Quella che segue è la traccia per la discussione dell’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazionale e popolare”che, su iniziativa degli autori, si terrà a Bologna il 15 aprile 2018, presso l’Hotel Allegroitalia, viale Masini 3 / 4, alle ore 10
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Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi dati frettolosamente già per già spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi. Qualunque soluzione venga data al rebus della formazione del governo, essa non potrà che acuire i problemi. Un’ improbabile riedizione del patto del Nazareno approfondirebbe il solco tra l’elettorato ed il vecchio sistema politico. Un governo Lega-M5S farebbe esplodere le contraddizioni con Bruxelles, oppure le sposterebbe all’interno del governo e di ciascuno dei due partner. Un qualche governicchio di transizione, premessa di turbolenze future, sarebbe comunque schiacciato tra le urgenze dell’Unione europea e le impazienze popolari. Non c’è soluzione alla “questione italiana” perché nessuna delle forze in campo ha la volontà o la capacità di metter mano all’ormai ineludibile programma di ripubblicizzazione dell’economia e di piena occupazione, e di scontrarsi su questi punti definitivamente con Bruxelles, fino alla rottura. Non il PD né Forza Italia, ovviamente. Ma nemmeno il M5S a guida Di Maio, che ha già rassicurato gli investitori internazionali; e neppure la Lega, che vuol sostituire il liberismo bavarese con quello lombardo. Non si può uscire fruttuosamente dall’Unione europea (posto che lo si voglia) se si riduce il ruolo della politica alla lotta agli sprechi, se si vuole la spesa pubblica per appropriarsene privatamente, se si continua a volere la flat tax, le privatizzazioni, lo stato minimo.
La soluzione potrebbe arrivare soltanto da una forza politica nazionale e popolare capace di cogliere il nesso strettissimo tra difesa del lavoro, ricostruzione e rafforzamento dello stato, autonomia nazionale e nuovo spazio geopolitico cooperativo. Una tale forza potrebbe alla lunga mostrare le inevitabili incongruenze di tutti coloro che oggi occupano la scena e potrebbe finalmente rimettere mano ad una esperienza e ad una riflessione orientate verso il socialismo. Ma una tale forza è ancora ben lontana dall’esistere. Per nascere ha bisogno di uomini e donne che non si illudano sulla possibilità di trasformare in senso positivo ciò che già esiste, e siano consapevoli della necessità di creare ciò che non è mai esistito: una forza capace di ridiscutere la collocazione internazionale del paese e quindi i rapporti sociali che questa impone. Questi uomini e queste donne si trovano, di fatto, soprattutto all’interno della diaspora della sinistra (una diaspora molto ampia che si distribuisce nell’astensione, nel voto al M5S per arrivare fino alla stessa Lega), ed è per questo che il nostro discorso inizia col rivolgersi a loro. Per esortarli a cercare e trovare una strada autonoma, distinta sia dalla vecchia sinistra che dagli attuali improbabili sostituti.
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Nel loro insieme, le sinistre italiane rappresentano ormai quasi soltanto gli strati superiori del lavoro, che temono l’inflazione più che la disoccupazione, e un ceto intellettuale che risponde soltanto al mercato, ed ha quindi perso ogni rapporto organico coi ceti popolari. La sinistra “clintoniana” ha sostituito nel tempo il linguaggio socialcomunista con quello politically correct, che usa le più nobili cause per i più ignobili fini, ed evoca di continuo l’ambientalismo, la lotta alla discriminazione di genere, i diritti civili ed umani per evitare di parlare di eguaglianza o per giustificare le guerre imperialiste. La sinistra radicale insiste in un movimentismo antistatalista che è da anni obsoleto. C’è da stupirsi dei risultati elettorali? C’è invece da stupirsi del fatto che vi siano ancora migliaia di militanti o semplici cittadini-elettori che vogliono capire il perché della sconfitta, e come ripartire. A tutti coloro che si sentono ancora testardamente di sinistra vogliamo ricordare che nel mondo esistono sinistre socialiste che non sono puri relitti della storia, come le rivoluzioni bolivariane in America Latina e i vari Podemos, Sanders, Corbyn e Mélenchon. Resistono o sfiorano addirittura la vittoria quelle forze che, pur non rinnegando i vecchi valori della sinistra, non hanno paura di parlare di nazione e di popolo. E che ci insegnano che se un movimento anticapitalista potrà rinascere potrà farlo solo come socialismo nazional-popolare (e quindi antieuropeista).
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Lungi dall’essere antistorica e impraticabile, In Italia una proposta socialista risponde non soltanto agli interessi dei lavoratori ma all’interesse generale del paese. Quell’interesse generale che spesso viene fatto valere contro i lavoratori, oggi deve essere fatto valere dai lavoratori contro i capitalisti. Data la latitanza di un capitale interno che si comporta come una vera e propria borghesia compradora, e dato il carattere predatorio del capitale esterno, una seria e duratura ripresa della nostra economia è possibile solo grazie ad una forte impresa e a un forte sistema bancario pubblici, cioè grazie ad una importante trasformazione dei rapporti di proprietà e ad un intervento politico di programmazione. La piena occupazione, la messa in sicurezza del territorio, il risparmio energetico, l’ammodernamento dell’apparato produttivo, non sono possibili senza la costruzione di una economia mista. La valorizzazione dell’export richiede il retroterra di un mercato interno fortemente sviluppato, e quindi un aumento dei redditi da lavoro. La riduzione del nuovo, crescente divario Nord-Sud non è possibile senza un grande intervento pubblico. Infine il mantenimento della pace nell’area mediterraneo-balcanica impone una politica estera di tipo socialista, favorevole alla cooperazione paritaria fra stati e contraria alle ingerenze nei loro affari interni da parte degli imperialismi occidentali. Insomma, per rovesciare una vecchia battuta di Henry Ford, “oggi ciò che è buono per i lavoratori è buono anche per l’Italia intera”. Solo chi non ha ben compreso l’epoca in cui vive può pensare che questo non sia che un blando riformismo. Ciò che quaranta anni fa poteva apparire troppo moderato, oggi è troppo radicale per gli oligarchi: riforme apparentemente modeste richiedono vere discontinuità, richiedono una politica socialista. E se dal punto di vista logico la possibilità di una politica socialista presuppone la rottura con l’Unione europea, dal punto di vista morale e culturale implica il recupero della visione nazional popolare di gramsciana memoria.
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La sinistra italiana muore di europeismo e di elitarismo. Muore per aver sposato la stabilità monetaria, la finanza ed il mercato, l’ossessione per le esportazioni e la concorrenza fra stati. Muore per difendere l’euro, che è la moneta dei grandi capitali e dei grandi creditori. Muore per aver prodotto la miseria dei suoi stessi elettori al fine di rendere appetibili per il capitale nordeuropeo le imprese, il risparmio ed il lavoro italiano. Molti militanti hanno creduto che quello europeo fosse uno spazio “più ampio” che, come tale, avrebbe consentito una lotta più efficace, capace anche di correggere i “difetti” dell’Unione europea a partire dai suoi evidenti deficit di democrazia. Ma è ormai chiaro a tutti che l’Unione europea non è uno spazio neutro, ma una vera e propria macchina antipopolare, concepita al fine di rendere impossibile il socialismo e qualunque seria redistribuzione del reddito e del potere Una macchina che fa sì che le lotte sociali siano sempre sconfitte in partenza, perché le insindacabili regole giuridico-economiche dell’Unione (cioè gli automatismi “tecnici” che realizzano ed occultano il dominio politico del grande capitale) prevedono soltanto risposte deflattive e mercantiliste. Una macchina che indebolisce e divide i lavoratori e corrompe le associazioni civiche inglobandole nella governance continentale. Non c’è nessuna possibilità di riformare questa macchina: la vicenda greca ha dimostrato cosa succede a chi va contro L’Unione, e l’arrendevolezza della sinistra greca non è servita ad ammorbidire l’avversario. Oggi la scelta non è tra la Merkel e un qualche pallido riformismo europeo, ma tra la Merkel e Schäuble, e l’AfD. E se la Germania e la Francia decidessero, visto lo scontro con gli Usa, qualche concessione tattica a favore dell’Europa meridionale, lo farebbero solo a patto di rafforzare i meccanismi di centralizzazione del comando continentale. Meccanismi che fanno sì che in Europa, accanto alla evidente questione sociale e strettamente intrecciata ad essa, si manifesti una vera e propria questione nazionale, che oggi riguarda anche economie capitalistiche evolute mentre ieri era appannaggio esclusivo dei Paesi ex coloniali. I paesi periferici e semiperiferici dell’Europa aumentano infatti costantemente la loro posizione debitoria nei confronti dei paesi forti e, per tentare di rovesciare la tendenza, possono usare soltanto l’arma della deflazione salariale, aggravando il problema invece di risolverlo. In tal modo la subordinazione nazionale si converte in subordinazione di classe, ed è per questo che la lotta di classe e popolare deve passare anche dalla riconquista dell’autonomia nazionale, condizione necessaria per risalire la china.
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Qui scatta, immancabile, il riflesso pavloviano della sinistra, variegata ma unita su questo punto: l’accusa di nazionalismo, sovranismo, rossobrunismo. Ma la nostra visione non ha nulla a che fare con tutto ciò.
Non è nazionalista perché il nazionalismo borghese vuole reprimere la lotta di classe e trasformarla in guerra fra le nazioni e i popoli, mentre noi rivendichiamo l’autonomia dello spazio nazionale proprio per ricostruire l’autonomia politica dei lavoratori e per stabilire nuovi rapporti cooperativi con gli altri popoli (sono il globalismo e il cosmopolitismo borghesi, piuttosto, a generare il peggior nazionalismo, mettendo in competizione reciproca i territori).
Non è sovranista nel senso classico del termine. Certo, concepiamo il recupero della sovranità come presupposto fondamentale della vita politica di un popolo e come condizione elementare dell’esercizio delle sue facoltà democratiche (condizione non a caso incorporata nelle Carte costituzionali). Ma il sovranismo puro e semplice usa tutto ciò soltanto per riottenere la flessibilità del cambio e la facoltà di battere moneta: cose utili e necessarie tuttalpiù a ridare un po’ di fiato alle Pmi, mentre la piena occupazione e una ripresa stabile dell’economia italiana richiedono quegli elementi di socialismo a cui abbiamo fatto cenno in precedenza .
Infine non è rossobruna perché non propone un mix di idee eterogenee, come fanno i populismi che amano definirsi né di destra né di sinistra, ma un’esaltazione dei temi più classici e forti della sinistra del passato (e del futuro): autorganizzazione sociale e lotta per il potere politico, democratizzazione dello stato (il farsi stato delle classi subordinate, cosa ben diversa dall’entrare nello stato così com’è), attacco al dominio del capitale: il tutto calibrato sul contesto concreto e specifico nel quale si agisce, ossia sul contesto nazionale (perché le classi subordinate possono lottare e vincere solo nei territori in cui vivono, mentre non hanno strumenti per confrontarsi con il capitale su quell’arena globale che è di sua esclusiva pertinenza). Ogni reale esperienza di emancipazione popolare avvenuta sotto una bandiera rossa ha assunto una forma nazionale: quelli che esaltano la lotta nazionale e socialista dell’Unione Sovietica antinazista, della Cina, del Vietnam, di Cuba e del Venezuela, mentre bollano coloro che anche da noi assumono una prospettiva del genere con l’appellativo infamante di “nazionalsocialisti”, non hanno capito nulla delle condizioni di subalternità del paese in cui vivono.
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Il compito di un movimento socialista, nazionale e popolare non è facile. Le guardie bianche dell’europeismo, presenti in forze anche nella sinistra radicale, paventano catastrofi ogni volta che si parla di Italexit: “inflazione, vendetta dei mercati, spread, recessione!”. E’ patetico vedere gente che vuole superare il capitalismo ma ritiene insuperabile un’unione monetaria. Gente che vorrebbe fare una rivoluzione talmente beneducata da non suscitare reazioni controrivoluzionarie. Gente che mentre ammette che l’Unione europea si regge ormai solo sul ricatto, sulla paura, sulla minaccia della disoccupazione e della fame, continua a difenderla come l’ultimo baluardo della democrazia. Ma la polemica contro queste contraddizioni non deve farci sottovalutare i problemi. La lotta per l’autonomia nazionale, se ben intesa, va infatti a colpire il meccanismo decisivo della subordinazione di lavoratori italiani, ossia la collocazione del paese in un ordine geopolitico euroatlantico che garantisce le condizioni di dominio del capitale. Dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una lotta durissima che modifica elementi costitutivi degli ultimi settant’anni di storia nazionale. Perché vada a buon fine sono necessarie due cose: la capacità di unire saldezza strategica e duttilità tattica, e la capacità di costruire un movimento che sia veramente popolare.
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Ciò che oggi rende attuabile la proposta di ridefinire la collocazione internazionale del paese è il radicale mutamento dello scenario mondiale, è la prospettiva di un ordine multipolare, è quella rinazionalizzazione della politica che non è una invenzione sovranista ma il risultato dialettico della globalizzazione, l’inevitabile reazione al suo carattere gerarchico e distruttivo. Dentro un contesto del genere la riconquista dell’autonomia nazionale è possibile anche per una media potenza regionale come l’Italia, militarmente debole ma geopoliticamente ed economicamente rilevante. Di più, è necessaria, perché quando si ha una posizione rilevante o la si gestisce autonomamente si è inevitabilmente gestiti da altri. Ma una gestione autonoma può avvenire solo ad alcune condizioni. Prima di tutto l’autonomia va interpretata non come indifferenza ai rapporti internazionali ma come libertà di scegliere i rapporti più confacenti agli interessi del paese. È poi necessario disegnare uno spazio in cui sia possibile attuare una politica di tipo socialista, ossia uno spazio relativamente aperto agli scambi internazionali ma chiuso ai movimenti incontrollati del capitale finanziario. Il momento della rottura con Bruxelles deve insomma essere accompagnato da un progetto di unione euromediterranea che unisca e rafforzi i paesi oggi più danneggiati dall’Unione europea. Ma proprio perché una tale unione sia duratura, e quindi si basi su una mediazione comprensiva di tutte le posizioni, è necessario definire quell’interesse nazionale che oggi è intrecciato a quello dei lavoratori, e che proprio per questo viene eluso o tradito dall’attuale ceto politico. Si tratta di una operazione complessa che richiede la presenza di un gruppo dirigente coeso e capace di grande elaborazione strategica, ma anche di notevole mobilità tattica. Mobilità necessaria sia perché il nostro è un paese minore che inevitabilmente dovrà appoggiarsi ora all’uno ora all’altro dei contendenti, sia perché i contendenti saranno numerosi, dovendosi aggiungere al conflitto Est-Ovest anche il conflitto tra Stati Uniti ed Europa a trazione tedesca. Nel momento della rinazionalizzazione del conflitto chi rifiuta di essere nazione viene fagocitato dagli altri: privo di consistenza nazionale, il nostro paese potrebbe solo scegliere fra l’egemonia di Berlino e quella di Washington. Essere nazione è oggi un destino, un destino che può essere declinato in modi assai diversi: pro o contro i lavoratori, pro o contro la pace. Il rifuggire dalla questione nazionale non è soltanto lo sport preferito dall’internazionalismo astratto, ma è l’arma prediletta dalle nostre classi dominanti che servono forze esterne per meglio asservirci all’interno.
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La riconquista dell’autonomia nazionale, soprattutto se viene fatta coincidere con l’autonomia di classe, troverà avversari forti e risoluti. Avremo perciò bisogno del consenso e dell’unità della larga maggioranza dei cittadini italiani. Consenso ed unità che non si ottengono, oggi, facendo riferimento alla sola identità di classe, ma facendo appello alla lotta dei molti contro i pochi ed ai valori di una Costituzione che dei molti si fa portavoce. Non si può tentare di riavvicinare Nord e Sud se non facendo appello, oltre che all’interesse economico e geopolitico, al vincolo solidaristico costituzionale, alla consapevolezza di essere un popolo che vive un destino comune. Non si può costruire un’alleanza stabile tra lavoratori e Pmi se alla precisa definizione dei divergenti interessi e della loro mediazione non si accompagna l’idea di una lotta comune contro uno stesso avversario. Ma non possiamo unire nemmeno gli stessi lavoratori se non capiamo che essi oggi non si percepiscono come classe, ma come un insieme di individui che sperimentano forme di lavoro e di reddito eterogenee, unificati soltanto dal fatto di essere un popolo che è opposto ai potenti e chiede una svolta politica che lo liberi dal loro dominio incontrastato. “Popolo” e non “classe”, “politica” e non “fabbrica”: un passo indietro rispetto al confronto diretto tra operaio e padrone, ma un passo avanti nella comprensione del carattere immediatamente politico-statuale della lotta.
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Un programma politico nazionalpopolare prende le mosse dai provvedimenti necessari a riaffermare la dignità del lavoro e la dignità del paese. Tali provvedimenti (che qui non possono essere dettagliati) hanno tutti a che fare con la necessità di risolvere il nodo storico di un apparato statale che ha quasi sempre funzionato contro i lavoratori. Si riassumono quindi nel progetto di ricostruzione democratica dello stato come attore strategico della ricostruzione sociale ed ambientale, della politica di piena occupazione e della nuova politica estera. Al neoliberismo che ha concentrato i poteri dell’esecutivo come vettore delle decisioni comunitarie e invece frammentato le funzioni economico-sociali dello stato a beneficio della privatizzazione e del mercato, si deve opporre il decentramento del potere esecutivo (o meglio il suo controllo da parte del parlamento e da parte di autonomie comunali/provinciali – più efficaci e meno costose delle attuali regioni) e la centralizzazione delle funzioni economico-sociali, anche attraverso il superamento della sussidiarietà e la revisione del federalismo (da ripensare in una prospettiva più rispettosa delle specificità meridionali, sul modello delle costituzioni bolivariane). Tale centralizzazione è necessaria per ridurre sprechi, inefficienze e intrecci con la criminalità, e per restituire all’attore statale la funzione di stimolo decisivo allo sviluppo e di meccanismo irrinunciabile di redistribuzione. Tale centralizzazione, infine, non è sinonimo di verticismo autoritario. Non soltanto perché il processo decisionale pubblico deve prevedere obbligatoriamente la consultazione delle parti sociali interessate, ma soprattutto perché semplificando e rendendo identificabili e visibili i centri della decisione, si dissolvono le nebbie della governance e si consente una vera ed efficace contestazione del potere. Si consente cioè la formazione di quelle autonome e democratiche istituzioni popolari che, tutelate da norme costituzionali ma giuridicamente esterne allo stato per evitare connivenze, devono costruire il contraltare dialettico necessario ad attuare il controllo sugli inevitabili rischi di degenerazione di qualunque apparato statale: istituzioni popolari i cui poteri devono essere sanciti da una vera e propria assemblea Costituente. La dinamica del nuovo sistema sarà così assicurata dalla dialettica tra uno stato autorevole ed una società indipendente, nella quale, tra l’altro, le associazioni civiche cesseranno di gestire direttamente i servizi – e dunque di essere conniventi con lo stato – e torneranno alla loro funzione di rappresentanza e tutela di interessi diffusi.
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Vanno aggiunte due considerazioni utili ad evitare che anche questo programma, come è finora avvenuto per ogni programma di sinistra, divenga indigeribile per il popolo. La prima riguarda il fisco, la seconda l’immigrazione. Il finanziamento della nuova attività pubblica deve essere assicurato da un mix di fonti, (risorse esistenti, Cassa depositi e prestiti, pubblicizzazione del sistema bancario e, in prospettiva, monetizzazione del debito) e non deve e non può scegliere come via maestra quella dell’inasprimento fiscale. Quest’ultimo infatti, nel momento attuale, darebbe un altro duro colpo alla piccola impresa (ed ai lavoratori che da essa dipendono o che comunque vivono di redditi misti) e spaventerebbe la pletora dei piccoli proprietari immobiliari e dei risparmiatori (che sono spesso gli stessi lavoratori) i quali temono tutti gli aumenti delle tasse, anche quelli che inizialmente sembrano colpire solo i più ricchi. Occorre puntare, soprattutto in un primo momento, sull’aumento della base imponibile e non sull’aumento delle tasse. Quanto all’immigrazione, bisogna unire la necessaria regolarizzazione dei migranti oggi presenti (prima di tutto attraverso il superamento della Bossi-Fini), con la regolazione dei flussi. La seconda non è possibile senza la prima, perché senza la regolazione e la riduzione dei flussi vengono a mancare le condizioni sociali, economiche e politiche della regolarizzazione. E la regolarizzazione stessa non deve essere motivata dai sentimenti umanitari che giustamente ci guidano, ma dalla considerazione, condivisibile anche da coloro che non sono sensibili ai richiami solidaristici, che proprio per la tutela del lavoro e della sicurezza di tutti è necessario che i migranti siano sottratti alla clandestinità, e quindi al ricatto del lavoro nero e della criminalità. Le sinistre irridono e disprezzano i timori delle masse popolari nei confronti dei flussi migratori ignorando che il degrado delle periferie dove lavoratori autoctoni e migranti vivono fianco a fianco è un problema reale, così come è reale il dumping sociale che i capitalisti favoriscono per alimentare e sfruttare una guerra fra poveri. Negare questi problemi, e adagiarsi sui propri splendidi valori civici ed umanitari, invece di affrontarli concretamente da una prospettiva che promuova l’unità fra i più deboli, significa regalare l’egemonia su ampi strati popolari ai populismi di destra che cavalcano la rivolta xenofoba (la xenofobia – che è paura dell’altro e non coincide necessariamente con il razzismo, altrimenti dovremmo ammettere che milioni di lavoratori italiani sono razzisti – può essere politicamente superata, al contrario del razzismo). Se non si comprendono l’insicurezza e l’incertezza esistenziale indotte dalla precarizzazione del lavoro e della vita, se non si comprendono l’ansia ed il bisogno di protezione che da ciò derivano, si resta prigionieri di un atteggiamento illuminista e non si può ricostruire nessuna “connessione sentimentale” con le masse.
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Una visione nazionalpopolare non può ridursi a una tendenza culturale da coltivare e diffondere nella sinistra esistente: essa deve separarsi da tale sinistra e proporsi come soggetto autonomo. Non è più tempo di “europeismo critico”. Non è più tempo della inutile dialettica tra “moderati” e “radicali”. E’ tempo di una forza politica autonoma, capace di essere all’altezza della forma internazionale della lotta di classe, oggi dispiegata in tutta la sua ampiezza ed in tutte le sue contraddizioni. Ovviamente siamo assai lontani da un simile obiettivo: per ora bisogna fare l’inventario delle forze, coordinarle, affinarle. Oggi è più adatta allo scopo una associazione politico-culturale che si dia il compito di approfondire le proprie ipotesi e di sperimentare forme di intervento, o almeno di presenza, nei momenti più significativi dello scontro sociale. Un’associazione sufficientemente larga da consentire una ricca discussione, ma finalizzata a costruire progressivamente una forte unità di intenti e prospettive. Un’associazione che ovviamente ricerca la relazione dialettica con eventuali gruppi analoghi e convergenti, ma che prima di tutto tenta di offrire una prima forma organizzativa ad una nuova idea, perché questa cominci ad assumere un’esistenza concreta.