Si registra l’emergere impetuoso, ma privo di rappresentanza politico/sindacale adeguata, di un proletariato del general intellect, le cui modalità di riproduzione e di sfruttamento non passano più tramite la “spremitura” di una energia lavorativa, con modalità di organizzazione del lavoro standardizzate e ripetitive, come succedeva all’operaio fordista, ma anche all’impiegato “di concetto” novecentesco (basta guardare un qualsiasi film di Fantozzi per vedere come, nel secolo scorso, anche il ceto impiegatizio fosse sottoposto ad una forma peculiare di taylorismo). Le modalità di sfruttamento di questo nuovo proletariato del general intellect passano per il tramite dello sfruttamento della propria intelligenza, della propria preparazione culturale e della propria capacità di elaborare in modo creativo e comunicare in modo efficace informazioni e conoscenze.
Lo sfruttamento e il disciplinamento di questo nuovo proletariato devono quindi passare tramite organizzazioni del lavoro diametralmente opposte rispetto a quelle neofordiste novecentesche (caratterizzate dalla stabilità del lavoratore sul posto di lavoro), che ne flessibilizzino gli orari ed i tempi di lavoro e di consegna del prodotto richiesto dal datore di lavoro, al fine di controllare l’appropriabilità dei risultati del suo lavoro, posto che le tradizionali tecniche dei “tempi e metodi” del fordismo non sono più applicabili adu n lavoro discontinuo, non standardizzato e creativo.
Dette organizzazioni del lavoro, inoltre, devono trovare l’equilibrio ideale fra autonomizzazione del singolo lavoratore intellettuale ed esigenza crescente di interazione di gruppo, unica forma attraverso la quale la creatività del singolo può trovare una espressione compiuta in un “prodotto intellettuale” perfettamente definito ed idoneo alla valorizzazione di mercato. Tutto ciò passa per una crescente integrazione dei segmenti “superiori” di tale proletariato (dotati cioè di conoscenze particolarmente pregiate e preziose) dentro meccanismi lavorativi apparentemente di tipo autoimprenditoriale (ma spesso totalmente di tipo subordinato, si pensi al rapporto fra franchisee e franchisor, fra falsa partita Iva, o del professionista in monocommittenza o con committenza principale e suo datore di lavoro unico o primario) e il confinamento de segmenti “più facilmente sostituibili” dentro il girone infernale del precariato a vita di più basso livello. In questo senso, anche i tradizionali confini fra questo nuovo proletariato e settori importanti della piccola borghesia produttiva tendono ad essere sempre più labili: il franchisee, il padroncino di un motopoesca o di un camion hanno oramai solo l’illusione di essere piccoli imprenditori autonomi, mentre sempre più dipendenti, dal franchisor, oppure dal consorzio/azienda con cui hanno stipulato un accordo di associazione in partecipazione, o di joint venture meramente fittizio, e che in realtà finiscono per essere dei dipendenti a tutti gli effetti, e peraltro molto sfruttati.
Questo ceto sociale emergente, a metà fra proletariato e piccola borghesia impoverita e depotenziata, in campo politico, non ha più identificazione ideologica o identitaria, perché le sue modalità lavorative gli impediscono di identificare con chiarezza un “nemico di classe”, totalmente diverso da sè, rispetto al quale autodefinire i propri interessi e la propria identità, e quindi una forma di solidarietà di lotta collettiva. Non ha quindi una capacità di lettura complessiva del quadro politico, e quindi una capacità di riconoscere i propri interessi.
Il sindacato fatica a rappresentare questo ceto, sia perché esso stesso ha paura di farsi rappresentare, per timore di rappresaglie in sede di rinnovo del contratto, sia perché questa tipologia di lavoro non è inquadrabile facilmente dentro gli schemi, ancora post-fordisti, della contrattazione collettiva, dove il salario è commisurato ad una prestazione lavorativa chiaramente definibile in termini di orari, condizioni di lavoro e tipologia di attività che vengono svolte sul lavoro stesso. E’ per questo che il sindacato, anziché ripiegarsi sulle condizioni specifiche e i fabbisogni specifici di tale categoria di lavoratore, a lungo si è illuso di poterlo riportare indietro, verso il lavoro fisso e standardizzato, con le cosiddette “stabilizzazioni”.
Questo ceto emergente del general intellect, senza storia politica, senza capacità di lettura politica d’insieme né esperienza di mobilitazione e lotta unitaria, non si riconosce più nel tradizionale dualismo sinistra/destra, ma in una serie di richieste concrete, spesso incoerenti l’una con l’altra, nel senso che, ad esempio, richieste di maggiore giustizia sociale (p. es. il RMG) si scontrano con un giustizialismo qualunquista contro categorie comunque relativamente “deboli” (l’impiegato pubblico che è per definizione un parassita, il pensionato odiato perché si sa che non si potrà mai più riottenere una pensione decente, ad un’età ancora ragionevole), oppure perché richieste di maggiore partecipazione democratica dal basso si accompagnano con una crescente fascinazione per un leaderismo caciccaro sudamericano, che di democratico e partecipativo non ha assolutamente niente, anzi ne è il contrario.
Emerge quindi una piattaforma politica confusa, ideologicamente ibrida, piena di incoerenze e contraddizioni, accompagnata da una contrapposizione psicologica nei confronti del mondo della stabilità (il lavoratore alle dipendenze, il pensionato), di per sè poco suscettibile di ragionamento e di capacità di percepire le sfumature, le differenze, la profondità delle questioni. Si tratta quindi di una tendenza politico/sociale di fondo che, in queste sue fasi iniziali, se non adeguatamente governata e diretta, può forse anche dare luogo a derive pericolose, socialmente demagogiche ed autoritarie.
Sulla sostanza, però, in questa confusione emergono richieste di giustizia sociale, ed esigenze redistributive, che assumono la forma di una richiesta di riforma del sistema del welfare pubblico su misura di questo nuovo ceto segnato da precarietà ed instabilità (un welfare che è ancora modellato sugli schemi stabili della vecchia società fordista, da arricchire con elementi come il reddito minimo garantito accompagnato da strumenti di formazione permanente, riqualificazione e reinserimento lavorativo, oppure come il salario minimo garantito, tipici di società a alto livello di flessibilità ed instabilità socio-lavorativa), una richiesta di allentamento dell’ortodossia dell’austerità, che in un mercato del lavoro altamente flessibilizzato diventa una tragedia sociale immane, ed al contempo di maggiore partecipazione dal basso, non mediata dalla solidità del partito, che nel vissuto di molti esponenti del proletariato del general intellect non è mai stata conosciuta, ma come utopia del poter far sentire direttamente la propria voce, in un mondo che tende a precarizzare, liquefare e in ultima analisi far sparire la voce del singolo. Una utopia alimentata anche dai progressi tecnologici dei social network, che forniscono l’illusione di una possibilità di far sentire in modo distintivo la propria voce, ma che in realtà, ovviamente, la spegne e la annulla nell’infinita cacofonia della chat.
Come la sinistra novecentesca identificava nel mondo del lavoro, ma più specificamente nel lavoro operaio industriale, il fulcro attorno al quale far ruotare la sua proposta programmatica, ovviamente adattandola anche alle esigenze delle altre categorie del mondo del lavoro, nel XXI Secolo serve, nuovamente, l’identificazione di una “classe propulsiva”, attorno alla quale costruire la proposta programmatica della nuova sinistra. evidentemente senza rinunciare dare rappresentanza complessiva a tutto il mondo del lavoro e di chi il lavoro non ce l’ha, il compito della ricostruzione del socialismo potrebbe passare per dare rappresentanza alle richieste del ceto emergente del “general intellect”. Sapendo che la rivoluzione industriale in atto, con il macchinismo esasperato che comporterà (macchinismo nel senso che Marx diede nel Frammento sulle Macchine dei Grund risse, ovvero dove l’intelligenza artificiale della macchina prende il controllo di quella del lavoratore e la soppianta) produrrà una contrazione (oltre che una crescita dello spessore cognitivo) del lavoro necessario, per cui la flessibilizzazione di questo, che ha prodotto il proletariato del general intellect, è una soluzione di breve respiro, di tipo neoliberista, che con il precariato tende a redistribuire un numero di ore di lavoro necessario sempre minore su una massa costante di lavoratori. Se tale tendenza non si arresta, e non lo si può fare senza andare a rispondere ai fabbisogni del precariato cognitivo, esso, nel medio periodo, con il procedere del macchinismo, si trasformerà in una nuova classe di esclusi totali, la cui stessa esistenza sarà messa in discussione, poiché non potranno più partecipare ai cicli produttivi.
Occorre focalizzarsi sul precariato cognitivo, correggendone e cancellandone le contraddizioni leaderistiche, liquide, demagogiche se non giustizialiste. Si tratta cioè di affrontare questo ceto emergente per quello che è, senza illudersi di riportarlo indietro, su schemi di classe più tradizionali e consueti, che non esistono più, andando a rispondere a quelli che sono i suoi effettivi bisogni esistenziali, che in fondo, come per tutti, si traducono in una garanzia di avere una occasione di una vita, di una progettualità di lungo periodo.
Tale progettualità non può che essere welfaristica, iniziando da strumenti di reddito minimo che garantiscano continuità economica e misure di reinserimento professionale, nonché una possibilità previdenziale, alimentata da contributi figurativi nei periodi di vacanza contrattuale, pagati dalal fiscalità generale per non squilibrare i conti previdenziali.
E occorre portare tale ceto dentro l’agone della rappresentanza politico/sindacale, per farne crescere la coscienza di classe e ridurre le pericolose derive che creano artificiose divisioni psicologiche e di autorappresentazione rispetto ai “lavoratori stabili” o ai percettori stabili di reddito. In un certo senso, l’unificazione verso il basso prodotta dal Jobs Act, che ha precarizzato tutti i lavoratori, fornisce una opportunità per superare gli steccati fra interessi dei “garantiti” e dei “precari”, in nome di battaglie comuni contro la comune destabilizzazione lavorativa. E’ necessario, in tal senso, anche immaginare qualche tipo di innovazione nel sistema della contrattazione, ad esempio prevedendo, per le diverse categorie contrattuali nazionali, clausole minime comuni, valide per tutti i lavoratori del settore (quindi anche per contratti a termine, partite Iva, collaboratori, lavoratori in somministrazione, ecc.) in materia di continuità contrattuale (ad es. limitando la possibilità, per le imprese in utile e senza particolari stagionalità produttive, di non rinnovare a scadenza i contratti a termine o gli incarichi, iniziando dalla PA, che dei precari ha un grande bisogno per portare avanti, spesso, anche la sola ordinaria amministrazione, ma che poi, per i dogmi neoliberisti in voga, vive dentro percorsi mirati all’eliminazione delle sacche di precariato) e di tendenziale parificazione dei salari, dei diritti e delle condizioni di lavoro rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato. E portando i precari stessi ad assumere responsabilità dentro le Rsu/Rsa e gli organigrammi dei sindacati, favorendone l’inserimento ed i percorsi di carriera dentro il sindacato.
Tutto questo, però, dipende in modo cruciale dalla variabile macroeconomica. Se non si va a demolire il mito dell’austerità, che produce una stagnazione pagata più cara proprio da tale ceto “cuscinetto” delle crisi, e non si ricreano condizioni di crescita, almeno nel medio periodo, non sarà possibile mettere in campo quel welfare specifico per il general intellect. E questo ci riporta, come condizione preliminare, allo scontro con i potentati neoliberisti, oggi rappresentati dall’Europa.