certa fase addirittura un centinaio di paesi. Anche in
Italia il movimento per la pace negli anni Ottanta si caratterizzò come
equidistante e il PCI di Berlinguer fu uno dei grandi artefici di quel
movimento. Ma un movimento di massa equidistante allora era considerato
positivo dai sovietici in quanto, in ultima istanza, poteva essere ricondotto
alla proposta della “coesistenza pacifica” per imbrigliare le posizioni
oltranziste della NATO e degli USA.
Uscire
dagli schemi novecenteschi
Gli scenari attuali sono diversi. Prima la sinistra
europea, o per meglio dire ciò che di essa rimane, uscirà dagli schemi
novecenteschi e prima sarà in grado di ricostruire un progetto politico di
massa per la trasformazione. E tra gli schemi obsoleti, da abbandonare al più
presto, c’è quello che riguarda il modo di concepire la lotta per la pace. Se
la sinistra non abbraccia la battaglia per un nuovo ordine mondiale, che non si
prospetta come un pranzo di gala, ma richiede un costante impegno politico,
allora sarà irrimediabilmente destinata alla sconfitta, sia In Italia sia in
Europa.
Tutti gli sforzi generosi per far vivere un movimento
pacifista sono ovviamente da sostenere, ma sono momenti tattici e spesso di
scarsa importanza, di corto respiro. Attualmente la necessità politica risiede
nella scelta di campo: o si sta con chi vorrebbe un ordine unipolare dominato
dagli USA o si sta con chi invece è per un ordine mondiale multipolare la cui
realizzazione passa oggi attraverso la sconfitta politica, economica e militare
dell’Occidente in Ucraina. E se la preoccupazione è quella di tutelare uno
straccio di consensi riproponendo alleanze elettorali che sono sempre più delle
accozzaglie inconcludenti, bisogna essere consapevoli che con la guerra si rischia
di morire politicamente per Kiev.
Nella storia è già accaduto. Nella Prima e poi nella
Seconda guerra mondiale la sinistra precipitò in una crisi profonda e si rialzò
grazie all’impegno generoso, teorico, politico e organizzativo, di avanguardie
rivoluzionarie. Se la sinistra non ripensa sé stessa muore. Deve uscire dagli
schemi novecenteschi. Fondamentale è riproporre oggi la dedizione e la passione
di nuove avanguardie. Senza questo lavoro non ci sono prospettive. E una delle
prime questioni urgenti è ripensare l’Europa. Questa UE è irriformabile ma non
si deve prender la via di uno sterile isolazionismo nazionalista. Occorre
invece definire nuovi processi di integrazione, nel rispetto della sovranità
nazionale nell’ambito di una comunità sociopolitica europea, sull’esempio degli
accordi che sono alla base del processo d’integrazione asiatico.
Necessità
storica di un nuovo soggetto politico
Vi è la necessità storica di un nuovo soggetto politico,
anche se in Italia non vi sono oggi le condizioni soggettive e oggettive per
costituirlo, che sia espressione di un marxismo innovativo, creativo e
rivoluzionario. È un processo di lunga lena, ma occorre avviare il lavoro
politico, anche con contributi parziali e modesti. Non si tratta di riproporre
in termini scolastici e pedanti la questione comunista. Importanti e in alcuni
casi decisive sono l’esperienza e la storia di alcuni partiti comunisti: Cina,
Russia, Vietnam, Cuba e altri paesi ne offrono un chiaro esempio. Non è un caso
che queste esperienze, tolta qualche eccezione, siano vive, influenti, contino
in paesi non occidentali e siano espressione di complessi processi storici.
Dopo l’Ottobre del 1917 si considerava imminente la
rivoluzione anche in Occidente e il movimento comunista poneva all’ordine del
giorno l’obiettivo di realizzarla e non quello di condurre una battaglia di
lunga lena. I partiti comunisti, solo alcuni anni dopo la loro nascita, che tra
l’altro coinciderà con la loro sconfitta in Europa, cercheranno – e solo pochi
ci riusciranno – di riorganizzarsi per darsi una politica di lungo respiro, che
avrebbe dovuto tenere conto del ripiegamento difensivo del PCUS. In sintesi, è
stato questo il contesto storico che portò alla nascita dei partiti comunisti,
ma questo contesto è superato e quindi sarebbe una pessima iniziativa cercare
di riproporlo a distanza di un secolo, con il nuovo millennio.
Non è sufficiente avere un nome e una storia gloriosa per
continuare a essere necessari! Attenzione però. Non si deve considerare
l’insieme del bagaglio teorico del movimento comunista inattuale, da consegnare
agli studiosi, o residuale. Sarebbe un errore grossolano imperdonabile gettare
all’ortiche, come molti hanno fatto, due secoli di storia del marxismo e di
lotte del movimento operaio.
Vi sono oggi nel mondo forze rivoluzionarie che svolgono un
ruolo importante decisamente maggiore rispetto a dei piccoli partiti comunisti,
ininfluenti e molto spesso addirittura su posizioni controrivoluzionarie, come
in Venezuela o in Nicaragua. Il Partito comunista cinese, che per autorevolezza
e forza, ha tutte le carte in regola per essere il promotore della
riproposizione di un movimento comunista, si guarda bene dal farlo. Mantiene
magari relazioni con queste piccole formazioni, ma non si pone il problema di
promuovere momenti internazionali di coordinamento. Altre sono le strade da
intraprendere per ricostruire una sinistra rivoluzionaria, di trasformazione.
La crisi dei partiti comunisti, in particolare
nell’Occidente, ma anche delle socialdemocrazie, obbliga a interrogarci sul da
farsi in termini del tutto inediti, spostando il campo di confronto non sulle
storiche divisioni tra la II Internazionale (socialdemocratica) e la III
Internazionale (comunista), ma sulle istanze poste dal presente, dalla realtà
di oggi. Per questo riproporre, attualizzandolo astrattamente, il confronto
storico tra due visioni diverse e contrapposte, anche se entrambe si
richiamavano al marxismo, è fuorviante, non aiuta, cristallizza le riflessioni
nell’ambito di un contesto storico che fa parte del passato e non si proietta verso
«una analisi concreta di una situazione concreta» come sosteneva Lenin.
D’altronde chi osa obiettivamente sostenere che il Partito
socialista europeo sia una forza socialdemocratica, compreso il Pd? Oppure che
il gruppo della sinistra nel Parlamento europeo sia un raggruppamento
comunista? Si deve partire dall’esaminare e dal valutare dati reali. Non tutto
può essere ridotto alla categoria del “tradimento” verso chi si definisce solo
formalmente socialdemocratico, o a quella del “revisionismo”, in nome del
marxismo-leninismo, come causa del declino dei partiti comunisti.
La crisi della sinistra in Europa deriva soprattutto dalla
sua incapacità di leggere i processi di trasformazione e di mutazione del
capitale e delle contraddizioni inedite che ha prodotto. Molti non sono
consapevoli, o non vogliono prenderne atto, che la creatura del
marxismo-leninismo, partorita dalla mente di Stalin, ha bloccato per tutto un
periodo la capacità di “revisionare” (atto del rivedere per correggere) il
pensiero di Marx abilmente intrapresa da Lenin e da Gramsci e da altre grandi
figure rivoluzionarie, come Togliatti e Mao. In questa ottica era Lenin il
“revisionista” (termine che ha valenze ben diverse rispetto al “revisionismo
storico” che si pone l’obiettivo di correggere e riscrivere la storia a uso
della politica) e non l’ortodosso Kautsky, che tra l’altro era in rapporto di
amicizia con l’anziano Engels, il quale gli inviò una lettera in cui suggeriva
di non abusare della parola “comunismo” foriera di grande ambiguità e
confusione per il partito socialdemocratico tedesco.
È noto che la canonizzazione ufficiale del leninismo e
l’invenzione del marxismo-leninismo furono opera di Stalin (è bene rammentare
che Engels non userà mai la locuzione “marxismo” per esporre la concezione del
materialismo storico). Nell’aprile del 1924, tre mesi dopo la scomparsa di
Lenin, nelle lezioni tenute all’Università Sverdlov sui “Principi del
leninismo”, Stalin diede la famosa definizione: «Il leninismo è il marxismo
dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. Più esattamente il
leninismo è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la
teoria e la tattica della dittatura del proletariato in particolare». A
distanza di tanti anni il processo di destalinizzazione filosofica ancora non
si è concluso, senza per questo togliere nulla alla figura storica di Stalin.
Ideologia
e teoria
Nell’indagare sulla storia del marxismo e del movimento
rivoluzionario, per comprendere che fare oggi, bisogna tornare al nesso tra
ideologia e teoria, messo in luce da Lenin e ripreso in termini sistematici
prima da Labriola e poi da Gramsci. Con Labriola fu introdotta in termini
chiari la distinzione tra ideologia e dottrina (nel senso di teoria). Che
l’ideologia sia propedeutica alla formazione e allo sviluppo del senso comune
che a sua volta è alla base della formazione storica del socialismo è
incontestabile, ma è altra cosa dalla teoria, che è analisi e ricerca. Gramsci,
che approfondì l’analisi storica dell’Italia secondo i criteri di quello che
sarà poi definito storicismo dialettico, giunse a sostenere che il marxismo
«storicismo assoluto», non solo aiuta a comprendere storicamente il passato, ma
anche sé stesso, in quanto è «il massimo storicismo, la liberazione totale di
ogni ideologismo astratto, la reale conquista del mondo storico, l’inizio di
una nuova civiltà». L’ideologia non deve mai divenire una religione con tutti i
suoi dogmi, mentre la teoria, per essere efficace nel lavoro di ricerca, non
deve farsi condizionare dai vincoli ideologici. È chiamata a definire, non
prescindendo dalla realtà data, una dottrina rivoluzionaria, una dottrina per
la trasformazione.
Questa dovrebbe essere la relazione corretta tra ideologia
e teoria, l’una ha bisogno dell’altra, ma operano su due campi distinti: la
prima sul terreno immediato, quello prevalentemente politico, la seconda su
quello dell’indagine e della ricerca, proprio per dare strumenti nuovi di
interpretazione della realtà, cioè per dare vigore e linfa proprio all’azione politica.
Tra formazione ideologica storica e teoria vi deve essere un rapporto
dialettico in costante sviluppo. Un rapporto che muta e con esso muta
l’ideologia con gli adeguamenti e gli aggiornamenti teorici. Il tema del
rapporto tra ideologia e teoria sarà, dopo Labriola ripreso da Gramsci, per
divenire un’acquisizione fondamentale del marxismo. La complessa opera di Marx
deve quindi essere considerata un laboratorio epistemologico dal quale
attingere per interpretare la realtà, il presente, e non per cucire un vestito
su misura all’attualità, né un quadro di criteri fissi, né semplici e comode
conferme. In ciò vi è l’ispirazione leninista di Gramsci.
Occorre sempre rammentare che tutti i più grandi esponenti
del marxismo, a iniziare da Marx, sono stati dirigenti e teorici rivoluzionari
del partito operaio e dei lavoratori e molti loro scritti risentono
dell’esigenza di imprimere al movimento una direzione politica, nella fase
concreta in cui si svolgeva in quel momento la lotta di classe. Non elaboravano
le loro teorie chiusi tra quattro mura o nelle Accademie, nelle Università o
nei circoli culturali. Non erano degli intellettuali di professione, ma dei
«rivoluzionari di professione», come precisa bene Lenin. Stalin, una volta
conquistato il potere, ha voluto mettere “ordine nel marxismo” con un sistema
lineare chiuso, negando e condannando qualsiasi aspetto teorico non funzionale
al modello di socialismo dell’Unione Sovietica. Ha fissato il modello
ideologico e ne ha delineato i confini ponendosi come custode del corpus
dottrinario. Non si manifesta come artefice, il suo nome non è infatti inserito
tra i fondatori del nuovo pensiero proletario, ma chiunque abbia tentato di
andare oltre i confini stabiliti, senza la sua preventiva autorizzazione, è
andato incontro alla scomunica, alla marginalizzazione politica se non
addirittura alla liquidazione fisica.
Il
marxismo non è morto ma vive la fase della sua maturità
La storia del movimento rivoluzionario ha avuto diverse
fasi: giacobini, socialisti, comunisti e movimenti nazionali di liberazione.
Nessuno si sognerebbe oggi di costituire un partito giacobino anche se
assolutamente non si disconosce il suo ruolo fondamentale nella Rivoluzione
francese. Non vedo perché tale scelta non possa e non debba essere fatta pure
per quella che è stata la storia e l’esperienza del movimento comunista.
Dalle esperienze politiche post ‘68 è venuto poco che possa
tornare utile. Sono portatrici di un orientamento che si richiama alla cultura
delle differenze, viste come inedite forme di antagonismo, o al pensiero
libertario come esaltazione dei diritti dell’individuo tramite il quale
dischiudere un indistinto orizzonte socialista. Un orientamento che conduce
analisi, spesso solo sovrastrutturali e di natura sociologica, quindi molto
politicistiche, per poi trasformarle in proposta politica, o che rivolge la sua
attenzione prevalentemente alla questione ambientale o di genere. Queste
tendenze promuovono movimenti che s’intrecciano tra loro, ma in ultima analisi
sorgono prevalentemente dalla crisi dell’ideologia marxista e dalla perdita di
identità storica di consistenti settori di una nuova borghesia espressione del
capitale finanziario.
Non si tratta di negare l’importanza di tali orientamenti
culturali figli del ’68, nonché la loro capacità di sensibilizzare l’opinione
pubblica su alcuni grandi temi, ma hanno il limite di non porre mai come
centrale la questione del conflitto capitale-lavoro. Per questa ragione “il
popolo”, che ha priorità molto più impellenti, non le segue o le segue solo
superficialmente in queste battaglie e quando non si riconosce nella sinistra,
perché questa non fa il suo mestiere, sceglie altre strade: quella del
populismo, del sovranismo e della reazione di estrema destra.
Sempre più spesso si sente auspicare un ritorno a Marx. Ma
di fatto così si proclama la nostra estraneità a tutte le vicende storiche del
Novecento, dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi. Si contrappone Marx all’insieme
di questi avvenimenti considerati fallimentari, insomma come altra cosa, profondamente
diversa, dal suo pensiero. Si fugge su mitici lidi indefiniti, e alla maniera
dei cattolici, si apprezzano quelle figure del movimento rivoluzionario
considerate dei martiri, come la Luxemburg, Che Guevara e Gramsci, e non
l’azione politica dispiegata collettivamente da Marx in poi da tanti uomini e
donne in carne e ossa. La storia è pertanto ostinatamente rimossa. Si esalta
acriticamente il pensiero di Gramsci, contrapponendolo a Togliatti o a Lenin,
dimenticando che nell’articolo “La rivoluzione contro il Capitale” Gramsci
solidarizza con la Rivoluzione d’Ottobre contro i menscevichi e i
socialdemocratici che lanciavano meccanicamente la parola d’ordine di un
ritorno a Marx. Nell’esaltazione acritica dei “martiri rivoluzionari”non vi è
la ricostruzione storica, ma solo un religioso ritorno a Marx. Per quelli che invocano
questo ritorno diventa superfluo interrogarsi sui processi storici, talmente
superfluo che sono ormai senza memoria storica. Con il religioso ritorno a Marx
(ma sempre di più questo ritorno sta a significare metterlo in soffitta) si
gettano nella pattumiera oltre cento anni di storia. Dunque, non si tratta di
tornare alle origini, bensì porsi in termini marxisti ciò che si dovrebbe fare
oggi per andare avanti, iniziando a riannodare i processi storici così come si
sono determinati.
Bisogna anche contrastare tutte quelle tendenze che hanno
appiattito il marxismo sull’anarchismo, che ha determinato conseguenze
politiche il cui sbocco raramente è stato di sinistra. Il giovane Marc Bloch (grande
storico francese trucidato durante la resistenza dai tedeschi) si attendeva dai
Soviet la «trasformazione del potere in amore». Era questa una idea non solo
del giovane storico francese. Nella Russia sovietica esponenti del Partito
socialista rivoluzionario proclamavano che «il diritto è oppio per il popolo».
Così si radicalizzava l’utopia e diveniva complicato il passaggio a una
normalità costituzionale socialista, in quanto veniva bollata come borghese.
«L’idea di Costituzione è un’idea borghese», sostenevano con vigore.
Addirittura, molti bolscevichi erano contrari al denaro, considerato la
precondizione di un ritorno al capitalismo. Prendeva piede, tramite un binomio
“marxismo-anarchismo”, un internazionalismo astratto, quasi religioso, che
tendeva a liquidare come tendenze controrivoluzionarie le diverse identità
nazionali in nome di un universalismo che però non era in grado di rispettare e
valorizzare le libertà. Molti di questi fenomeni esploderanno poi in modo non
sempre controllato nella guerra civile di Spagna. Anche nella storia recente
dell’Italia, infantili visioni estremistiche che si richiamavano alla purezza
rivoluzionaria, hanno generato guasti profondi con il loro anarco-comunismo.
Nel socialismo contemporaneo l’utopia dell’attesa messianica
dell’estinguersi dello Stato, delle identità nazionali e della funzione della
moneta, sono stati finalmente superati anche se sono aspetti che permangono
forti in settori di sinistra molto minoritari di un certo mal digerito
marxismo. E spesso sono tendenze critiche che partono da sinistra per avere
però uno sbocco politico a destra, andando a ingrossare il pensiero liberale,
come nel caso di chi considera la scelta di campo solo un conflitto geopolitico
tra Stati. Questa posizione in Italia è espressa da orientamenti radicali di
diversa matrice che in comune hanno la totale rimozione della nozione di
imperialismo, che li accomuna, guarda caso, alla cultura politica delle
esperienze socialdemocratiche. Non si coglie l’insegnamento di Lenin che
giustamente sosteneva che la lotta antimperialista è il terreno più avanzato
dello scontro di classe, della lotta per il socialismo. Si tratta di
organizzare la lotta a un livello alto contro il capitale. Non a caso la
sinistra di tutto il mondo è critica con la sinistra europea, la rimprovera di
non essere affidabile nella dura lotta contro l’imperialismo. Una sinistra che
quando è ancorata a qualche principio marxista parla a vanvera della lotta di
classe, della contrapposizione capitale-lavoro e però ha amputato dai suoi
ragionamenti la radice della questione: il ruolo dominante e imperialistico del
capitale finanziario. Da questa analisi discende la conseguenza che è sulla
funzione dello Stato e sullo scontro tra Stati imperialistici e Stati che
difendono la loro sovranità che avviene, nella fase multipolare, il durissimo
confronto.
Il pensiero socialista nel mettere in discussione il mito
della estinzione dello Stato e del suo assorbimento nella società civile, ha
compiuto un salto di maturità. L’internazionalismo non vuol dire
misconoscimento delle peculiarità e delle identità nazionali, le quali
continueranno a sussistere anche col socialismo. Già nel dopoguerra si era
avviata una riflessione sul ruolo dello Stato. Togliatti si baserà su questa
riflessione per una teoria dello Stato, diversa dal modello staliniano, adatta
alle caratteristiche italiane.
Si deve annotare
e sottolineare che proprio le due fragilità del pensiero di Marx e di Engels,
quella della teoria della crisi finale del capitalismo e quella della teoria
dell’estinzione dello Stato, invece di segnare la crisi definitiva del marxismo
lo hanno, in questo nuovo millennio, fortemente rilanciato, valorizzando
l’insieme delle altre tesi enunciate da Marx, che hanno trovato piena conferma
nelle contraddizioni del mondo contemporaneo.
Su tali questioni, teoriche e pratiche, viene dalla Cina un
grande insegnamento sulla maturità del pensiero marxista. Superficiale e priva
di fondamento è la tesi che in Cina si sia ristabilito il capitalismo. Vi è un
dato dal quale non si può prescindere: dopo la crisi e la dissoluzione
dell’URSS e del campo socialista europeo per la Cina non è stato più possibile
isolarsi dal mercato mondiale se non voleva condannarsi all’arretratezza e
all’impotenza pena la rinuncia sia della modernità sia del socialismo. Da
questo dato occorre partire per una corretta analisi su cosa sia la Cina oggi.
Non vi è dubbio che nel paese si sia formata una solida classe media e anche
forme inedite di accumulazione del capitale. Ma questa classe media non ha la
possibilità di trasformare la sua forza economica in potere politico. È
totalmente espropriata di questo potere. Il gruppo dirigente comunista cinese
ha presente questa situazione. Da una parte porta avanti uno straordinario
processo di modernizzazione del paese tramite forme nuove di democratizzazione
e di legittimazione del potere dal basso (la dialettica politica in Cina è
determinata dall’insieme di questi fattori), dall’altro lato pratica una
politica tesa a evitare che il processo di modernizzazione comporti la
conquista del potere della classe media. La meritocrazia confuciana è uno degli
aspetti fondativi dello sviluppo della moderna Cina.
Ancora nel 1981 i poveri in Cina erano circa 700 milioni,
oggi Xi Jinping ha dichiarato che la povertà è stata abolita! Già dall’inizio
del secolo l’allora leader cinese Wen Jabao aveva impostato un programma di
sviluppo economico del paese che aveva tra le sue proposte anche quella di una
valuta «non collegata a nessuna nazione individualmente». Una proposta, che
oltre a essere equa per tutti gli Stati, tutelava maggiormente gli investimenti
cinesi. La Cina infatti si stava trasformando. Non era più solo la “fabbrica
del mondo”, ma pure il banchiere degli Stati Uniti con miliardi di dollari
nelle sue casseforti. Gli USA non possono più fare meno dei capitali cinesi.
Siamo al paradosso che una grande economia esportatrice svolge le sue
transazioni ancora in parte (anche se sempre meno) in dollari, ma l’economia
reale americana si è indebolita. E questo dato è per tutti i Presidenti che si
succedono alla Casa Bianca un incubo. Questa contraddizione non ha impedito la
crescita vorticosa della Cina e, nonostante il prezzo altissimo pagato per lo
sviluppo dell’economia in termini ambientali, il paese si colloca al primo
posto nel mondo nelle politiche ecologiche.
Sarebbe bene riflettere sulla storia cinese prima di
avventurarsi in crociate, di destra o di sinistra, volte a spiegare il ritorno
al capitalismo nel paese con l’istituzione di “zone economiche speciali”. Mao,
a cinque anni dalla conquista del potere del PCC, constatava la permanenza in
Cina non solo del capitalismo, ma anche di proprietari di schiavi, per esempio
nel Tibet, e di proprietari feudali, a dimostrazione che il processo di
costruzione di uno Stato socialista sarebbe stato lungo e assai complesso. E
ancora nell’estate del 1955 ribadiva: «In Cina ci sono ancora capitalisti, ma
lo Stato è sotto la direzione del partito comunista». Con il “grande balzo in
avanti” e poi con “la rivoluzione culturale” Mao credette di affrontare tale
complessità con una incessante mobilitazione di massa, con la parola d’ordine
della «continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato».
L’approccio del gruppo dirigente con Deng Xiaoping è stato di rottura con
questa impostazione evitando però la delegittimazione di Mao, come invece
avvenne in URSS con Krusciov nei confronti di Stalin. Si è data vita così a una
formidabile NEP coniugando socialismo e mercato.
NEP è la sigla con cui si indicava in Russia la Nuova
Politica Economica adottata tra il 1921-1928. L’ispiratore della NEP fu
Bucharin ma fu sostenuta da Lenin. Tale politica era caratterizzata
dall’introduzione di norme economiche molto meno rigide rispetto a quelle del
comunismo di guerra fatto di collettivizzazione forzata, soprattutto in
agricoltura. Allora in Russia circa l’80% della popolazione era composta da
contadini, andavano dal semplice mugik al contadino medio e al contadino
agiato. La produzione agricola era di gran lunga superiore a quella
industriale. Con la NEP furono introdotte misure come quella della tassa in
natura che permetteva al contadino il libero commercio delle eccedenze che
produceva. Fu così garantito un certo miglioramento generale della vita di
grandi masse contadine anche se la critica della sinistra bolscevica
considerava la NEP un passo indietro rispetto alle conquiste sociali del
comunismo di guerra. L’idea che da una parte siano necessarie forme di libero
mercato e dall’altra parte occorra attuare un’economia che non sia solo la
statalizzazione di tutti i mezzi di produzione per realizzare una società
socialista dunque viene da lontano. Con il marxismo-leninismo poi ha prevalso,
per tutta una lunga fase, la collettivizzazione forzata e la totale statalizzazione
dei mezzi di produzione. Ed è da notare che questa impostazione di Stalin
raccoglieva, facendola sua, la critica che la sinistra bolscevica trotskista
aveva espresso un po’ di anni prima. Ma ora era sconfitta, era liquidata.
La parola d’ordine “arricchitevi” Deng Xiaoping la prese in
prestito da Bucharin che aveva letto e studiato. Il socialismo non può essere
un livellamento in basso della ricchezza per soddisfare politiche di
uguaglianza sociale. Per cui tutti sono più poveri. Il socialismo è un
livellamento in alto. Il problema non è pertanto lottare contro la ricchezza,
se si tiene sotto il controllo politico pubblico chi detiene tale ricchezza, ma
lottare contro la povertà e la miseria, per garantire a tutti un benessere
sociale dignitoso e un innalzamento della qualità della vita.
In Cina è stato compiuto un gigantesco sforzo del potere
statale per garantire da un lato efficienza economica, organizzazione
industriale e di gestione manageriale nonché aggancio alle nuove tecnologie,
dall’altro per soddisfare i diritti economici e sociali di grandi masse di
cinesi, in precedenza mai garantiti. Si è così messo in moto un processo di
emancipazione di enormi proporzioni nella storia dell’umanità. Si può
senz’altro affermare che se Mao è il padre della rivoluzione cinese, Deng
Xiaoping è il fondatore della Cina contemporanea.
Uno sforzo simile sta avvenendo adesso in Russia,
accelerato dalla guerra e dalle sanzioni occidentali. Senza rimodulare
l’economia russa in una economia di guerra, vi è uno straordinario impegno del
potere statale per trasformare il paese da un’economia prevalente di estrazione
di materie prime a una moderna economia, tramite la creazione di un potente
complesso industriale e di alte tecnologie (non solo militari) e la costruzione
di reti produttive di merci e di beni che prima venivano importati. I dati
economici significativi sono tutti positivi: piena occupazione, i salari che
crescono più dell’inflazione, estensione del welfare, potenziamento delle
infrastrutture, imponente crescita del PIL e un significativo miglioramento
della qualità della vita. Tutto ciò è stato possibile poiché nel corso di
questi anni Putin ha ridimensionato e sconfitto gli oligarchi che realizzavano
enormi profitti con le élite finanziarie occidentali.
Si è formato un sistema economico posto sotto il controllo
pubblico tramite il ruolo centrale dello Stato, un sistema capitalistico
monopolistico che per molti versi rammenta la fase d’oro delle socialdemocrazie
scandinave e per diversi aspetti il sistema economico italiano basato
sull’intreccio tra capitale privato e pubblico in cui la politica era
costantemente impegnata a svolgere una mediazione tenendo conto, per la presenza
forte del PCI, di visioni riformiste.
La rielezione di Putin a Presidente della Russia, e
soprattutto le modalità con cui è stato rieletto, parlano della grande coesione
dei popoli russi a sostegno della leadership del Cremlino. Una elezione da cui
le opposizioni filoccidentali sono uscite con le ossa rotte raggiungendo appena
il 4 per cento dei consensi elettorali. Le elezioni, quindi, hanno confermato
la solidità, nonostante la guerra in corso, del potere politico russo. Un
fattore forte di stabilità interna che rafforza la politica internazionale
della Russia, leader dei BRICS e della battaglia per un nuovo ordine mondiale.
L’esperienza russa e soprattutto quella cinese sono un
grande insegnamento per i marxisti. In Occidente Marx e Keynes sono stati messi
in soffitta dai neoliberisti, in quanto pericolosi avversari del turbocapitalismo
finanziario; riscoprirli e mettere in pratica il loro pensiero vuol dire
rendere ineludibile questo rapporto: via rivoluzionaria e necessità di attribuire
centralità al ruolo dello Stato. Quando il PCC enuncia “il socialismo dalle
caratteristiche cinesi” rammenta “la via italiana al socialismo” del PCI.
Per avviare una discussione sul che fare per ricostruire un soggetto politico rivoluzionario all’altezza delle sfide del XXI secolo, non si può prescindere dalla lezione teorica e pratica marxista che ci viene oggi dall’Oriente, rispetto a un marxismo occidentale fortemente ingessato o mal interpretato, in una sola parola, agonizzante.