Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
CINA
Qualche notizia sulla Cina in un recente articolo di “Le Monde”. In qualche caso,per confermare l’immagine che abbiamo di quel regime. In altri, per arricchirla. In altri ancora, per modificarla sotto diversi aspetti.
Da una parte abbiamo il moltiplicarsi e il rafforzarsi degli strumenti di controllo e soprattutto di indirizzo a disposizione del partito e delle istituzioni pubbliche. Dall’altra l’utilizzo di questi strumenti, non tanto per il governo totalitario delle menti e dei cuori quanto per mobilitare competenze ed energie intorno a disegni di sviluppo del paese. Da una parte la chiusura ad ogni forma di libertà politica. Dall’atra, la crescita esponenziale di tutte le libertà private e l’insistenza primaria sulla crescita del benessere collettivo.
Ricordi del comunismo? Piuttosto, riproposizione dell’universo confuciano.
Alla base di tutto l’orrore per il disordine e l’instabilità. E l’ideale della centralizzazione. Ci dicono che in Cina la durata media dei regimi centralizzati è di 171 anni (inframmezzati, peraltro, da prolungate e catastrofiche ere di torbidi). In questo quadro, i settant’anni del regime comunista (per inciso, piuttosto agitati) sono visti come l’inizio di un riscatto dopo cento e più anni di umiliazioni e di disastri; ragione di più per considerare la stabilità come una necessità esistenziale.
Oggi assistiamo alla moltiplicazione delle scuole di partito: ma, nella maggior parte dei casi, non per rafforzarne l’uniformità ideologica ma le competenze. Tra le materie da approfondire il giornale cita le politiche agricole della Baviera; un punto di riferimento tra i tanti.
Gli obiettivi da raggiungere, poi, non si contano. Si passa dalla costruzione di tot aeroporti entro una certa data, alla “modernizzazione dei cessi”; per chiudere in gloria con il “raggiungimento di un benessere generale”entro il 2022. Il tutto, naturalmente, per impulso del partito.
Ma poi, c’è anche la questione dei viaggi: trecentomila cinesi all’estero tra il 1949 e il 1979, nove milioni nel 1999, 57 nel 2010, 150 previsti nel 2019. Elemento centrale di un universo di libertà private in crescita esponenziale. Quasi a compensare l’assenza conclamata di quelle propriamente politiche.
E c’è poi tutto il resto. Il governo ossessivo di tutto e di tutti. I campi di rieducazione ossia di concentramento. La repressione preventiva del dissenso. Il tutto collocato all’interno di un unico progetto. Come la compresenza di un capitalismo spesso spietato con un dirigismo omnicomprensivo.
Il lungo articolo di Le Monde non vuole suggerire alcuna conclusione. E fa benissimo…
POVERTA’ E INTERVENTO PUBBLICO
Come è giusto, il discorso sulla povertà (che, rapportata al reddito medio procapite, si può considerare come discorso sulla disuguaglianza) porta con sé quello sull’efficacia delle misure adottate per ridurla.
In questo senso i dati emersi da un recente studio sono di qualche interesse. Per calcolare sia l’entità complessiva del fenomeno che dopo la cura, si aggira tra il 10% (Finlandia, Francia, Germania, Regno Unito,Australia) al 20% (Usa, Messico, Israele, Corea del Sud), passando per il 14% dell’Italia; sia l’effetto delle misure redistributive. Queste portano a ridurre il differenziale di circa 30 punti in Finlandia e in Francia; di oltre 20 in Germania, Australia, Italia e di 20 nel Regno Unito. Mentre lo lasciano sostanzialmente inalterato in Messico e Israele, oltre che nella Corea del Sud e negli Stati uniti.
Anche qui il dibattito è aperto
CONGRESSO LABURISTA
Contrariamente a quanto raccontano i tabloids inglesi e il sussiegoso Economist, Corbyn e i suoi collaboratori hanno una responsabilità infinitamente minore dei conservatori nel successo del Leave. E hanno tenuto, negli anni successivi, un atteggiamento assai più equilibrato del loro nella gestione dei rapporti con l’Europa. Con un approccio critico nei confronti delle politiche dell’Unione ma anche con il rifiuto di ogni separatismo , contrario di per sé agli interessi e ai diritti “dei molti”.
Perché allora sono permanentemente sotto accusa ? E perché i sondaggi gli danno appena sopra il 20% rispetto al 40% di due anni fa ?
La risposta al primo quesito è facile. E sta nell’odio cieco che l’establishment inglese, da Farage a Blair ( come sempre, il peggiore di tutti) nutre nei confronti di un uomo e di un partito che colpevoli solo di voler rimanere fedeli ai principi e ai valori del socialismo.
Per il resto, il partito soffre, come tutti i suoi confratelli, la centralità della questione identitaria. Fino a quando, anche dopo il voto referendario, la Brexit era in secondo piano, mentre i problemi della giustizia sociale, e del ruolo del pubblico erano tornati in primo piano, il Labour è cresciuto. Oggi quando la divisione tra leavers e remainers è diventata incandescente il Labour cala. Tanto più perché il suo variegato universo ( dirigenti, elettori, iscritti) è spaccato in due sulla questione; mentre quello conservatore si è ricompattato sulla versione più radicale della Brexit.
E’ in questo quadro che la destra del partito, nel corso del congresso tenutosi in questi giorni, ha proposto di fare la campagna elettorale sulla richiesta di un nuovo referendum. Con la conseguenza, forse voluta, di regalare il voto popolare a Farage e di intrupparsi in un fronte europeista assai meglio rappresentato dai liberaldemocratici.
La ricetta per un disastro annunciato. Che per fortuna è stata respinta dal congresso. Così il futuro rimane incerto; ma, se non altro, aperto.