Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Per la libertà di pensiero
1. Una lenta erosione
Assistiamo
da molto tempo, nei paesi occidentali, a una lenta erosione del
fondamentale principio della libertà di pensiero, intesa
naturalmente come libertà di espressione pubblica delle opinioni.
Nel 2024 abbiamo assistito, per fare qualche esempio, all’arresto
di Pavel Durov, fondatore del “social” Telegram, e a iniziative
repressive contro le proteste nei confronti della politica
israeliana, iniziative che assumono modalità diverse nei vari paesi
ma sembrano avere in comune l’accomunare la critica alle politiche
israeliane con l’antisemitismo. Il catalogo dell’intolleranza
contemporanea è però, purtroppo, molto più vasto, e comprende per
esempio alcuni aspetti di quello “spirito del tempo” che viene
genericamente indicato con termini quali “politicamente corretto”,
“wokism”, “cancel culture”. Un recente notevole esempio in
questo senso è rappresentato dalle contestazioni verso il film “Ultimo
tango a Parigi”, che hanno portato alla cancellazione di una
proiezione prevista in una sala cinematografica della capitale
francese.
In
sostanza, l’intolleranza contemporanea è presente in versioni sia
“di destra” sia “di sinistra”, e va quindi indagata appunto
come una espressione dello “spirito del tempo”.
Per
fissare un punto di partenza di questa deriva, almeno per quanto
riguarda l’Europa, si può forse indicare la legge francese del
1990, legge Gayssot, che fra le altre cose rendeva reato la negazione
dell’esistenza del genocidio subito dagli ebrei ad opera del
nazismo. Questa legge è stata poi imitata, in un modo o nell’altro,
da molti paesi europei. Sicuramente tale legge non è la prima, in un
paese occidentale, a colpire la libertà di opinione: basti pensare,
in Italia, alla legge Scelba. La legge Gayssot mi sembra però
significativa perché è stata imitata, in forme diverse, in vari
paesi europei, e soprattutto perché essa colpisce non tanto una
posizione politica sgradita, ma proprio la pura e semplice
manifestazione di un’opinione: negare il genocidio ebraico, di per
sé, è solo un’opinione relativa a fatti storici e non sottintende
nessuna particolare posizione politica, tanto che sono esistite
correnti di estrema sinistra (ultraminoritarie anche all’interno
dell’estrema sinistra, s’intende) che sostenevano tale opinione.
Insomma, la legge Gayssot esprime esattamente la volontà politica di
rendere reato una mera opinione. Ovviamente, l’intenzione che la
sottendeva era quella di colpire un’area politica, quella
dell’estrema destra, ma il fatto che questa intenzione politica si
sia manifestata come creazione di un puro reato di opinione mi sembra
un aspetto molto significativo, tanto da giustificare il fatto di
prendere tale legge come punto di inizio simbolico dei fenomeni di
cui s’è detto. Senza voler ripercorrere qui tutte le tappe di
questa evoluzione, possiamo però notare un aspetto importante: i
provvedimenti come la legge Gayssot proibiscono una opinione precisa
e ben determinata, ed è quindi difficile che, da soli, possano
essere usati per un attacco generalizzato alla libertà di opinione.
La tendenza più recente della cultura dominante è invece quella di
sollevare discredito sociale verso chi esprime opinioni sgradite
usando nozioni del tutto generiche, sfocate, mai chiaramente
definite, come “discorso d’odio”, “fake news”,
“mainsplaining”. Il discredito sociale in questo modo creato può
poi essere usato per rendere accettabili provvedimenti legislativi di
ulteriore restrizione della libertà di opinione. Si tratta di una
strategia molto chiara, da parte dei poteri dominanti: poiché
nozioni come quelle sopra indicate sono assolutamente vaghe, non
possono essere usate come base di una precisa accusa se non ne viene
in qualche modo specificato il contenuto. Di conseguenza, tutto il
gioco sta nel decidere, di volta in volta, che cosa sia “discorso
d’odio” o “fake news”: e ovviamente questo potranno farlo
i poteri dominanti che dispongono di molteplici modi per influenzare
i media e la magistratura. La creazione di reati di opinione, specie
se vagamente definiti, è quindi uno strumento significativo per il
tentativo, da parte dei ceti dominanti, di mantenere il proprio
potere in una situazione di declino sociale generalizzato come è
quella attuale.
2. Perché
è un problema
Queste
tendenze sono davvero molto pericolose, perché la libertà di
opinione ha un carattere fondamentale, tanto più in una fase storica
come quella attuale. Spendiamo qualche parola su questo.
Il
primo punto da sottolineare è del tutto ovvio: le nostre sono
società democratiche dove le decisioni vengono prese a partire dalle
discussioni nell’arena pubblica. Ovviamente le decisioni
democratiche, prese a maggioranza, per definizione quasi mai
soddisferanno tutti; ma la minoranza insoddisfatta sa di aver potuto
liberamente manifestare e argomentare le proprie opinioni, e
soprattutto sa che, grazie a questa libertà, ha la possibilità di
diventare maggioranza nelle discussioni e decisioni future. È questo
il meccanismo che permette di mantenere i conflitti su un terreno di
politica democratica, evitando che essi degenirino in
contrapposizioni violente e, al limite, in una guerra civile. La
libertà di pensiero, in una società democratica, ha dunque un
carattere costitutivo e fondante, ed è chiaro che ogni sua
limitazione presenta dei rischi che non possono essere taciuti.
Quanto
appena detto rappresenta un argomento valido in generale per le
nostre società democratiche, senza relazione ad una situazione
specifica. È però necessario dare maggiore concretezza al discorso,
e quindi mettere in relazione il problema della libertà di pensiero
con quello del presente declino e del futuro probabile collasso
dell’attuale organizzazione sociale capitalistica. Ho discusso
questa tema in altri interventi, quindi non ripeterò qui l’analisi
che mi porta a pensare probabile un collasso sociale generalizzato.
Basti solo un accenno al fatto che l’attuale organizzazione sociale
capitalistica, ormai estesa al mondo intero, vive una fase in cui si
intrecciano una crisi economica (dalla quale non si intravede via
d’uscita), una crisi di egemonia (che sta portando a nuove guerre)
e una crisi degli ecosistemi terrestri, ormai avviata, che non verrà
affrontata con le misure necessarie perché queste sono incompatibili
con la logica capitalistica del profitto e della crescita illimitata.
È ragionevole pensare che l’intreccio di queste crisi porterà, in
tempi non lunghissimi, al collasso dell’attuale organizzazione
sociale.
Inserita in questo contesto, la necessità della libertà di pensiero appare ancora più evidente. Infatti, una crisi generalizzata come quella che ci aspetta mette in questione l’intero apparato concettuale della nostra civiltà: le ideologie dominanti (cioè, negli ultimi decenni, il neoliberismo) che hanno accompagnato la società nel suo percorso suicida, ma anche le ideologie cosiddette critiche, magari sedicenti rivoluzionarie, che non hanno saputo bloccare tale percorso. Di fronte ad un collasso di civiltà, il fatto di aver espresso istanze critiche può forse portare ad un giudizio morale positivo su una persona, ma non toglie che il giudizio sulla sua ideologia sia un giudizio di fallimento, analogo a quello che si deve dare verso le ideologie dominanti. Ma se la situazione è quella di un fallimento completo delle ideologie disponibili, “mainstream” o “critiche”, è chiaro che è necessaria la ricerca il più possibile spregiudicata di nuovi apparati concettuali, che siano in rottura netta con quanto li ha preceduti. Ed è chiaro che tale ricerca ha bisogno della massima apertura e libertà, per poter essere portata avanti. La libertà di pensiero è cioè un prerequisito indispensabile se vogliamo sperare di trovare una strada umana e sensata attraverso le rovine dell’attuale organizzazione sociale. Detto altrimenti: oggi, di fronte al collasso prossimo venturo, per trovare una via di uscita è necessario poter pensare e dire anche cose estreme. Impedirlo è solo un aiuto al sistema di potere che ci ha portato in questa situazione. Il che non significa, naturalmente, che ogni opinione estrema sia utile o condivisibile. L’obiezione che si sente tipicamente ripetere, di fronte ad argomentazioni a favore della libertà di pensiero come quelle sopra svolte, consiste nel sostenere che è necessario escludere la possibilità di espressione di opinioni aberranti, assurde o moralmente ignobili, e che tale esclusione non inficia in nessun modo la possibilità di una discussione razionale nell’opinione pubblica. Si tratta di un’opinione apparentemente ragionevole, ma che può essere confutata, e per questo si può partire dai casi cui abbiamo accennato all’inizio, cioè dal fatto che in vari paesi europei si è molto ristretta la possibilità di esprimere solidarietà ai palestinesi e contrarietà alle politiche israeliane. Queste restrizioni sono giustificate a partire dall’accusa di antisemitismo rivolta a chi si mobilita contro le politiche israeliane. È naturalmente ovvio che l’antisemitismo fa parte di quelle opinioni ripugnanti che sembrerebbe possibile escludere dal dibattito pubblico senza grave nocumento per il dibattito stesso. Ma questo esempio dimostra che non è così, perché a partire dalla proibizione dell’antisemitismo si arriva a proibire l’antisionismo, e più in generale ogni possibile obiezione radicale alle politiche israeliane. Dovrebbe essere ovvio che antisionismo e antisemitismo appartengono a livelli logici differenti, perché il rifiuto del sionismo è il rifiuto di una ideologia politica, quindi non ha in sé nulla di razzista e non ha in sé nulla a che fare con l’antisemitismo che è il razzismo contro gli ebrei. Ma quello che succede è invece che un immenso apparato mediatico da decenni spinge all’identificazione di antisionismo e antisemitismo, fino ad arrivare appunto alla situazione cui abbiamo accennato. Il punto è che una simile deriva è difficile da evitare quando si cominciano a proibire le opinioni, perché le idee non sono chiuse in asettiche provette di laboratorio, ma sono collegate da mille legami vitali alla totalità pulsante della cultura di una società. “Il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare”, come cantava Lucio Dalla. In altri termini, se si decide di proibire una serie di ripugnanti opinioni A,B,C,D, quando si presenta sulla scena del dibattito politico e culturale una opinione sgradita al potere, sarà sempre possibile mobilitare l’apparato mediatico e intellettuale asservito al potere stesso e trovare un modo di collegare E a una delle opinioni reiette, in maniera intellettualmente onesta o disonesta (più probabile la seconda possibilità). Riprendendo il discorso svolto sopra, osserviamo che questo sarà particolarmente facile se per le opinioni proibite vengono usate categorie del tutto generiche e indefinibili come “discorsi d’odio” o “misoginia estrema”, e non è un caso che categorie di questo tipo siano sempre più diffuse nel dibattito pubblico.
Se questo discorso appare astratto, per renderlo concreto basta pensare a quanto detto sopra, cioè a come la “potenza di fuoco mediatico” del sistema informativo dominante sia riuscita a rendere accettabile l’equiparazione fra antisionismo e antisemitismo, delegittimando in questo modo ogni critica alle politiche israeliane. È facile rendersi conto che altre operazioni di questo tipo sarebbero realizzabili senza grosse difficoltà, se si rendessero necessarie. Proviamo per esempio a fare l’ipotesi che nei prossimi tempi sorga, nei paesi occidentali, un significativo movimento di contestazione del capitalismo attuale e che esso nasca con forti riferimenti alla tradizione marxista. Si tratta certo di un’ipotesi molto lontana dalla realtà, ma ci serve qui come esperimento mentale. Un tale movimento sarebbe ovviamente attaccato in molti modi diversi ma, se per caso la nozione di “discorso d’odio” diventasse davvero una fattispecie di reato, uno di tali modi sarebbe quello di denunciare come “discorso d’odio” il principio, fondamentale nel marxismo, della lotta di classe. E ovviamente non sarebbe difficile andare a pescare, in più di un secolo e mezzo di produzione letteraria marxista, una enorme quantità di citazioni esaltanti la violenza rivoluzionaria o l’odio di classe. Se si trattasse di una discussione accademica sarebbe certo possibile discutere caso per caso, spiegare, contestualizzare, ma nel vivo di uno scontro politico, e avendo accettato la creazione di una tale fattispecie di reato, il risultato sarebbe, con ogni probabilità, quello che vediamo accadere oggi nei confronti delle contestazioni alla politica israeliana.
Se
tutto questo è chiaro, una conclusione si impone: poiché chi vuole
opporsi alla deriva suicida della nostra società non ha minimamente
la “potenza di fuoco” dell’apparato mediatico al servizio del
potere, è chiaro che non c’è modo di difendersi da questi
indebiti collegamenti, una volta che si sia accettata l’idea che
alcune opinioni estreme o ripugnanti debbano essere proibite. Vi è
quindi una sola posizione razionale da prendere: il rifiuto di ogni
reato di opinione, ovvero assoluta e totale libertà di pensiero e di
opinione. Qualsiasi opinione ha diritto ad essere espressa. Le leggi
eventualmente reprimono le azioni che possono nascere dalle opinioni,
non le opinioni stesse.
3.
Declino di una civiltà
Una
volta chiariti i motivi per i quali ritengo che la più assoluta
libertà di pensiero sia una condizione necessaria per affrontare la
spirale autodistruttiva nella quale si stanno muovendo le società
contemporanee, occorre affrontare il problema se sia concretamente
possibile un’azione politica a difesa della libertà di pensiero.
Sembra purtroppo evidente il fatto che non esistono forze politiche
disposte a impegnarsi concretamente in questo senso. Le forze
politiche interne al sistema (centrodestra e centrosinistra), che si
alternano nei governi dei paesi occidentali, non si differenziano
molto su questi temi, come non lo fanno sul resto: in sostanza,
ciascuna forza politica chiede libertà di espressione per la propria
area ma, appena ne ha l’occasione, chiede restrizioni e limitazioni
nei confronti dell’area avversa. Si tratta di forze del tutto
interne all’attuale sistema di potere attuale, che ne seguono
pedissequamente la corrente, e non hanno quindi nessuna intenzione di
opporsi alle politiche di restrizione della libertà di pensiero,
visto che esse rappresentano appunto una delle tendenze di fondo del
potere attuale.
Se
non ci si può aspettare nulla dalle forze politiche maggioritarie di
destra o di sinistra, si potrebbe allora pensare che una simile lotta
potrebbe essere combattuta dalle minoranze anticapitalistiche:
dopotutto, le posizioni anticapitalistiche sono quelle a maggior
rischio di repressione, e la repressione utilizzerà i meccanismi
descritti in precedenza in riferimento alle polemiche su
Palestina/Israele. Poiché le posizioni antisistemiche sono oggi
ultraminoritarie, una simile battaglia dovrebbe cercare di allargare
il più possibile lo spettro delle alleanze, rivolgendosi a tutti
coloro che hanno a cuore l’idea della libertà di pensiero, che
possono essere per il resto molto lontani dall’anticapitalismo. E
affinché siano possibili queste alleanze, è ovvio che deve essere
allontanato ogni sospetto di doppiezza o ambiguità. Bisogna cioè
che chi lotta per la libertà di pensiero non dia spazio al minimo
sospetto di “essere come gli altri”, cioè di essere come coloro
che vogliono la libertà di pensiero per “i miei” ma vogliono la
repressione “per quegli altri”. In altri termini, l’unica base
possibile di una autentica alleanza per la libertà di pensiero non
può che essere, come abbiamo più volte ribadito, la richiesta della
più totale e assoluta libertà di pensiero e di espressione per
tutti, anche per le idee più lontane dalle proprie e più assurde e
ripugnanti. Per essere chiari, e per rispondere finalmente
all’obiezione che i lettori avranno già da sé stessi formulato :
sì, anche i nazisti. Anche le idee naziste hanno diritto alla
libera espressione. Naturalmente, appena la libera espressione delle
idee diventa una concreta azione che viola le leggi, essa deve essere
repressa, con durezza proporzionale alla gravità della violazione.
Ma questo vale per l’estrema destra come per chiunque altro.
Una
volta enunciato questo punto fondamentale, è facile capire perché
il mondo anticapitalista, il mondo della sinistra radicale, non farà
mai una seria lotta politica per la libertà di pensiero. L’estrema
sinistra è un mondo di piccole comunità identitarie, e quello che
conta in esse non è l’elaborazione concreta di linee politiche
praticabili, ma la rappresentazione della propria identità. Una
componente essenziale di tale identità è proprio l’idea che
l’estrema destra non ha diritto a esprimersi e bisogna cercare di
impedire, anche fisicamente, ogni sua manifestazione. Si tratta di un
elemento identitario rispetto al quale l’estrema sinistra è
incapace di autocritica, perché esso ha un valore essenziale: serve
a rimuovere dalla coscienza la sostanziale impotenza di quest’area
politico-culturale. L’estrema sinistra vuole il socialismo, la
rivoluzione, il comunismo, ma non li ha mai ottenuti e non li otterrà
mai. Impedire fisicamente una iniziativa di un qualche gruppuscolo
fascista serve a credere di esistere, di fare qualcosa. Se l’estrema
sinistra rinunciasse a queste inutili sciocchezze, dovrebbe
confrontarsi col proprio secolare fallimento, e questo ovviamente non
lo può fare.
È
chiaro allora che una politica di difesa del principio della assoluta
libertà di pensiero non ha nessuna speranza di essere presa in
considerazione nel mondo anticapitalista, e in definitiva non c’è
nessuna speranza che una forza politica significativa faccia propria
la lotta per una autentica libertà di pensiero e di opinione.
Tale assenza di una forza politica che lotti per la libertà di opinione rispecchia, a mio avviso, una realtà sociale significativa: il fatto cioè che vi sono ampi strati sociali per i quali la libertà di opinione non è più un valore primario. Questo fenomeno mi sembra rappresenti un mutamento importante nello “spirito del tempo”. L’Occidente si definisce da secoli come la civiltà della libertà e in particolare della libertà di pensiero. Il fatto che la corrosione di tale libertà non trovi un contrasto, ma sia anzi in risonanza con settori non trascurabili della popolazione, mi sembra rappresentare un ulteriore indizio di un generale processo di dissoluzione dell’attuale civiltà.
Fonte articolo: https://www.badiale-tringali.it/2025/01/per-la-liberta-di-pensiero-e-di.html