Pubblichiamo questa ricca e articolata analisi di uno dei nostri redattori, Riccardo Achilli, pur non condividendone la proposta, convinti che sia comunque un contributo molto importante su un tema fondamentale quale quello della possibile uscita dall’euro e dalla UE.
A pochissimi mesi dalle imminenti elezioni politiche, in una fase di sostanziale rimozione della riflessione sull’Europa, dopo le tornate elettorali nei principali Paesi europei che hanno, sia pur per il momento, fugato i timori delle élite circa la possibile vittoria dei populismi anti-euro, corre l’esigenza di riprendere il filo del ragionamento in proposito. Siamo al momento dello scioglimento del nodo fondamentale: è possibile, adesso, nelle condizioni createsi, collocare al centro della proposta politica l’uscita dall’euro?
Io sono stato, per molti motivi, un sostenitore molto acceso dell’uscita dall’euro, sia pure dentro compatibilità di accordo politico e di utilizzo del tema in termini negoziali, per strappare concessioni significative in termini di direzione delle politiche economiche dell’euro-area. Credo, però, che prima o poi la realtà si imponga, per così dire, da sola. Non guardarla in faccia è un crimine, per chi voglia fare politica, o anche solo ragionare politicamente. Ci sono motivi politici che rendono impraticabile la strada dell’uscita dall’euro come proposta programmatica da offrire all’elettorato. Motivi politici interni ed esterni.
Con riferimento ai primi, vi è da considerare che una sinistra che volesse mettere al centro della sua proposta l’uscita dall’euro non godrebbe di sufficiente consenso nel suo elettorato di riferimento. In una recente ricerca condotta dal sottoscritto su un panel di oltre 1.000 elettori, in larga misura di sinistra, e pubblicata sul sito ricostruire.org, emerge una chiara riluttanza da parte della base ad affrontare con chiarezza la possibilità concreta di una fuoriuscita “whatever it takes” dalla moneta unica. Solo il 17% degli intervistati ha risposto che occorre uscire dall’euro senza se e senza ma. Quasi il 70% chiede, invece, un cambiamento di politiche economiche dentro l’euro. E di questo 70%, l’89% si professa, politicamente, orientato a sinistra. I motivi sono in fondo semplici da capire: un Paese demograficamente anziano è riluttante ai grandi sconvolgimenti e preferisce approcci più riformisti, il battage mediatico continuo sull’ineluttabilità dell’euro fa temere catastrofi immani in caso di suo abbandono, un maldigerito concetto di internazionalismo proletario (peraltro foriero di tragiche sconfitte in tutta la storia della sinistra- se i trotzkisti sono stati l’emblema stesso della sconfitta e del settarismo senza speranza non è un caso, e non è che, messi alla prova, fossero meno feroci e determinati rispetto alla controparte, tutt’altro) male assemblato insieme a bislacche concezioni su presunte correlazioni fra patriottismo, fascismo e guerra, hanno obnubilato ogni capacità di approfondimento intellettuale, anche fra i migliori. Una sinistra che si presentasse di fronte al suo elettorato parlando di uscita dall’euro perderebbe più della metà del suo elettorato potenziale. Lo ha capito anche Mélenchon, che in Francia, nelle ultima settimane di campagna elettorale, ha evitato ogni riferimento diretto ad una opzione di uscita, per quanto la sua posizione contro l’Europa sia senz’altro molto netta. E non si fa politica per testimoniare la Verità, per quella ci sono le sette religiose o filosofiche.
I motivi esterni sono non meno gravi. La decisione di creare l’euro è stata di tipo politico, non certo di tipo tecnico. Si trattava di creare, attraverso l’eliminazione delle svalutazioni competitive e della sia pur tenue barriera protettiva del tasso di cambio, un gioco del tipo “follow-the-leader”, in cui, attraverso il vincolo esterno, gli Stati membri avrebbero dovuto adattare i loro modelli economici e sociali ai dettami dell’ordoliberismo tedesco che, proprio nei primi anni dell’introduzione dell’euro, attraverso Agenda 2010 e i provvedimenti Hartz, aveva festeggiato la sua apoteosi. Senza più il filtro del tasso di cambio, economie a maggior livello di costo dei fattori rispetto alla loro produttività avrebbero dovuto, da un lato, deflazionare i loro costi di produzione interni, ad iniziare dal lavoro, e dall’altro aumentare la produttività totale dei fattori, tramite le famigerate riforme strutturali, al solo fine di rimanere competitive dentro un mercato intra-euro dominato dal leader. Al contempo, l’eliminazione del rischio di cambio consentiva alle economie vincenti nell’arena dei mercati internazionali (Germania e, per un periodo, la Francia, che però ha iniziato la sua spirale di declino) di reinvestire il lor enorme surplus commerciale nell’acquisizione dei pezzi pregiati degli apparati industriali dei Paesi perdenti. Una classe politica nazionale di notabili semianalfabeti, erotomani, cleptocrati, opportunisti e sconvolti/e paladini/e delle libertà egoiche, di Eros e Tanatos, si è prestata, forse perché convinta di non poter governare in modo autonomo un Paese complesso e poco coeso, a questo gioco. L’assenza di una borghesia nazionale degna di questo nome, che affonda le sue radici nei difetti di costruzione del Paese sin dal Risorgimento, non ha consentito di avere gli anticorpi per reagire a questa perdita di sovranità.
Oggi, la decisione di uscire dall’euro dovrebbe quindi essere politica, esattamente come politica fu la decisione di aderirvi. Ma la politica si muove su interessi concreti. Evidentemente, la decisione dovrebbe essere negoziata con gli altri partner. Ma, almeno per i prossimi cinque anni, la riedizione di Grosse Koalition fra europeisti che sembra prospettarsi in Germania impedisce alla destra tedesca, profondamente innervata di antieuropeismo sin dai tempi di Erhard, di affondare l’euro-area, come i settori sociali ed imprenditoriali legati all’ex Ministro Schaeuble ed a Afd vorrebbero. Il tandem Merkel-Schulz che si profilerà per i prossimi anni garantirà il “business as usual”, seppur con notevoli tensioni interne che, perlomeno nel lungo periodo, potrebbero sfibrare il Governo rosso-nero. La Francia di Macron è, dal canto suo, lanciata in un progetto iper-europeistico che, però, nasconde una volontà di colonizzazione industriale all’esterno e di protezione dei propri campioni nazionali all’interno, come dimostrano le vicende Vivendi-Telecom, Ilva e Fincantieri.
Fra i Paesi euromediterranei distrutti dalla crisi, un fronte comune anti-euro appare chimerico, per il semplice motivo che ognuno ha i suoi problemi specifici, non assemblabili facilmente con quelli degli altri. La Grecia non ha industria di sostituzione delle importazioni che le consenta di uscire dall’euro resistendo alle inevitabili ritorsioni commerciali che ne conseguirebbero, e il suo debito pubblico non è vendibile sui mercati senza l’ombrello dei prestiti dell’Esm. Il Portogallo sta iniziando la fase ascendente di una bolla immobiliare-turistica (che fra qualche anno distruggerà il Paese, esattamente come capitato alla vicina Spagna) e non ha interesse ad isolarsi da quei mercati europei dai quali provengono investimenti immobiliari e turisti. La Spagna è arrivata alla resa dei conti del suo modello regionalista e rischia di disgregarsi, per cui la permanenza nell’Europa è funzionale a smorzare le forze centrifughe interne. Inoltre, il suo sistema bancario alla deriva ha bisogno dell’interbancario europeo per sopravvivere. In nessuno di questi Paesi, esiste una sinistra tenacemente anti-europeista. Tsipras si è venduto le mutande della moglie per restare aggrappato all’euro (e, entro certi limiti e facendo la tara al suo inaccettabile tradimento, ha anche ragione), Iglesias di Podemos ha una eruzione cutanea gravissima ogni volta che sente parlare di uscita dall’euro. In nessuna sinistra europea con i numeri per governare il tema dell’uscita dall’euro è maggioritario. Le destre populiste hanno perso ovunque l’appuntamento con il governo e, francamente, voi ve la sentireste di allearvi con chi propone la flat tax o un poujadismo di risulta in nome del contrasto all’euro? Io no. D’altra parte, il gruppo di Visegrad, molto seguito dai vari sovranismi, essendo composto in buona misura da Paesi che non stanno nell’area-euro, non può essere considerato una sponda per una battaglia contro la moneta unica.
Certo, c’è sempre la posizione che afferma che l’euro potrebbe esplodere, per così dire, per autocombustione interna, e che quindi occorre prepararsi per tempo. E’ una posizione anche ragionevole, ma affinché sia condivisibile, occorre considerare che l’euro è sopravvissuto indenne alla più grave crisi economica della storia del capitalismo, peggiore persino di quella degli anni Trenta del secolo scorso. La governance tedesca del meccanismo, seppur incrinata, almeno per i prossimi quattro anni reggerà, bene o male. E’ bastato un colloquio con il suo Presidente della Repubblica per indurre Schulz ad abbassare le orecchie ed accettare un compromesso al ribasso con la Merkel. Per ipotizzare l’autodistruzione dell’euro occorrerebbe immaginare, a breve, l’esplosione di una nuova bolla finanziaria di gravi dimensioni. C’è chi la intravede nel boom immobiliare cinese, senonché i segnali di raffreddamento dei prezzi delle case nelle principali città cinesi smentiscono tale idea. C’è chi la intravede nel fenomeno dei bitcoin, senonché l’estensione all’economia monetaria ufficiale delle criptovalute è sinora largamente limitata da vari fattori strutturali (estrema lentezza delle transazioni sulla blockchain, tetto massimo nel valore del bitcoin circolante, che sarà raggiunto entro pochi anni, estrema fluttuazione del valore di tale criptovaluta, che la rende inadeguata per finalità di tesaurizzazione, che è una delle funzioni fondamentali di una moneta). I modelli previsionali elaborati dal FMI nelle sue analisi periodiche sui rischi dei mercati finanziari escluderebbero un rischio di crisi finanziaria nel breve periodo, evidenziando come i bilanci bancari stiano gradualmente migliorando, il ritmo di crescita economica globale sia stabile, ripristinando migliori livelli di fiducia negli investitori. I rischi evidenziati dal FMI, ovvero la crescita della leva finanziaria da parte del settore non bancario del mercato e l’incremento del prezzo degli asset, riguardano il medio periodo, e non l’immediato, mentre il tapering delle politiche monetarie accomodanti della Bce, nonostante le deliranti pretese della Bundesbank, sarà graduale e spalmato nel tempo, poiché il tasso di inflazione cresce in modo molto lento[1].
Insomma, senza una nuova grave crisi economica adesso, e non in futuro, quando i mercati bancari e finanziari dell’area della moneta unica si saranno stabilizzati, l’euro non rischia una autocombustione interna. Molto ci sarebbe da dire circa l’esattezza di queste previsioni, così spesso tradite in passato (anche se, proprio a causa della crisi recente, le metodologie di analisi dei cicli dei mercati e di early warning sono notevolmente migliorate) e non si può escludere che le politiche monetarie ed il qe della Bce siano invertiti troppo bruscamente, generando una crisi di liquidità in una fase ancora delicatissima. Così come non si può escludere che il processo di risanamento del settore bancario sia soltanto window dressing contabile, e che una crisi di una grande istituzione (ad esempio la Deutsche Bank) non faccia saltare per aria tutto. Ma siamo alle mere ipotesi. Tanto vale ipotizzare che una epidemia di Aviaria o di Ebola provochi una insurrezione di massa, o che il Vesuvio erutti di nuovo. Non si costruisce una proposta programmatica su scenari fanta-economici o meramente ipotetici. Tutt’al più, si prepara un piano di emergenza, da attivare nel caso in cui qualcosa vada storto, e lo si mette nel cassetto.
Evidentemente, non prendo in considerazione le variopinte proposte di quasi-moneta, moneta fiscale, miniBot o moneta parallela. Per vari motivi: oltre alle difficoltà tecniche, da parte della Bce e delle banche, nel detenere fondi denominati in monete diverse, a prescindere dalla possibile proibizione nell’utilizzare tali strumenti, perché la Bce è l’unico ente titolato ad emettere moneta (tutti i proponenti giurano che le loro quasi-monete non violano i requisiti dell’Eurosistema ma, si sa, le regole si interpretano in funzione degli interessi, e l’esperimento più significativo fatto ai tempi di Auriti portò al sequestro da parte della Guardia di Finanza) non mi convincono vari aspetti di tale eterogeneo insieme di proposte. Alcune di queste sono chiaramente distorte sotto il profilo distributivo: i certificati di credito fiscale funzionano se il beneficiario paga le tasse, cioè se non è un incapiente, con un reddito inferiore agli 8.000 euro annui. I mini-Bot possono essere distribuiti solo se il beneficiario ha un credito nei confronti dello Stato, ed anche in questo caso difficilmente chi è poverissimo può godere di un credito simile. Per beneficiari molto poveri, tali strumenti sono inutili, e rischiano di essere ceduti sottocosto a speculatori che ne fanno incetta. Il successivo utilizzo speculativo di tali strumenti da parte di chi ne fa incetta rischia di generare una nuova versione della legge di Gresham, in cui la moneta cattiva, o meno liquida, scaccia quella buona, nella misura in cui il valore intrinseco di queste quasi-monete non sia lo stesso per compratore e venditore (ad esempio, nel caso dei CCF, chi li può utilizzare per compensare posizioni fiscali debitorie assegnerà a tale strumento un valore intrinseco superiore rispetto a chi non avrà tale posizione, e ciò inciderà sugli scambi e sul potere negoziale di ciascuna parte). Le monete parallele ad uso interno non servono per allentare il vincolo estero, che è il principale problema, perché per definizione non possono essere usate per pagare importazioni e non hanno un tasso di cambio. Più in generale, ciò che non si capisce è che non c’è una carenza di circolante. Dai dati Bce, si ricava che la massa monetaria M1, la più liquida, è cresciuta del 9,4% su base annua ad ottobre 2017, e tale tasso di crescita supera l’8% annuo già dal 2015, come effetto del Qe. Il problema vero è che tale crescente massa monetaria non si traduce in investimenti e consumi perché la domanda aggregata è debole. Quindi il punto non è quello di immettere nuova moneta o quasi-moneta nel sistema, ma quello di far crescere i consumi, aumentando i redditi reali, creando così incentivi a maggiori investimenti[2]. In realtà, le varie proposte di quasi-moneta traguardano una ipotesi di uscita dall’euro, nella quale la Bce taglierebbe immediatamente le linee di rifinanziamento del settore bancario nazionale, e quindi servirebbero come “scialuppa di salvataggio” per evitare crisi di liquidità nella fase della fuoriuscita. Ma allora, torniamo al problema della impraticabilità politica della fuoriuscita. E non ne usciamo più.
Una proposta alternativa: attaccare l’Europa sul fronte delle politiche reali
Se motivi politici interni ed esterni, e la scarsa probabilità di una nuova crisi finanziaria con autodistruzione dell’euro, impediscono di formare una volontà politica sufficientemente forte da imporre, anche solo come piano B, l’uscita dall’euro, ciò però non significa che ci si debba adeguare alla retorica del TINA. Occorre trovare parole d’ordine unificanti nella lotta contro questa Europa, che siano in grado di mettere a massa critica le forze, interne ed esterne, di cui le sinistre dispongono. L’euro non è una di queste. Il lavoro però sì. Ed il lavoro si difende se esistono i posti di lavoro. I posti di lavoro si difendono se esiste una industria nazionale. Sfido chiunque si professi di sinistra, in Italia o altrove, a non concordare su politiche che difendano i posti di lavoro esistenti nell’apparato produttivo attualmente localizzato nel Paese. Allora il fronte di lotta si sposta dalle politiche monetarie verso quelle industriali. La lotta che può unificare la sinistra all’interno del Paese, e le sinistre europee fra loro, è quello del ritorno a politiche industriali[3], che nell’impianto liberistico dei Trattati non si possono più fare da almeno venticinque anni. Fare politica industriale significa identificare i settori strategici per il futuro, in base ad una combinazione fra vocazioni espresse dallo specifico modello di specializzazione produttiva nazionale e le tendenze prevedibili dei mercati. Ed assicurarsi che tali settori siano inseriti dentro filiere in cui, a monte, ovvero nella fornitura, ed a valle, il policy maker nazionale sia in grado di intervenire, senza subire il ricatto continuo della delocalizzazione, munendosi, a livello europeo (perché a livello nazionale ovviamente non ha senso), di strumenti fiscali di sanzione per le imprese che delocalizzano, e, perché no, anche di strumenti giudiziari contro i manager di tali imprese. Significa continuare ad avere una industria di base interna, significa disporre di una industria della Difesa nazionale, significa avere la possibilità di nazionalizzare le imprese dei settori strategici per consentire loro di investire in innovazione e in marketing senza l’assillo del break even point, creando campioni nazionali. Significa dotarsi di una banca pubblica per lo sviluppo che finanzi progetti imprenditoriali strategici. Significa dotarsi di forme selettive di protezionismo, che colpiscano in primis i concorrenti esteri che praticano dumping sociale ed ambientale per tenere bassi i costi di produzione ed i prezzi dei loro prodotti. Significa imporre alle imprese che investono nel nostro Paese di fare joint venture con lo Stato o con imprenditori nostrani, al fine di acquisire know how tecnico (niente di strano, è la modalità normale con cui si possono fare investimenti industriali in Paesi come la Cina o la Corea del Sud).
Allo stato attuale, tutto ciò, e persino la semplice ripresa di una politica industriale autonoma, sono impediti dall’impostazione dei Trattati europei, improntata il più fedelmente possibile ai criteri dell’economia sociale di mercato, che, attraverso il divieto di aiuti di Stato alle imprese, sancito dagli articoli 107 e 108 del Trattato Ue, priva settori strategici delle industrie nazionali da ogni forma di protezione pubblica, consegnandoli gli appetiti degli stranieri. Infatti, il principio generale dell’articolo 107 è che qualsiasi forma, anche indiretta, di sostegno pubblico ad imprese è proibita. Vengono concesse deroghe soltanto in casi specifici e marginali che non incidono in misura significativa sul principio della libera concorrenza (ad esempio per le micro e piccole imprese, per gli aiuti concessi in regioni a ritardo di sviluppo o in riconversione economica, per specifici settori come la cultura), ed il tutto sotto la sorveglianza della Commissione, cui vanno notificati i regimi di aiuto alle attività produttive eventualmente decisi dagli Stati membri, e che può proibirli, anche adendo alla Corte di giustizia della Unione Europea. E’ importante notare che sono di norma proibiti tutti gli aiuti, sia quelli sotto forma di incentivo finanziario o fiscale diretto, sia quelli indiretti, come ad esempio l’acquisizione o il semplice mantenimento da parte dello Stato di quote del capitale sociale di imprese, o politiche commerciali/fiscali mirate a proteggere le produzioni nazionali dalla concorrenza internazionale, anche quella socialmente più aggressiva esercitata dalle economie emergenti a basso costo del lavoro.
Di conseguenza, se l’euro è il cuore di politiche monetarie e di bilancio anti inflazionistiche e recessive, il divieto di aiuti di Stato alle imprese è il nucleo che impedisce di fare politiche nazionale sull’economia reale. Euro ed articolo 107 del Trattato sono quindi i due pilastri sui quali si basa, insieme alla libertà di circolazione dei capitali, la costruzione europea. Se non è politicamente praticabile abbattere il pilastro dell’euro, è forse possibile costruire un consenso sufficientemente ampio per aggredire quello dell’articolo 107 (che comporta anche una certa riduzione nella libertà di circolazione dei capitali). Guardate che non stiamo parlando di un programma di destra. L’Alternative Economic Strategy (AES) propugnata dalla sinistra laburista inglese, e dal suo esponente di punta, Tony Benn, negli anni Settanta, mirava proprio a quanto esposto sopra. Le Sei Lezioni di Economia di Sergio Cesaratto (pagg181-182)[4] lo spiegano bene: “l’AES consisteva, infatti, di vincoli sui movimenti speculativi di capitale, ma anche e soprattutto del controllo delle importazioni(…) L’idea del controllo delle importazioni è semplice e si rivolge ai partner economici in primis: cari partner, il nostro Paese intende adottare politiche monetarie, fiscali e distributive di sostegno alla domanda interna e all’occupazione. Noi tutti sappiamo bene che se non seguirete politiche analoghe, il nostro Paese si troverà con una bilancia dei pagamenti deficitaria. Noi non intendiamo danneggiarvi, quindi ci ripromettiamo di continuare ad acquistare da voi quello che già acquistiamo oggi. Non ci sembra tuttavia neppure corretto che voi approfittiate delle nostre politiche espansive per venderci più prodotti senza al contempo acquistare di più da noi. Allora noi bloccheremo le importazioni dai vostri Paesi ai livelli attuali (sì da non danneggiarvi), facendo così in modo che i nostri cittadini, che ci hanno consapevolmente eletti con l’obiettivo di realizzare la piena occupazione, impieghino gli aumenti di reddito che conseguiranno alle nostre politiche espansive per acquistare nostri prodotti e non i vostri. Naturalmente questa non è la soluzione ottimale, meglio sarebbe che anche voi adottaste le nostre medesime politiche di piena occupazione, con reciproco beneficio, nel qual caso nessuna misura importante di controllo delle importazioni verrebbe adottata”.
Una siffatta politica industriale, composta da un mix di intervento pubblico (tramite la partecipazione al capitale sociale di imprese nelle filiere strategiche, e di tipo finanziario-agevolativo), protezionismo selettivo, dissuasione fiscale e giudiziaria alla delocalizzazione, avrebbe le potenzialità per essere accettato da una ampia gamma di sinistre europee, purché la scelta dei settori strategici di ogni industria nazionale fosse cooperativa, basandosi su criteri ricardiani di vantaggio comparato di ogni produzione in ogni Paese (evitando quindi il sovrapporsi concorrenziale di produzioni analoghe, che creerebbe uno stimolo alla concorrenza anziché alla cooperazione), darebbe una risposta immediata alle esigenze di tenuta occupazionale e di ripresa degli investimenti, pubblici e privati, non spaventerebbe i tanti difensori dell’Europa (perché non comporterebbe un traumatico ritorno ad un simbolo della sovranità nazionale forte come quello monetario, e la ripresa di politiche industriali sarebbe concertata, quanto ai settori strategici da sostenere, a livello europeo) aiuterebbe gli Stati più deboli a ricostruire una industria nazionale di sostituzione delle importazioni (uno dei fattori che rendono Paesi come la Grecia particolarmente vulnerabili di fronte ai diktat europei) ed avrebbe un impatto esplosivo sugli assetti ideologici sui quali è modellata la Ue. Il tutto senza traumi da smantellamento dell’euro.
Cosa direbbero i critici e quale sarebbe la mia risposta
Naturalmente, sono perfettamente consapevole della critica principale che immediatamente sorge rispetto a questa proposta: “o bischero, ma se rimani dentro i vincoli del Fiscal Compact e del Six Pack, non puoi fare politiche industriali perché non hai i margini per realizzare gli investimenti pubblici. Tra l’altro, con il pacchetto di riforme appena proposto dalla Commissione Europea, si istituirà un organismo tecnico che avrà il compito di imporre ai Parlamenti nazionali ulteriori riforme strutturali in direzione della libertà di mercato e della privatizzazione dei residui settori produttivi ancora in mano pubblica, come ad esempio i trasporti. Se gli Stati membri non seguiranno le indicazioni di questo organismo, non potranno ottenere la flessibilità in materia di politiche di bilancio e di allentamento temporaneo dei vincoli di riduzione del debito pubblico e di raggiungimento del pareggio strutturale del bilancio. Se non rispetti i vincoli sugli aiuti di Stato sarai costretto a rinunciare ai cospicui finanziamenti dei fondi strutturali europei per il Mezzogiorno, essendo essi stessi sottoposti a condizionalità”.
Sono ovviamente del tutto consapevole di queste osservazioni. La risposta che posso dare è che non ci sono, attualmente, le condizioni per riconquistare autonomia sulle politiche industriale in modo immediato, ma ci sono gli spazi per costruire un consenso a sinistra su tale tema senz’altro molto più ampio e meno soggetto a controversie rispetto all’euro. Pertanto, mi accontenterei, per il momento, di una dichiarazione programmatica di principio volta a indirizzare la lotta contro l’attuale assetto dell’Unione europea sul versante di una maggiore apertura a politiche industriali e sociali maggiormente discrezionali. Che tale apertura deve tradursi, in pratica, in un approccio gradualistico e per obiettivi intermedi. Il primo obiettivo intermedio deve necessariamente essere quello di lottare per ridimensionare l’integrazione del Fiscal Compact dentro la legislazione europea. Già ottenere che la direttiva europea di integrazione del Fiscal Compact in corso di elaborazione sia adottata con legge ordinaria e non, come invece previsto, con legge di rango costituzionale, sarebbe già un piccolo successo, perché renderebbe più facile abolirla successivamente. Un secondo obiettivo da raggiungere è quello di scomputare dal calcolo del disavanzo finalizzato alla verifica del rispetto degli obiettivi del Six Pack la spesa per investimenti pubblici. Un terzo obiettivo è quello di ripristinare la precedente normativa nazionale sulla golden share, modificata dal Governo Monti, e sostituita con una ben meno efficace norma, che riduce notevolmente i poteri di intervento pubblico in caso di scalata straniera ostile su asset strategici. Accanto ciò, si potrebbe accelerare il passaggio della Cassa Depositi e Prestiti verso il modello di una banca pubblica di investimento, che peraltro scomputa una parte del debito pubblico dal calcolo valevole per il Fiscal Compact. Lo fanno i tedeschi con la Kfw. Se lo fanno loro, negarlo a noi sarebbe arduo. Subito dopo, delineare le filiere produttive strategiche per l’interesse economico nazionale, da sottoporre a specifici provvedimenti speciali. Iniziare a negoziare in sede europea provvedimenti di penalizzazione delle importazioni da Paesi terzi, esterni alla Ue, che praticano dumping sociale e ambientale. Introdurre progressivamente controlli sui movimenti di capitali, inizialmente simbolici e poi via via sempre più rigidi. Passo per passo, con gradualismo e con una ottica di medio-lungo periodo, si deve procedere lungo la strada del recupero di pezzetti di sovranità di politica economica. Purché, però, l’obiettivo finale del recupero di una capacità di fare politica industriale, sia pur in termini di principio programmatico, venga dichiarato e sia immediatamente condiviso, a livello interno e fra le altre sinistre europee.
Sempre chi obietta potrebbe, a questo punto, rispondere “si, bravo, ma tutto quello che proponi, seppur con passi graduali, consiste in una riforma complessiva dell’Europa, esattamente come chiedono i Fratoianni ed i Varoufakis. Richiede un approccio negoziale con gli altri Stati membri. Ma noi sappiamo bene che l’Europa è irriformabile, perché è stata costruita proprio come spazio sovranazionale a-politico, per ridurre la politica a mera testimonianza ancillare rispetto alle tecnocrazie”. E’ una critica corretta, alla quale non posso controbattere, se non permettendomi di far notare che anche l’altra strada, ovvero quella dell’uscita dall’euro, richiede un “approccio negoziale” con altri Stati membri. Nessuno, tranne qualche folle, può ragionevolmente pensare che una economica di dimensioni strategiche come quella italiana venga fatta uscire da sola dall’euro, per atto unilaterale il venerdì pomeriggio a mercati chiusi. Non siamo una monade nello spazio siderale. Siamo un Paese appartenente ad un sistema di alleanze politiche, economiche e militari, prima che qualcuno pensi seriamente di fare uno strappo unilaterale di questo tipo, senza negoziarlo, c’è sempre un po’ di esplosivo per fargli saltare l’aereo, come accadde a Mattei, oppure un po’ di arsenico nella tisana, come per Papa Giovanni Paolo I. più del 50% del nostro export viene diretto a Paesi dell’area-euro, le ritorsioni commerciali in caso di strappo unilaterale sarebbero tremende. Persino l’orgogliosa Albione britannica è stata costretta a negoziare la Brexit a condizioni piuttosto penalizzanti. E non aveva il problema della moneta unica.
In sostanza, negoziato per negoziato, quello che propongo è un negoziato che consenta alla nostra parte, alla sinistra, di presentarsi al tavolo con un minimo di coesione interna sugli obiettivi, senza sfilacciarsi su assurdi dibattiti dottrinali su nazionalismo, internazionalismo, rossobrunismo, social-nazionalismo vs. nazismo, come sistematicamente avviene quando si mette di mezzo l’euro. Cerchiamo di far pace con il nostro cervello, prima di affrontare la battaglia sull’Europa, altrimenti meglio andare al bar a giocare a biliardo ed a bere, e lasciare le destre risolvere il problema. Perché le destre il problema, prima o poi, lo risolveranno. Ma a modo loro. E poi nessuno si dovrà permettere di starnazzare sui fascismi risorgenti.
[1] Imf, “Global Financial Stability Report”, Ottobre 2017
[2] Ad onor del vero, alcune proposte come quella dei certificati di credito fiscale, hanno un effetto reale su redditi e domanda aggregata, ma rimangono tutti i dubbi di distorsione distributiva, di rischio di incetta speculativa e di bad money di cui si è parlato.
[3] Per la verità, un altro fronte unificante sarebbe quello delle politiche sociali, rispetto al quale l’obiettivo finale potrebbe essere quello di richiedere una assicurazione sociale contro la disoccupazione unica a livello europeo, nonché uno strumento finanziario europeo anticiclico, che si attivi in caso di aumento asimmetrico del tasso di disoccupazione in uno Stato membro. Ma magari questo secondo fronte sarà oggetto di un articolo successivo.
[4] Imprimatur, 2016
Foto: Senza Tregua (da Google)