L’analisi, dal punto di vista strutturale, contenuta nell’articolo che riporto di seguito, è sicuramente condivisibile e anche demistificatoria, per quanto mi riguarda, tipica di un approccio marxista dialettico rigoroso, qual è quello di Eros Barone.
Tuttavia, proprio la situazione contingente caratterizzata da quella totale assenza di “autonomia di classe” (conseguenza della totale assenza di coscienza di classe da parte dei ceti sociali subordinati) che lo stesso autore sottolinea, imporrebbe forse una maggiore flessibilità (che non ha nulla a che vedere con il trasformismo e l’eclettismo) non tanto nell’analisi (che è sostanzialmente corretta) quanto nell’approccio, nella capacità di entrare in una relazione dialettica con quelle masse popolari che – del tutto “disarmate” ideologicamente e politicamente – hanno indirizzato (come poteva essere altrimenti?…), o meglio, “consegnato”, i loro consensi al M5S e in parte alla Lega. Quest’ultima però, a differenza del M5S, è una forza squisitamente reazionaria e identitaria di destra, onde per cui i margini di “recupero” (termine improprio ma ci capiamo…) di quei settori popolari che ad essa si sono rivolti o dalla quale sono stati egemonizzati, sono relativamente scarsi, anche se nulla deve essere lasciato al nemico e il campo non va mai abbandonato (anche con i residuali settori popolari che ancora rivolgono i loro consensi al PD bisogna avere la capacità di interloquire…).
E’ altresì vero che l’interclassismo dei 5 Stelle ha ben poco a che vedere con la costruzione di quel fronte popolare, cioè l’alleanza fra ceti operai e popolari e piccola (e anche media) borghesia in funzione anticapitalista, di gramsciana memoria. Appunto perché la costruzione di quell’alleanza presupponeva una autonomia di classe (dei lavoratori, della classe operaia, dei ceti popolari) che rendeva la classe operaia e il movimento operaio organizzato politicamente egemoni e trainanti, anche e soprattutto rispetto a quei ceti piccolo e medio borghesi che nella loro tradizionale oscillazione (dovuta alla loro stessa condizione di classe) sceglievano, obotorto collo, di “essere a traino”. E’ quindi inevitabile, purtroppo, che in totale assenza di autonomia e di coscienza di classe, quell’interclassismo di cui sopra diventi di fatto un minestrone indistinto tenuto insieme da una serie di “valori” (anche in larga parte concettualmente condivisibili…) quali onestà, legalità, lotta al privilegio, trasparenza della cosa pubblica, efficienza (comunque del sistema capitalistico, che ovviamente non viene certo messo in discussione dal M5S…) ma anche, nello stesso tempo, da una legittima richiesta di stato sociale, salario, lavoro, protezione sociale. Spinte e controspinte – come vediamo – che tengono insieme, in mezzo a tante contraddizioni, piccola e media borghesia, piccola e media imprenditoria e ceti popolari, operai, impiegati, lavoratori salariati, precari, disoccupati.
Il collante ideologico di questa forza intrerclassista non è certo la trasformazione in senso socialista della società e del mondo. E però è con questa realtà che dobbiamo fare i conti ed è all’interno di quelle contraddizioni di cui sopra che è necessario “tuffarsi”, proprio per cercare di ricostruire con il tempo una relazione con le masse popolari e ricostruire quell’autonomia di classe che deve essere l’obiettivo strategico principale. La condicio sine qua non per la costruzione di “equilibri più avanzati”, come avremmo detto una volta. Un lavoro estremamente difficile al quale però non ci si può sottrarre, se si ha a cuore la ricostruzione di un nuovo soggetto realmente socialista e di classe
Fabrizio Marchi
Di seguito, l’articolo di Eros Barone:
“Per comprendere l’evoluzione (o l’involuzione) della situazione politica del nostro paese, occorre prendere le mosse dalla ristrutturazione dei ‘vincoli esterni’ (UE, USA e BRICS) che, oggi come non mai, ne condizionano il decorso. Da questo punto di vista, la legge di bilancio del governo per il 2019 e l’uso politico delle variabili economico-finanziarie (lo ‘spread’ e il ‘rating’) sono lo specchio fedele di contraddizioni e conflitti del tutto interni alle diverse frazioni della borghesia capitalistica , legati a contrastanti indirizzi politici concernenti il rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica mondiale ha infatti acuito le fratture esistenti nel sistema capitalistico sia a livello verticale, tra la grande impresa monopolistica e la piccola e media produzione nazionale, sia a livello orizzontale, tra le diverse frazioni (industriale, finanziaria, commerciale) del grande capitale. Pur con tutte le mediazioni che ancora si interpongono (ma che sono destinate a ridursi via via che lo scontro si inasprisce), la Lega e il Movimento 5 Stelle sono per l’essenziale, in quanto “nomenclatura di classi sociali” (Gramsci), l’espressione di tali contraddizioni.
L’attuale fase politica si situa dunque nel quadro di una “crisi organica” della mediazione istituzionale di tipo tradizionale e segna una nuova tappa dello sforzo che da tempo vede impegnate alcune frazioni del blocco dominante sul terreno della ricerca di un’alternativa endosistemica al l’europeismo, cioè alla subordinazione dell’eurozona all’asse capitalistico franco-tedesco, quale si è espressa attraverso il ‘connubio’ dei due partiti (PD e FI) con cui, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, le classi dominanti, ‘giocando’ sulla regolazione del vincolo europeistico, hanno realizzato una certa unità e difeso i loro interessi economici.
È questa la cifra che contraddistingue la natura di classe del governo M5S-Lega e fa di esso non solo un prodotto meccanico ma, entro certi limiti, un fattore attivo, dotato di una relativa autonomia, dello scontro che è in corso all’interno della borghesia italiana. Le elezioni del 4 marzo, con il voto di protesta che in esse si è manifestato, hanno fornito infatti alle frazioni ‘dissidenti’ del capitalismo italiano, protagoniste di quello sforzo e della conseguente ricerca di un’alternativa di sviluppo e di espansione del capitalismo italiano, l’investitura di massa che sostiene (e sosterrà per un tempo presumibilmente non breve) l’attuale governo. È infatti palese che quest’ultimo, dati i rapporti di forza esistenti, il trasformismo dei suoi esponenti (basti pensare al passaggio repentino della Lega dall’alleanza di centrodestra a quella con il M5S), il livello di consenso popolare e la tendenza internazionale in cui si inserisce (il protezionismo a trazione statunitense), può ricavare il massimo vantaggio sia dalla sua permanenza al vertice del potere esecutivo che dalla sua eventuale fuoriuscita. Su questa base politico-elettorale, che una consultazione anticipata non farebbe che confermare e rafforzare, e sulla percezione, ingannevole ma diffusa, di un ruolo antagonistico nei confronti di quell’‘establishment’ di cui, a livello politico-governativo, il PD e la sinistra opportunista sono stati l’emanazione e lo scudo, poggia l’illusione del “governo del cambiamento”, abilmente alimentata dalla stambureggiante propaganda di Di Maio sulla nascita della cosiddetta “Terza Repubblica”.
Sennonché, nell’individuare la reale natura di qualsiasi forza politica, occorre distinguere, come insegna il metodo marxista, tra la base di massa e la base sociale. Così, se da un lato il vasto consenso interclassista raccolto dalla Lega e dal M5S non può determinare, di per se stesso, un cambiamento radicale nell’indirizzo politico del paese, dall’altro sono invece i reali interessi di classe, che si sono agglutinati attorno a questo nuovo ‘connubio’ realizzato all’insegna del populismo e del nazionalismo, ciò che imprime al programma e all’azione di governo di queste forze piccolo-borghesi un carattere schiettamente antioperaio. Basti pensare al tema del lavoro e del precariato, relativamente al quale la volontà del governo è quella di non abolire il ‘Jobs Act’, assecondando in tal modo le imperiose richieste della Confindustria, la quale, dal canto suo, ha intimato che non siano toccate le misure del governo Renzi e venga quindi garantita la continuità con le politiche antipopolari degli ultimi decenni (dal pacchetto Treu alla legge Biagi). Al contrario, non solo con il condono si garantisce l’impunità fiscale ai sabotatori dello Stato sociale, ma con la ‘ flat tax’ si opera, in base alla teoria iperliberista dello “sgocciolamento” esplicitamente evocata da Salvini, la drastica riduzione delle tasse per i ricchi, non certo per i lavoratori. Lo stesso reddito di cittadinanza, che la Confindustria si guarda bene dall’osteggiare, si configura come una riforma liberista, cioè come una manovra macroeconomica di sostegno alla domanda che servirà a incentivare il consumo, consentire nuovo deficit e rendere tollerabile proprio quella situazione di precarietà e insicurezza lavorativa che è stata creata dalle riforme di questi anni. In definitiva, considerando anche il modo con cui vengono affrontate le questioni della casa, della scuola, delle pensioni e dell’unità nazionale (è in atto, sotto un governo presuntivamente nazionalista e senza che il fenomeno susciti la benché minima reazione di rilievo nell’opinione pubblica, la secessione di alcune tra le regioni più ricche del nostro paese: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), non vi è dubbio che al centro dell’azione del “governo del cambiamento” vi siano, conformemente agli interessi di classe che costituiscono la sua base sociale, la riduzione del costo del lavoro e la creazione di margini sempre più ampi per la ricerca del massimo profitto ad opera delle imprese di qualsiasi dimensione.
Se l’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro è l’obiettivo principale di tale governo, il corollario che ne deriva necessariamente è la duplice volontà di impedire, per un verso, la saldatura tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati e di isolare, per un altro verso, le comunità degli immigrati con una politica di discriminazione etnica e sociale basata su un ‘mix’ di militarizzazione del territorio, gerarchia razziale, vessazioni amministrative e ideologia securitaria. Come sempre, il massimo sfruttamento della forza-lavoro è indissociabile dal processo galoppante di fascistizzazione, lo richiede e ne è sostenuto, come dimostra lo stesso slogan “prima gli italiani”, che viene utilizzato quale maschera grossolana della vera parola d’ordine: “prima i profitti” (laddove la funzione svolta dai dirigenti del M5S, ‘partito liquido’, rispetto alla Lega, partito pesante, è quella di ‘utili idioti’ del processo di fascistizzazione).
Ma veniamo alle vere determinanti dell’avvento e dell’azione del governo Lega-M5S, determinanti che sono di natura internazionale. Da questo punto di vista, occorre innanzitutto osservare che le contraddizioni, di cui Lega e Cinque Stelle sono espressione, non traggono origine solo dai contrasti della piccola e media impresa con i monopoli internazionali, ma anche da una divisione interna alle principali frazioni del grande capitale stesso , che si riflette nella scelta delle alleanze internazionali. In effetti, oltre ai gruppi dominanti che sono saldamente agganciati alla duplice prospettiva del mercato comune europeo e della fedeltà alla NATO vi sono settori che guardano con crescente interesse ad una prospettiva di cooperazione dell’Italia con la Russia, con la Cina e, più in generale, con l’area dei cosiddetti paesi BRICS. D’altra parte, la strategia di attacco frontale contro la Russia e l’Iran, praticata dal presidente nord-americano Trump, incide soprattutto sugli interessi di una parte del capitale europeo, che a causa delle sanzioni contro questi paesi vede posta a repentaglio la possibilità di ingenti profitti. Si tratta di un conflitto di interessi tra i grandi monopoli statunitensi e il capitale italiano ed europeo, che ha per oggetto l’interscambio commerciale e tecnologico con paesi importanti come la Russia, la Cina e l’Iran, e come vincolo costrittivo il “sistema delle sanzioni” . Ciò spiega l’orientamento sempre più deciso di alcuni settori della grande impresa italiana in direzione di mercati diversi da quello statunitense (si pensi al peso assai rilevante dell’interscambio tra Italia e Iran) . Fermo restando che l’alleato politico-militare privilegiato del nostro paese sono gli USA, va comunque rilevato che la scelta di una differente dislocazione sul piano politico-economico rispetto al sistema delle alleanze tradizionali è ancora minoritaria fra i settori dominanti del capitale italiano, ma ha guadagnato molto terreno fra la media e la piccola borghesia le quali, sotto la sferza della crisi e a causa dell’assenza di un movimento operaio capace di esprimere una posizione autonoma, polarizzano e inglobano in questo orientamento anche ampi settori del proletariato.
A ciò si aggiunge un altro fattore di tensione che produce crescenti frizioni all’interno dello schieramento atlantico sull’indirizzo economico e politico da perseguire, contribuendo ad aggravare lo scontro fra i monopoli statunitensi e quelli tedeschi. A questo proposito, si pensi alle trattative sul TTIP, bloccate dalla contrarietà della Germania, e alla conseguente introduzione, da parte degli USA, dei dazi doganali per l’acciaio e l’alluminio, che rendono concreta lapossibilità di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea e pongono all’ordine del giorno la realtà di una competizione sempre più dura fra i grandi monopoli dei diversi poli imperialisti con tutte le ripercussioni che ciò non può non determinare sull’indirizzo che prenderanno i governi dei diversi paesi europei. In questo senso, il risorgere di forti pulsioni nazionaliste e imperialiste è strettamente correlato alla posizione che occupano nel quadro internazionale quei settori del capitalismo italiano che cercano di liberarsi dai vincoli sempre più costrittivi imposti dal sistema di alleanze atlantico e a questo scopo utilizzano il nazionalismo come strumento per la costruzione del consenso, puntando, per un verso, a dirottare il malcontento dei lavoratori sul ‘nemico interno’ (gli immigrati) e, per un altro verso, sul ‘nemico esterno’ (tedeschi, francesi ecc.).
In conclusione, sia per i settori dominanti che per i settori ‘dominati’ del blocco capitalistico si pone il problema di un equilibrio dinamico da conseguire mediante un compromesso tale da implicare per i primi la rinuncia, in nome degli “interessi generali” di tale blocco, ad uno scontro frontale con i secondi e quindi una scelta neogiolittiana di ‘addomesticamento’ del populismo sovranista, mentre per i secondi si pone la necessità di un ridimensionamento tattico dell’opzione anti-europeista attraverso una manovra che, correndo il rischio di un ‘effetto-Tsipras’ e giocando sul peso dell’Italia quale terza potenza economica dell’Europa, punti ad estendere i margini per una politica di maggiore autonomia. Quale che sia l’esito dello scontro che è in corso, resta, comunque, fondamentale e vitale per il movimento di classe l’esigenza di preservare la propria autonomia rispetto alle diverse frazioni della borghesia capitalistica, rifiutando di accodarsi all’una o all’altra di esse e perseguendo l’unica politica che meriti di essere perseguita: l’unità di tutti gli sfruttati nella lotta contro il capitalismo, per il socialismo”.
Note
Per il concetto di “crisi organica” cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1977, pp. 1602-1604.
Questa distinzione concettuale è il cardine dell’analisi svolta da Palmiro Togliatti nelle ormai classiche Lezioni sul fascismodel 1935 tenute alla “Scuola leninista” di Mosca (cfr. Idem, Corso sugli avversari. Lezioni sul fascismo, Einaudi, Torino 2010).
Da tempo segnalo nei miei interventi pubblici, per usare una famosa metafora, la maturazione dell’uovo nel ventre del serpente, ossia il galoppante processo di fascistizzazione dell’Europa, che si sta compiendo sotto l’apparente involucro democratico. D’altronde, i coefficienti e gli ingredienti della fascistizzazione ci sono tutti: dissolta l’ URSS, nel mondo ormai c’è solo una potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, che accentuano sempre più il loro dominio; l’oggettiva debolezza della classe operaia, connessa alla disoccupazione e al precariato diffuso, smorza qualsiasi tentativo di opporsi ai disegni padronali (solo in Italia i lavoratori precari sono quasi tre milioni, senza contare il ‘continente sommerso’ del lavoro nero); la marginalità della sinistra; la mobilitazione reazionaria della piccola borghesia e del sottoproletariato. È cosa nota che, quando i lavoratori sono deboli nei luoghi di lavoro, è più facile l’affermarsi di un movimento/regime apertamente autoritario, la cui sostanza è simil-fascista, anche se non si fregia di svastiche e di gagliardetti. Il fascismo non è un incidente di percorso della storia, esauritosi con la fine di Hitler e di Mussolini, né un semplice strumento delle classi dominanti, ma è un dèmone ìnsito nella natura stessa del capitalismo, e quando e dove ci sono le condizioni si ripresenta puntualmente. Diversamente, i colonnelli della Grecia del 1967, la dittatura di Videla nell’Argentina del 1972 e il Cile di Pinochet del 1973, oltre agli altri regimi sanguinari del Sudamerica di quegli anni, non ci hanno insegnato nulla. E nulla ci ha insegnato il colpo di Stato nazifascista avvenuto in Ucraina nel 2014. Lo Stato di diritto, la Costituzione e la stessa democrazia borghese non sono affatto irreversibili. Forze potenti lavorano per creare “le condizioni della guerra e del fascismo”.