Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
I presidenti americani, una volta completato il loro mandato, escono di scena. Fondando biblioteche. Girando per il mondo per fare conferenze ben retribuite. Facendo donazioni e visitando, in privato, vecchi amici. E, in genere, comportandosi da “elder statesmen” ( letteralmente “statisti anziani”; ma l’espressione è intraducibile in Europa e per motivi che noi italiani possiamo perfettamente capire…). Due sole, e recenti, eccezioni: i Bush ( ma qui vale l’amore paterno); e i Clinton ( ma qui valgono i rancori coniugali, con relativi bisogni di rivalsa).
Sono le regole della “competition is competition”, made in Usa. Se hai perso hai perso. E, allora, devi uscire fuori dalla mischia. Senza star lì a contestare, recriminare o magari a fornire opinioni non richieste in giro per il mondo. Ma l’essere stato presidente degli Stati uniti ti renderà in qualche modo inviolabile: dalla giustizia ma anche dalla, diciamo così, persecuzione politica postuma.
Ora Barack Obama lungo due anni e mezzo ( e, nel suo caso, due anni e mezzo sono un’eternità), si è mantenuto fedele a questo vincolo, sino al limite rappresentato da un monaco trappista. Niente dichiarazioni. Niente conferenze. Niente visite. E, a quanto mi risulta, nemmeno l’innocuo esercizio di fondatore di biblioteche. Da Michelle, questo sì, i richiami femministi, dietisti e ambientalisti di rito; ma che, per i loro contenuti, potrebbero benissimo venire dalla Norvegia o dallo Yucatan.
Inutile dire, a questo punto, che i suoi avversari, che dico i suoi nemici giurati non si sono affatto conformati al nostro copione. Insulti feroci e sempre più aggressivi alla sua persona e alla sua opera. Demolizione altrettanto feroce degli obbiettivi della sua politica interna e degli strumenti adottati per realizzarli. E, soprattutto di quell’ordine internazionale razionale e pacifico che aveva cominciato a delineare. Con il pericolo di nuovi conflitti militari che, lungo tutto il suo mandato, aveva cercato di evitare in tutti i modi.
E allora il suo silenzio ci appare fatalmente come una resa. Una resa di cui dobbiamo assolutamente cercare di capire i motivi.
E qui tentiamo di azzardare alcune ipotesi. Che attengono sia alle debolezze o se vogliamo ai talloni d’Achille del personaggio sia ad un quadro esterno non all’altezza della sfida posta dal trumpismo e dalla destra repubblicana.
Obama è il prototipo del grande intellettuale costretto a confrontarsi con avversari in tutti i sensi “volgari”e non rispettosi delle regole di un decente confronto politico. E, allora, si sente in qualche modo impotente ( come un boxeur raffinato che deve confrontarsi con uno che picchia costantemente sotto la cintura non sanzionato dall’arbitro. Troppo orgoglioso per cercare mediazioni ( come aveva fatto, invece, quel grande e misconosciuto presidente di nome Lyndon Johnson). Ma, al tempo stesso, troppo timido e beneducato o, se vogliamo, troppo cerebrale per rispondere a tono.
Una maledizione che del resto aveva segnato il suo percorso di “comandante in capo”
All’inizio i suoi propositi sono delineati con chiarezza ed eloquenza. E’ il discorso all’università al Azhar dove annuncia la nuova alleanza tra gli Stati uniti e l’Islam democratico delle primavere arabe. E’ il proposito di resettare i rapporti con la Russia, di promuovere l’accordo tra israeliani e palestinesi, di chiudere annose vertenze con Teheran e l’Avana, così da collocare sul terreno economico la sfida con la Cina. Ma appena il cammino annunciato trova resistenze od ostacoli talora imprevisti, più spesso ampiamente prevedibili , abbandona il percorso, perde del tutto la presa sugli avvenimenti, abbassa il tiro e i toni e, in definitiva, le armi. E soprattutto non osa mai chiamare a sostegno il popolo americano a difesa delle sue strategie e dei suoi obiettivi; sino a subire, senza reagire, l’onta di vedere un leader straniero condannarlo come una specie di traditore davanti al Parlamento del suo paese. Capisce dove sta il male; ma non ha nè l’energia vitale né la passione per misurarsi con lui. E soprattutto per rimettere in discussione quella visione del ruolo internazionale degli Stati uniti, dove il più brutale imperialismo assume i colori del messianismo democratico e della divisione tra Bene e Male, diventando in tal modo cultura “bipartisan”.
Il suo silenzio è dunque, nel profondo, il silenzio di uno sconfitto. Ma è anche, questa la nostra seconda ipotesi, il silenzio di un uomo solo.
Non a caso, infatti, i candidati “continuisti”nelle primarie democratiche si ispirano a Clinton mentre quelli “movimentisti” sono molto più radicali del Nostro in politica interna e , invece, molto più timidi sulle questioni internazionali. Il tutto in uno scontro che, a tutt’oggi, non vede apparire all’orizzonte un candidato carismatico, capace di far sognare e perciò capace di unire.
Ma quello era Obama. E non ce ne sono altri in giro. E, ahimè, non c’è più nemmeno lui.