La crisi derivata dall’irruzione del Virus presenta determinati effetti collaterali che si potrebbero definire spontanei. Uno di questi è la ri-nazionalizzazione della produzione e conseguente a questa la ri-politicizzazione dell’economia. Sono fenomeni che hanno a che fare con una realtà di fatto. La chiusura delle frontiere ricompone un tessuto nazionale e su questo tessuto lo Stato è costretto ad assumere una sua funzione attiva, in controtendenza con i principi contenuti nei trattati europei pedissequamente applicati nell’ultimo trentennio.
Nel momento in cui esplode l’emergenza, affiora limpidamente il contrasto tra capitale e lavoro. Quando in gioco sono la salute e l’interesse nazionale, si manifesta il reale fine del capitale che è e sarà sempre indirizzato al massimo profitto. La globalizzazione dei mercati ha nascosto questo assioma, che rappresenta l’architrave del sistema capitalistico, attraverso delle mistificazioni giuridiche e culturali. L’azienda globale si è pubblicizzata in questi anni come sinonimo di progresso e di civiltà e ha potuto nascondere il proprio scopo predatorio con campagne di marketing ispirate al linguaggio politcally correct e ha potuto – grazie a un nuovo quadro normativo ispirato alla flessibilità – affievolire la combattività del mondo del lavoro.
Le strutture sovranazionali hanno facilitato questo compito: il mercato è il luogo nel quale l’individuo si afferma e per affermarsi deve applicare alla propria esistenza le regole d’impresa. La precarizzazione del lavoro ha individualizzato la contrattazione con il capitale e i mercati globali hanno spinto alla concorrenza al ribasso gli stessi lavoratori. Concorrenza interna tra lavoratori della stessa impresa e concorrenza esterna tra lavoratori di paesi diversi. Le de-localizzazioni sono lo strumento che ha usato il capitale per la concorrenza esterna. Facile così far apparire l’interesse d’impresa coincidente con l’interesse del lavoratore inserito nei meccanismi dell’imprenditore di sé stesso.
Il sistema neo-liberale per poter funzionare senza intoppi deve silenziare lo scontro e nasconderlo. Il lavoratore deve assimilare i dispositivi di comando dell’azienda globale – efficienza, mobilità, apertura mentale, spirito di collaborazione – per trasformarsi in un individuo non conflittuale e pacificato. Se qualcosa andrà storto la colpa sarà del lavoratore stesso che non è stato in grado di partecipare attivamente e con entusiasmo all’ideale della produzione. Il suo pessimismo lo ha reso soggetto non funzionale alla sfida della concorrenza.
La crisi ha fatto deflagrare in poche settimane questa immaginaria costruzione ideologica. Come detto il capitale ha un solo interesse, il massimo profitto. Questo interesse è perseguito a tutti i costi e tra i costi – da sempre – rientrano anche le condizioni di salute dei lavoratori. La salute è sacrificabile sull’altare del profitto. Così lo scontro tra capitale e lavoro ritorna a essere manifesto e in questo contesto – ri-nazionalizzato dagli effetti collaterali dell’epidemia – riemerge il ruolo centrale dello Stato così come è stato delineato dalla nostra Costituzione.
La nostra Costituzione difatti si differenzia in modo netto dalle costituzioni liberali a lei precedenti ed è in netto contrasto con i dettami ordo-liberali propri dei trattati europei. Ciò che la distingue sono le libertà positive, quelle libertà che lo Stato deve proteggere attraverso un comportamento attivo e non omissivo. Le libertà positive corrispondono ai diritti sociali e sono protette a livello generale con l’enunciazione del secondo comma dell’art. 3 “eguaglianza sostanziale”. Specificatamente poi la Costituzione protegge determinati diritti sociali come il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, ad un salario equo e così via. Non si limita quindi ad enunciare principi generali e astratti propri delle costituzioni liberali classiche, ma riconosce come realmente esistenti diseguaglianze di fondo tra i cittadini che lo Stato deve correggere attraverso la sua attività.
La presenza dei partiti di massa e di ispirazione socialista costrinse la Costituente a riconoscere la realtà della lotta di classe che diventò elemento costitutivo della Repubblica parlamentare italiana. La classe dirigente che usciva dal secondo conflitto mondiale e dalla Resistenza al nazi-fascismo era consapevole della debolezza delle costituzioni liberali concentrate sul laissez faire e non in grado di fronteggiare le enormi diseguaglianze provocate dai meccanismi del libero mercato. La crisi del liberalismo classico provocò l’avvento del fascismo internazionale. Questa ricostruzione diventò patrimonio comune.
Ma i trattati europei si ispirano a una visione che supera sia il liberalismo classico che il costituzionalismo sociale. Strano che anche gli europeisti più convinti non abbiano alcuna idea del reale contenuto dei trattati stessi. I trattati non prevedono uno Stato assente che ha comportamenti esclusivamente omissivi. Il mercato difatti non è più quel luogo al quale l’individuo partecipa come sua condizione naturale. Il mercato è una costruzione umana e l’essere umano deve essere educato al mercato. Per questo motivo lo Stato ha un solo compito: creare nuovi mercati e spingere l’individuo al sistema della concorrenza. Il comportamento attivo dello Stato è indirizzato esclusivamente a questi obiettivi.
Ma come detto questa costruzione crolla perché la sua fragilità si scontra con la Realtà. La democrazia difatti per operare in maniera sostanziale deve tener conto dello scontro e lo Stato deve farsi arbitro del conflitto. La ri-nazionalizzazione della politica a seguito delle conseguenze dell’epidemia già mette in contrasto il mondo del capitale con il mondo del lavoro. La tutela della salute dei lavoratori ne è un esempio. La necessità di ricostruire un tessuto industriale pubblico evidenzierà sempre di più questo conflitto e la Costituzione italiana ridiventerà centrale per la sua gestione. Depurata ovviamente dalla riforma dell’art.81 che ha costituzionalizzato il pareggio di bilancio impedendo la reale protezione delle libertà positive.