Infelicità


Le cronache riportano che il 50%$ circa dei giovani tra i 18 e i 25 anni soffre di depressione. Più del 60% ha una visione pessimistica del proprio futuro. I media registrano i numeri e si limitano ad una interpretazione dei dati volutamente ideologica. Per essi il disagio sempre più diffuso e ingestibile nelle famiglie e nelle istituzioni ha la sua causa negli effetti della gestione pandemica con relativa reclusione segnata dal terrore della contaminazione. Pur di difendere il sistema, di cui sono organici, non osano procedere ad una analisi critica della gestione del covid e,  ad un esame più attento della stessa gestione del covid, essa  è solo una delle cause immediate della diffusa fragilità psicologica.

La causa profonda è nel modo di produzione. Il capitalismo giunto nella sua fase imperiale e, forse, finale sta affrontando il lungo e terrifico declino con la competizione divisoria a livello sociale e internazionale. Le nuove generazioni sono prese nella trappola del capitale. Ad esse, a cui è stato tolto ogni diritto sociale, il sistema richiede di essere competitive e solitarie. Si esige la trasformazione di giovani (e anziani) in barracuda da mercato. I giovani barracuda si ritrovano, però, soli e spaesati; l’unica legge a cui debbono fatalmente obbedire, pena la morte sociale, è la guerra di tutti contro tutti. Devono rimuovere la loro natura solidale e la loro indole personale per diventare ad immagine e somiglianza degli imperativi del mercato. Il mercato globale li vuole metamorfici e sempre disponibili e adattabili alle sue nuove esigenze. Devono rinunciare alla famiglia, a se stessi e all’identità linguistica e patria. Devono essere creature fatte di niente in modo da prendere la forma che il sistema esige in ogni momento. I tempi dei mercati non sono sovrapponibili alla temporalità della coscienza umana. La violenza ansiogena del mercato comanda repentine metamorfosi, dinanzi a richieste accelerate e ricattatorie i giovani cadono in uno stato di prostrazione e umiliazione. Le relazioni affettive sono vissute all’interno di tale violenta cornice, per cui frustrazioni, solitudine e incapacità di capire il male che li corrode non  possono che condurre a depressione e a gesti estremi. L’immaturità è l’ordinaria normalità del male, perché per diventare adulti è necessario ricevere cure e attenzioni. Il sistema, invece, li consegna al mercato riducendoli a creature informi ed emotivamente infantili.

In genere sono trattati come “principi”, a livello materiale, nelle famiglie medio borghesi, per poi essere divorati dal mondo del lavoro. Essi sentono l’oppressione del giudizio sociale. Tutto è valutato in base al successo e al paradigma del denaro. Sentirsi “niente e dei falliti”, ancor prima di iniziare il lungo e difficile cammino nella selva oscura del capitale, è facile. Taluni si rifugiano nel bozzolo delle famiglie per restarci a tempo indeterminato. Diventano adulti, invecchiano, ma restano adolescenti che tutto devono chiedere ai genitori.

La qualità di un sistema sociale dovrebbe essere valutato in base al numero dei malesseri psicologici che covano in esso.  Essi sono l’indicatore della conformità  o meno del modo di produzione e di vivere alla natura umana. Nel nostro sistema la violenza è ovunque e il discrimine tra violenza legalizzata e violenza illegale è sempre più labile, poiché è il mercato con le multinazionali a dettare le leggi e il diritto è sempre più spesso un’arma nelle mani dei più forti. La solitudine è schiacciante, dunque, ed essa è oscura e tenebrosa, in quanto non vi sono parole e progetti che possano aprire nuovi scenari. Il disagio che il sistema vorrebbe curare con i bonus psicologo al fine di adattare le vittime ai desideri del carnefice è solo un anodino ideologico con cui il capitalismo si presenta al mondo come il “protettore dei più deboli” dopo averli prodotti ad arte.

Le nuove generazioni e noi tutti necessitiamo di ricostruire la sinistra comunista senza nostalgie per ciò che è stato, in fondo da perdere abbiamo solo la “nostra infelicità”. Il capitalismo non produce solo un’immensa quantità di merci, ma è proprio l’infelicità il prodotto primo del capitalismo, ad essa nessuno sfugge.

 Karl Marx l’aveva ben capito che la guerra e il saccheggio delle vite è l’essenza noumenica del capitalismo:

“La guerra industriale, per essere condotta con successo, richiede numerosi eserciti, che essa può ammassare nello stesso punto e largamente decimare. Non per disciplina né per dovere i soldati di questo esercito sopportano le fatiche che sono loro imposte, ma soltanto per la dura necessità di fuggire la fame. Non hanno né attaccamento né riconoscenza per i loro capi; i quali non hanno per i loro sottoposti nessun sentimento di benevolenza; non li conoscono come uomini, ma solo come strumenti della produzione, che devono rendere il più possibile e costare il meno possibile. Queste masse di operai, sempre più premuti dalla necessità non hanno neppure la tranquillità di trovar sempre un’occupazione; l’industria che li ha riuniti, li fa vivere soltanto se ne ha bisogno, e non appena può sbarazzarsene, li abbandona senza darsi il minimo pensiero; e gli operai sono costretti ad offrire la loro persona e la loro forza al prezzo che gli si vuol accordare. E tanto meno sono pagati quanto più il lavoro che gli si offre è lungo, penoso, disgustoso; si vedono taluni che con un lavoro di sedici ore al giorno, in stato di fatica continuata, si acquistano a mala pena il diritto di non morire (l. c., p. [68,] 69)”[1].

Il capitalismo è guerra, per cui i caduti sono solo numeri, al triste conteggio dei caduti la prospettiva comunista deve offrire l’impegno comune per una progettualità nella quale si è liberi di essere “uomini”. Il primo passo per uscire dall’oppressione ideologica con le sue menzogne politicamente corrette  è riportare la parte al tutto, in modo da uscire dai vaneggiamenti astratti dell’ideologia.


[1] Karl Marx, Manoscritti economici filosofici del 1844, capitolo il Salario.

Fonte foto: La Repubblica (da Google)

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