L’infuocato dibattito in vista delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, previste per l’8 novembre 2016, che eleggeranno il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non può non toccare il tema spinoso della politica estera. Cioè, quello degli interventi militari che hanno visto coinvolto il Paese. Di solito, quando si parla di una politica estera aggressiva e fondata sull’espansionismo militare, si pensa all’amministrazione repubblicana di Georges W. Bush. In particolare agli interventi in Afghanistan e in Iraq. Un conflitto, l’ultimo, che aveva dominato i dibattiti delle precedenti presidenziali e tornato alla ribalta nel dibattito elettorale.
Questa volta a lanciare il sasso, criticando pesantemente Hillary Clinton, principale candidata dei democratici è il repubblicano Jeb Bush, 43esimo governatore dello stato della Florida sino al 2007 e fra i candidati papabili alla Casa Bianca per il Gop. In un dibattito, tenutosi il 12 agosto presso la Biblioteca Presidenziale Ronald Reagan, ha attaccato l’ex Segretario di Stato: ai suoi occhi sarebbe corresponsabile della crescita dello Stato islamico (Daesh). Bacchettate anche per la sua gestione del dossier iracheno. La colpa del duo Obama-Clinton – ergo, di tutta l’amministrazione democratica – sarebbe di aver fatto uscire le truppe statunitensi dall’Iraq troppo presto. La mossa ha creato caos nella regione e creato un vuoto riempito, in poco tempo, dallo Stato Islamico.
«Dov’era il segretario di Stato Clinton quando avveniva tutto questo?», chiede sul New York Times. «L’Islam radicale è una minaccia che siamo assolutamente in grado di superare», ha detto Bush, «Io, se eletto presidente, sarò inflessibile sulla questione». Non sarà un intervento massiccio (come fece, invece, il fratello), perché potrebbe allarmare alcuni elettori. «Non ne abbiamo bisogno», ha detto. «Ma serve comunicare che siamo seri e determinati ad aiutare le forze locali riportano il loro paese». Critica condivisa da tutti i candidati repubblicani in corsa per le presidenziali, compresi il senatore della Florida Marco Rubio e il governatore Scott Walker del Wisconsin. Un errore il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. La soluzione? L’invio di militari per riportare l’ordine contro l’Isis. Per il governatore dell’Ohio John R. Kasich, l’operazione dovrebbe coinvolgere pure gli alleati europei.
La Clinton, dal canto suo, si è difesa. Ha rinfacciato all’avversario la parentela con George W. Bush, responsabile della guerra all’Iraq baathista, definita da molti oppositori la “guerra del petrolio”. Una guerra costata ai contribuenti americani ben 1.700 miliardi di dollari, più altri 490 miliardi per l’assistenza ai reduci di guerra, senza contare i costi umani, cioè 134mila civili iracheni morti, come riporta l’Huffington Post in occasione del decennale del conflitto. Un “vizio” di famiglia, dato che il padre, l’anziano presidente George Bush sr., aveva ordinato l’attacco nel 1990, durante la prima guerra del Golfo.
In realtà la critica dei repubblicani e di Jeb Bush – anche se l’attacco all’Iraq viene rivendicato – si concentra sulle responsabilità del disimpegno obamiano, cioè la nascita e lo sviluppo del Califfato, uno stato “malvagio”, un mostro geopolitico contro cui è necessario che si armino tutte le nazioni civilizzate. L’obiettivo è evidente: dipingere la Clinton come un segretario di Stato debole. Lo staff della candidata, come Brad Woodhouse, ha replicato attaccando George W. Bush e la sua politica estera “distruttiva”, e il consigliere politico di Hillary, Jake Sullivan, ha esposto le stesse tesi. Viene da porsi una domanda, allora: le frasi della Clinton, che dipingono la precedente amministrazione repubblicana come responsabile della situazione mediorientale, indicano quindi una sua discontinuità?
Innanzitutto, nel 2003 Hillary Clinton votò a favore dell’intervento militare in Iraq, gesto che non solo divise il suo partito, ma che le fece perdere la nomination democratica del 2008, che andò a Barack Obama soprattutto grazie al voto dell’opinione pubblica pacifista (Obama era stato infatti contrario fin dall’inizio all’invasione dell’Iraq). L’invasione non solo dimostrò che il regime baathista non aveva “armi di distruzione di massa”, ma “balcanizzò” l’Iraq favorendo la crescita di gruppi armati jihadisti. Le prigioni statunitensi in Iraq, in particolare Camp Bucca, furono la palestra nella quale molti jihadisti si incontrarono, si conobbero, fecero proseliti e si organizzarono per le lotte future per la nascita del califfato islamico, «concepito dal suo futuro leader, Abu Bakr al-Baghdadi, insieme ad altri capi jihadisti proprio sotto il naso degli americani», dando ai vari ribelli sunniti «la straordinaria opportunità di ritrovarsi tutti insieme […]. Altrove sarebbe stato terribilmente pericoloso; lì non solo eravamo al sicuro, ma ci trovavamo solo a pochi metri di distanza dall’intera leadership di al Qaeda», spiega Martin Chulov sul Guardian l’11 dicembre 2014.
In tempi più recenti, nel 2011, ancora la Clinton – con Obama presidente – loda, durante le “primavere arabe”, il linciaggio e la morte del dittatore libico Muammar Gheddafi. Celebre la sua frase: «We came, we saw, he died», in una fase in cui, nel mese di febbraio, i vari paesi occidentali e del Golfo avevano collaborato via aria (coi bombardamenti Nato) e da terra (intelligence e corpi speciali) contando sull’appoggio dei ribelli libici – che non erano semplici civili, ma una forza militare composta anche da forze apertamente qaediste, come spiega in un’intervista al Telegraph nel marzo 2011 Abdel-Hakim al-Hasidi, ex prigioniero di Guantanamo che, dopo la presa di Tripoli, ne diventerà comandante militare.
Sul pericolo di queste formazioni si parlava già nel dicembre 2007 in uno studio condotto a West Point (sede dell’accademia militare americana), intitolato Al Qaida’s Foreign Fighters in Iraq: A First Look at the Sinjar Records, si rivelava che il corridoio che da Bengasi va a Tobruk, passa attraverso la città di Derna, una delle principali aree ad alta densità di terroristi jihadisti al mondo. Gli autori dello studio – Joseph Felter e Brian Fishman – spiegano che, se l’Arabia Saudita è al primo posto per numero di jihadisti inviati a combattere gli Stati Uniti e altri membri della coalizione in Iraq o in altre zone, «il secondo paese d’origine dei combattenti, con il 18,8% dei combattenti [era la] Libia». Molti di questi ribelli saranno inquadrati nel Libyan Islamic Fighting Group, raggruppamento che dal novembre 2007 sarà affiliato ad Al-Qaeda.
Non va dimenticata, poi, la guerra in Siria. È dalla Libia, sempre nel 2011, che partiranno numerosi volontari jihadisti verso la Siria ba’thista e l’Africa sub sahariana per combattere il regime di Assad, espandendo lo Stato islamico. Secondo Hillary Clinton era necessario armare sin dall’inizio, e in modo massiccio, i «ribelli moderati siriani». Non averlo fatto – sostiene – ha dato modo ai jihadisti di riempire il vuoto e di “convertire” i ribelli in loro alleati. Questa visione dei fatti, però, viene smentita sull’Indipendent da Robert Fisk, nel giugno 2014: «Chi sono questi ribelli “moderati” che Obama vuole addestrare e armare? Non li nomina e non può, perché i “moderati” originali, ai quali gli Stati Uniti hanno promesso fondi – con l’aiuto della Cia, degli inglesi, dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia – sono membri del cosiddetto “Esercito siriano libero” composto principalmente da disertori delle forze armate siriane. Ebbene, l’Esl […] si è dissolto. I suoi uomini si sono ritirati, si sono arruolati con Al Nusra o nell’Isis o sono tornati nell’esercito governativo». E poi: «Si dice che i “combattenti per la libertà” non abbiano ricevuto abbastanza armi. Ora ne avranno di più. E non c’è dubbio che le venderanno, come hanno fatto prima. […] Date ad un uomo dell’Esl – nel caso lo incontraste – un missile antiaereo e ve lo venderà al miglior offerente».
Inoltre, un documento dell’Agenzia d’intelligence del Pentagono datato 12 agosto 2012, reso pubblico il 18 maggio 2015 per iniziativa dei conservatori del
Judicial Watch, sembra confermare che
l’amministrazione Obama è arrivata a sottovalutare il Daesh pur di contrastare Assad, favorendone così la crescita: il documento spiega che fin dal 2012 – con la Clinton Segretario di Stato – i vari paesi occidentali, assieme alla Turchia e agli Stati del Golfo, assieme alle forze siriane di opposizione, intendevano «stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)».
Insomma, anche se la Clinton è nel giusto quando rinfaccia a Jeb Bush che il fratello e il padre condussero una politica estera tutt’altro che pacifica, basta poco per vedere che le sue posizioni fossero favorevoli. E che anche il marito Bill, quando fu presidente condusse contro la Serbia, senza il consenso dell’Onu, una guerra sotto le insegne della Nato. E fu sempre lui a dare il primo riconoscimento ufficiale della nozione giuridica di «Stato canaglia» (da colpire militarmente o con delle sanzioni), che risale al Missile Defense Act del 1999. Insomma, in fatto di parentele (anche acquisite) anche lei ha poco da vantarsi.
Fonte: http://www.linkiesta.it/clinton-bush-guerra-iraq