Qualche tempo fa passando davanti un negozio di abbigliamento la mia attenzione venne immediatamente richiamata da una serie di magliette esposte, di certo non a caso, sullo scaffale posizionato di fronte l’entrata.
Sui capi in questione campeggiava a chiare lettere la parola “FEMMINISTA”.
Restai ferma ad osservare per qualche minuto la patetica scena in cui un gruppetto di mamme con figlie adolescenti super alla moda, con tanto di orecchino al naso, capello semirasato e colorato, cominciarono eccitatissime a cercare la taglia delle magliette. Mi sembrò di avere di fronte la misura del delirio collettivo al quale stiamo assistendo in quest’epoca.
Nella mia testa iniziai a portare avanti un ragionamento partendo dall’assunto che, per ovvie ragioni, l’obiettivo primario di una catena di negozi è quello di vendere quanti più prodotti possibile adattandosi e seguendo le mode e lo spirito del tempo, ben sapendo che, come vedremo più avanti, questo metodo sta alla base delle strategie di marketing più utilizzate dalle aziende. Proseguendo il ragionamento in modo superficiale sarebbe potuta sorgere una domanda:
come mai il femminismo, sedicente movimento di lotta contro ogni tipo di oppressione e mercificazione del corpo e dell’estetica femminile, entra continuamente in “contraddizione” con tali rivendicazioni e, invece di rifiutarne l’utilizzo strumentale che ne viene evidentemente fatto, non perde occasione per trarre giovamento da dinamiche che si muovono sugli stessi binari del commercio?
Era però già evidente ai miei occhi che, in realtà, questa contraddizione è solo apparente e che il rientro in termini di profitto è tanto positivo per l’azienda venditrice quanto lo è per il femminismo.
L’utilizzo massivo delle metodiche commerciali, mediate oggi anche da canali tecnologici sempre più avanzati, ha innegabilmente permesso al femminismo di “modernizzare” e ampliare la sua diffusione, agevolandone di fatto l’affermazione come spirito dominante del nostro tempo.
Questo è il risultato raggiunto dopo anni di subdola propaganda (portata avanti anche grazie agli strumenti messi a disposizione dal capitalismo) che ha impregnato di tutto, dai modelli comportamentali ai prodotti commerciali.
Ogni cosa è femminista, a partire dalle trame dei film e delle serie TV, passando per i capi d’abbigliamento (come nel caso delle magliette) e per tutta quella miriade di beni di consumo creati ad arte secondo la logica del “pinkwashing”, uno specchietto per le allodole utile a vendere qualcosa illudendo il consumatore che comprandola stia contribuendo alla causa dell’emancipazione femminile.
Aziende e multinazionali sanno bene che proprio le donne sono delle accanite consumatrici e questa analisi di mercato incentiva la messa in commercio di prodotti con il chiaro scopo di indurle a pensare che il loro è un consumo “per giusta causa”. Non a caso ormai moltissime pubblicità cavalcano l’ondata rosa, inserendo continuamente temi come l’empowerment femminile, la bodypositivity (anche questa solo femminile), l’emancipazione sessuale e l’indipendenza economica dall’eventuale partner, il tutto per vendere merce di ogni genere.
Una sfilata perpetua di:
– donne in carriera al volante di un SUV, ibrido o elettrico – sia chiaro – per toccare nel frattempo il culo alla Green Economy e a Greta Thumberg;
– donne manager che, tornate a casa dal marito casalingo e auspicabilmente “mammo”, con un sorriso ipocrita che nasconde derisione, sottolineano le sue incapacità culinarie e risolvono la cena ordinandola al delivery;
– donne ansiose e depresse a causa del marito, del figlio adolescente, del capo, del gatto (ah, no, forse quello è l’unico maschio tollerabile della sua esistenza) che si fanno consigliare ansiolitici e antidepressivi dal farmacista di fiducia per affrontare questo mondo difficile che non tiene in considerazione il loro universo;
– donne adolescenti che coltivano l’attitudine a diventare imprenditrici di se stesse rivendendo i loro abiti usati – comprati probabilmente con lo stipendio del papà – tramite un’app creata a tale scopo;
– donne che scaricano app di incontri al fine di trovare l’uomo giusto, bello ricco e potente, salvo poi scoprire che non sempre (aggiungerei per fortuna!) esiste lo zerbino perfetto.
L’elenco purtroppo potrebbe essere più lungo, ma concludo con un unico esempio, a mio avviso paradigmatico, di quella che invece è l’immagine maschile che emerge dalle pubblicità: l’uomo di mezza età che tenta di inventare scuse poco credibili per nascondere alla moglie un problema alla prostata e lo fa, evidentemente, per timore di incassare da quest’ultima un giudizio svilente sulla sua virilità. Rappresentazione che conferma l’evidente intento di declassare la figura maschile – da sempre bersaglio per eccellenza dell’ideologia femminista – e che mira a demolirne ogni suo aspetto, primo tra tutti, appunto, quello della virilità. Peccato che nel frattempo non è raro sentire affermare, del tutto contraddittoriamente, che “non esistono più gli uomini di una volta”. Ma questo è un altro discorso.
Il punto evidente è che la vendibilità di qualsivoglia prodotto ormai passa per un unico filtro, quello dei (falsi) bisogni femminili.
Partendo dall’analisi odierna è comunque necessario rilevare che, in quanto ad attitudine strumentale al consumismo capitalista, anche i primi movimenti per l’emancipazione femminile avessero per certi versi dato chiari segnali sulla loro inclinazione a ricoprire un ruolo ancellare.
In tal senso mi viene da pensare alla nota storia di un certo Edward Bernays, propagandista al soldo del governo americano e delle sue multinazionali, nonché nipote di Sigmund Freud, che nel 1929 venne ingaggiato per aiutare un noto marchio di sigarette ad aumentarne gli introiti economici. Bernays propose a tale scopo, sulla base degli studi di psicologia inconscia dell’illustre zio, una strategia manipolatoria che ebbe come destinatario finale le donne e come mezzo per arrivare a loro il movimento di emancipazione femminile dell’epoca. In effetti quale veicolo migliore per intercettare l’interesse della popolazione femminile, allora ancora poco avvezza ai vizi del fumo rispetto agli uomini?
In occasione della partecipatissima parata di Pasqua a New York di quell’anno fece infiltrare un gruppo di donne selezionate con il compito di fumare a comando, a favor di giornalisti, ribattezzando quelle sigarette “torce della libertà” – in diretto riferimento alla statua simbolo della città – così da rivendicare pubblicamente, attraverso quel gesto, la loro libertà appunto.
Inutile dire che la strategia di utilizzare l’effetto emulativo che un gesto simbolico produce inconsciamente sulle masse ebbe successo, e l’obiettivo desiderato fu raggiunto: la multinazionale aumentò gli introiti economici, un’altra fetta di mercato era stata conquistata e da quel momento gran parte delle femministe e delle loro simpatizzanti cominciarono a fumare, orgogliose della libertà di poterlo fare. Anche in Italia, subito dopo il ’68, il numero delle fumatrici aumentò, passando da meno del 10% a oltre il 20%.
Quell’esperimento fu uno dei primi a sancire l’inizio dell’applicazione di questa strategia di marketing che punta sul cavalcare lo spirito dei tempi per aumentare le vendite.
Oggi come allora funziona essenzialmente allo stesso modo e quelle magliette appaiono essere l’ennesima prova provata della strettissima connivenza tra l’ideologia femminista e il capitalismo, un sistema perfetto che si autoalimenta e che gode dei frutti che l’uno offre all’altro.
Non bisogna mai dimenticare che il capitalismo crea nuovi bisogni allo scopo di generare profitto e al contempo individua nuovi nemici al fine di preservare se stesso, deviando così l’attenzione da un inevitabile, ma quantomai necessario, conflitto tra classi sempre più diseguali.
Fonte foto: Digital Shirt (da Google)