FRANCIA
Sull’utilità delle manifestazioni
La manifestazione del 5 dicembre è stata veramente imponente. Per l’entità delle adesioni. E per il numero dei manifestanti.
Non possiamo, però, affermare che sia stata un successo. Si chiedeva al governo, leggi a Macron, di sospendere la messa in opera della sua riforma dei regimi pensionistici e di riaprire il dialogo con i sindacati. Ma tutto lascia pensare che non sarà così. Anche, ma non solo, in base all’esperienza greca, dove trenta scioperi generali non sono stati in grado di impedire l’attuazione dei provvedimenti richiesti dalla Troika.
Una volta non era così. Nel 1995, la rivolta contro i provvedimenti varati dal governo di Juppè aveva portato al loro abbandono. E, per andare ancora più lontano, lo sciopero dei minatori inglesi nel 1974 aveva portato alla sconfitta del governo conservatore che si era appellato al corpo elettorale per dirimere la vertenza.
Oggi non è più così. Perché sono cambiati i rapporti di forza, certo. Ma soprattutto perché è cambiato lo stato d’animo dei contendenti.
La riforma varata da Macron non mira soltanto a mettere un po’ più d’ordine nei conti pubblici. O a fare lavorare un po’ di più i francesi. O a razionalizzare il sistema pensionistico. Questo costituisce l’oggetto dello scontro. Ma non ne rappresenta la motivazione profonda. Perché questa ha che fare con una sorta di crociata o, se preferite, di missione: da una parte i riformatori, quelli che vogliono cambiare il paese da cima a fondo perché “tenga botta” in un confronto internazionale senza esclusione di colpi; dall’altra i “conservatori”, anzi “passatisti”.
Posta in questi termini la questione, non esiste possibilità di mediazione. E non esiste possibilità di mediazione anche perché, che si tratti di ferrovieri o di insegnanti, il regime pensionistico separato viene sostenuto fino all’ultimo perché è fonte di identità collettiva e di solidarietà esistenziale. E perché per il governo cedere significa rinunciare al suo grande progetto.
La favola non è ancora finita; c’è ancora tempo, dunque, per trarne una morale conclusiva.
Una però emerge sin d’ora. Ed è amara. Anzi beffarda. Proprio in questi giorni il governo Macron ha precipitosamente ritirato un disegno di legge relativa all’obbligo di riconsegna delle bottiglie di plastica, dopo la vibrata protesta della categoria e di politici locali. Proprio in un momento in cui un rapporto parlamentare denuncia il grave pericolo per la salute pubblico del loro uso. All’insegna della riconferma di una regola generale: sempre meglio colpire un poco gli interessi di tutti che colpire un po’ di più gli interessi di pochi.
NETANYAHU
Ovvero le “fake opinions” e il diritto/dovere di non ascoltarle
Molto probabilmente, Israele si avvia alla sua quarta elezione nello spazio di poco tempo. Questo perché le due coalizioni in campo ( quella guidata da Netanyahu e quella guidata da Gantz) non hanno i numeri per governare. Ma, soprattutto, perché qualsiasi ipotesi di grande coalizione è bloccata dalla pretesa di Netanyahu di dirigerla per primo, lasciando il posto al suo rivale solo quando lo riterrà opportuno. E questo anche dopo il suo rinvio a giudizio per tre gravi capi di imputazione.
Quattro elezioni nello spazio di poco più di due anni le aveva fatte solo la Germania. Ma sull’onda di una violentissima crisi economica, morale e politica che aveva portato al crollo della repubblica di Weimar e all’avvento del nazismo.
In Israele, nulla di tutto questo. Anzi, l’esatto contrario. Un consenso generale sulle grandi linee di politica interna e soprattutto estera ( non a caso la lista di Gantz si chiama “Blocco sionista”) e, soprattutto, un peso politico e un livello di sicurezza mai raggiunti in passato.
Appoggio incondizionato ( al punto da essere considerato da molti un tantino controproducente) da parte degli Stati Uniti. Gli stati arabi pronti ad un’alleanza aperta. Ottimi rapporti con la Russia. La dirigenza palestinese impotente e, sulle questioni di sicurezza, collaborativa. Hezbollah, impegnato a rispettare una tregua in atto da moltissimi anni. Hamas disposto a firmare quest’impegno in ogni momento. Gli arabi di Israele, ora completamente impegnati sul terreno della loro integrazione nella società israeliana, al punto di offrire i loro voti a sostegno di Gantz. In Europa, accantonamento tacito della questione palestinese; al punto di tacciare di antisemitismo chi la tiene ancora a cuore. E, infine, il che non guasta mai, una capacità di individuare e di colpire i propri avversari senza precedenti nella storia: a partire dalla conoscenza, come si verifica costantemente a Gaza , dei nomi, cognomi, indirizzi e spostamenti quotidiani di ognuno di loro.
Il tutto nel contesto di una padronanza senza pari delle nuove tecnologie; militari ma non solo.
Questo il mondo reale. Questa la situazione di cui tutti, a partire dagli stessi palestinesi, hanno piena coscienza. Questo è il quadro propizio, non a intese definitive oggi impossibili ma ad ogni possibile apertura: verso l’esterno e all’interno della stessa società israeliana. Questo l’assetto che lo stesso Netanyahu conosce più di ogni altro avendo più di chiunque altro contribuito a metterlo in essere; così da avere la possibilità di uscire di scena in ogni momento nella veste di secondo “padre della patria”.
E invece no. Perché il mondo che raffigura è pieno di disastri. Di pericoli e di catastrofi imminenti. Di nemici e di traditori. Con lui solo, in grado di contrastarli e di sconfiggerli. La massima autorità del paese che lo ha incriminato, autrice e complice di “un tentativo di colpo di stato”. I suoi avversari politici, potenziali traditori del paese. Gli intellettuali, da tenere sotto stretta sorveglianza e iscritti in una specie di lista nera, così come gli uomini di buona volontà che difendono i diritti dei palestinesi, collettivamente e, più ancora, singolarmente. I palestinesi, ivi compresi gli arabi di Israele, pronti a balzarci tutti alla gola, al minimo cenno di debolezza. Il mondo esterno, pieno di antisemiti palesi e/o occulti. E, infine, i provvedimenti necessari per invertire la rotta: dal richiamo alla Torah alla legge su “Israele stato degli ebrei”, all’estensione delle colonie sino ai progetti di annessione. E Lui a guidare il tutto; da Salvatore della Patria a Garante della sua stessa esistenza.
Un mondo inventato. Dominato dalla contrapposizione Amico/Nemico. E intriso di Veleni; al punto di rimettere in discussione le basi stesse della convivenza politica e civile.
E allora il diritto e magari il dovere di “non ascoltare” diventa il principale se non l’unico antidoto al disastro.
Beninteso, qualsiasi riferimento alla situazione italiana è puramente casuale.
FINLANDIA
Ovvero: la lotta di classe non è più quella di una volta
In Finlandia, il partito centrista è uscito dalla coalizione di governo con i socialisti, aprendo una crisi che non sarà facile da risolvere. Motivo: la decisione del presidente del consiglio socialista di abrogare una legge di riforma del sistema postale che riduceva stipendi e mansioni a qualche centinaio di postini.
Un motivo di scandalo per i centristi. Per noi vale sempre l’osservazione di Warren Buffett ( il sesto o forse il settimo uomo più ricco del mondo) “la guerra di classe l’abbiamo fatta noi e la stiamo vincendo”. Magari anche troppo; con o senza virgolette.
MALTA
E l’Economist
Qualche anno fa, in una inchiesta sul socialismo, il prestigioso settimanale prevedeva una sua lenta estinzione per il calo fatale del numero dei suoi azionisti e, insieme, per il raggiungimento/esaurimento della sua ragione sociale. In questo quadro riusciva peraltro ad individuare situazioni di eccellenza e ricche di prospettiva.
Una di queste era Malta.
Sappiamo ora, e da fonti ufficiali, che la crescita del paese è sostenuta dall’immobiliare e dalle scommesse. E che il suo presidente del consiglio, socialista, è sotto accusa per avere coperto e magari indirettamente promosso un delitto di mafia.
Magari questo l’Economist non lo sapeva. O magari…