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L’uscita dell’Inghilterra dalla UE è la dimostrazione dell’impossibilità della formazione di una federazione di stati europei sul modello degli USA. Più volte abbiamo riportato le posizioni di Lenin, della Luxemburg e di Bordiga, che giudicarono tale ipotesi o impossibile o reazionaria. L’idea di una soluzione bismarckiana o cavouriana, per cui uno Stato con la guerra unifica diversi paesi, si presentò anche per l’Europa, e fu sconfitta. Napoleone, entro certi limiti erede della rivoluzione francese, dove arrivò con la sua legislazione favorì lo sviluppò di una moderna borghesia, ma il suo tentativo di arrivare ai confini dell’Europa s’infranse contro la riserva della reazione mondiale, la Russia zarista. L’altro tentativo di unione con la forza, condotto da una borghesia ormai ultrareazionaria, fu quello di Hitler, ma non poteva riuscire perché, più che di unificazione si trattava di colonizzazione, giacché Hitler introdusse in Europa quei metodi terroristici che gli imperi europei avevano utilizzato contro le popolazione africane, asiatiche e con gli indiani d’America. Se è stata impossibile l’unificazione con la forza, a maggior ragione lo è quella mediante accordi tra Stati. Nel secondo dopoguerra, ci fu il tentativo inglese, col trattato di Bruxelles, firmato da Belgio, Francia, Olanda, Lussemburgo e Regno Unito, ma fu ben presto assorbito dalla NATO. “Le potenze firmatarie del trattato di Bruxelles passarono quindi dalla coalizione europea alla più vasta coalizione rappresentata dall’Alleanza atlantica ed è chiaro che nello stesso tempo il centro di gravità si spostò da Londra … a Washington. Storicamente, non è azzardato affermare che la creazione della NATO significò l’abdicazione delle vecchie potenze occidentali di fronte agli USA e il declino dell’Europa come sede del dominio del mondo” 1 . L’Inghilterra fondò nel 1960 l’EFTA (European Free Trade Association), un’associazione di libero scambio, alla quale aderirono Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e l’anno dopo la Finlandia. Poi Macmillan tentò di aderire al mercato comune, insieme con Danimarca e Irlanda, ma si scontrò con l’opposizione di De Gaulle, che vedeva nell’Inghilterra il cavallo di Troia degli USA. Morto il generale, nel 1973 si giunse ad un accordo. Edward Heath si procurò una folta schiera di inglesi francofoni per collaborare al lavoro comune e si presentò con un discorso in francese, che un giornalista definì “commovente” per lo sforzo compiuto, a riprova che, quando si tratta di affari, i borghesi inglesi sono pronti a tutto, persino a parlare francese. Nel 1975 un referendum diede una larga maggioranza ai fautori dell’ingresso. La piccola borghesia ha tessuto infiniti sogni a proposito dell’Unione europea, e ora, delusa e infuriata, corre a rispolverare i tempietti del culto nazionalistico, come largamente prevedibile. Ci preoccupa, invece, l’illusione di molti compagni, che credono ancora possibile uno stato federale europeo, e parlano di un imperialismo europeo, contro cui chiamare alla lotta il proletariato. In realtà – e lo si è ripetuto cento volte – bisogna parlare di imperialismi europei, francese, inglese, tedesco, italiano … tutti con gradi diversi di subordinazione rispetto al capobanda di Washington. I politici italiani, a furia di inginocchiarsi di fronte al governo americano, hanno i calli alle ginocchia come i cammelli, mentre Inghilterra, Germania, Francia sono più considerate, ma non pienamente autonome. La centralizzazione nella UE è in funzione di una crescente subordinazione a Wall Street e alle multinazionali, la burocrazia europea ne è la cinghia di trasmissione, e non di un autonomo centro imperiale europeo. D’altra parte, meglio così: abbiamo già gli USA, che possono intervenire praticamente ovunque per schiacciare eventuali insurrezioni e persino tentativi di riforma, e la situazione diventerebbe ancora più intollerabile se sorgesse in Europa un secondo centro di pari peso internazionale le cui condizioni stanno cambiando rapidamente, anche grazie all’iniziativa inglese. La Brexit non è frutto di una rivolta popolare contro la finanza e le multinazionali, non è una pura ribellione di xenofobi e misoneisti contro la parte colta e cosmopolita della società. E’ il segno di una frattura all’interno della borghesia occidentale, non soltanto europea. Donald Trump ha definito “fantastico” che gli elettori del Regno Unito “si siano ripresi indietro il proprio Paese”. Senza l’appoggio di almeno una parte della classe dirigente americana sarebbe stato impossibile indire il referendum e vincerlo. Obama, che è intervenuto pesantemente nella campagna con minacce neppure tanto velate, ha subito una grave sconfitta. La causa fondamentale della Brexit è da ricercare nella crisi economica, che è lungi dall’essere risolta, ma vi si aggiunge, a livello politico e sociale, l’insofferenza di molti settori produttivi e finanziari verso la politica del governo Obama tendente a isolare l’Europa da Russia e Cina, ed a fomentare guerre e tensioni ai confini d’Europa (Ucraina) e sulle grandi via commerciali terrestri (Siria, Iraq) o marittime, sempre allo scopo di impedirne od ostacolarne i rapporti diretti con Russia e Cina. La servile burocrazia europea ha fatto propria questa politica, trasformando l’Europa in una galera di popoli, costringendola a tagliare rapporti economici essenziali con le sanzioni. Ad altri paesi gli USA riservano un migliore trattamento non intervenendo a bloccare i rapporti commerciali di Israele ed Arabia Saudita con le stesse Russia e Cina. L’Inghilterra tenta il Brexit – bisognerà vedere se le forze che lo hanno proposto e quelle che nascostamente lo appoggiano riescono ad imporsi fino in fondo – non perché sia un paese isolazionista, o perché i vecchi egoisti abbiano tradito i loro nipoti, che sarebbero europeisti. Sono tutte corbellerie che divulga un partito trasversale, che per comodità chiameremo “atlantico”, e che in Italia ha il suo massimo esponente in Napolitano. I giovani inglesi, in gran parte, non sono andati a votare, e l’Inghilterra è il paese più internazionale – un “internazionalismo da commercianti” – e mal si adatta alla gabbia, rinforzata da basi Nato, in cui il governo americano e la succube burocrazia europea hanno chiuso il continente. Il consenso di Washington va bene, purché non danneggi gli affari. Intanto, per agire nel mercato dello yuan, Londra ha già firmato accordi con la Banca centrale della Cina. I primi risultati sembrano positivi per il capitalismo inglese, e la borsa di Londra, dopo il contraccolpo iniziale, sta andando bene. Marcello Foa scrive: “Si dirà: ma la sterlina è caduta! E le agenzie di rating hanno abbassato il valore dei titoli di Stato britannici. Nessuna sorpresa: la valuta è molto più volatile della Borsa e si presta molto di più ad attacchi speculativi, che però sembrano essersi già fermati. Quanto alle agenzie di rating sono le stesse che davano la tripla A ai mutui subprime e non sono proprio indipendenti; diciamo che sono da sempre molto sensibili agli interessi dell’establishment, quell’establishment che ha reagito con una rabbia forsennata al Brexit … La realtà è che la Gran Bretagna se ne esce dalla Ue, ma a crollare sono le Borse dei Paesi che restano nell’Unione.”2 . Zero hedge commenta: “… le 400 persone più ricche del mondo hanno perso 127,4 miliardi di dollari mentre i mercati azionari globali annaspavano alla notizia che gli elettori inglesi decidevano di lasciare l’Unione europea. I miliardari hanno perso il 3,2 per cento del loro patrimonio netto totale, portando la somma combinata a 3,9 trilioni di dollari, secondo l’indice Bloomberg dei miliardari. La perdita peggiore la subiva la persona più ricca d’Europa, Amancio Ortega, che ha perso più di 6 miliardi di dollari, mentre gli altri nove hanno perso oltre 1 miliardo di dollari, come Bill Gates, Jeff Bezos e Gerald Cavendish Grosvenor, la persona più ricca del Regno Unito. Ironia della sorte, si scopre che quando George Soros minacciava «La Brexit vi renderà tutti poveri, fate attenzione» ciò che intendeva veramente era «che mi renderà più povero».” 3 . Si pensa, a torto, che l’avversario mortale del Brexit sia la Merkel. In realtà, pur col rituale rammarico per la decisione inglese e un retorico richiamo allo spirito dei fondatori e del Trattato di Roma, ha chiesto sostanzialmente a Londra di fare presto, ma senza controfirmare i diktat di Juncker. Gli Stati Uniti non sono più quella calamita che con la sua ricchezza attirava nella sua orbita paesi importantissimi. Ora, per dominare, devono ricorrere apertamente alla forza. La nuova calamita è la Cina e verso di essa tendono tutti i settori non direttamente succubi della politica di Obama, e della sua versione peggiorata, rappresentata dalla Clinton e dalla Nuland. La borghesia europea e americana, quindi è divisa, ma nessun esponente del movimento operaio pensi di appoggiare un settore contro l’altro, con una ricerca del meno peggio. Entrambi i settori sono assolutamente imperialisti e antiproletari. Bisogna, invece, approfittare delle divisioni della borghesia per far rinascere le organizzazioni di classe. Purtroppo come accade spesso, una delle condizioni per la ripresa del movimento operaio, una frattura politica nella classe dirigente, è presente soprattutto in Inghilterra, mentre un’altra grande condizione, la combattività operaia, è presente soprattutto in Francia, anche se è deviata dalla burocrazia sindacale. Cameron ha indetto il referendum, non perché costretto da correnti di opposizione, ma per forze presenti nel suo stesso partito. Sul futuro della UE ci sono varie ipotesi: quella di Thierry Meyssan: “Contrariamente a quanto spiega la stampa europea, la separazione dei britannici dalla UE non si farà affatto lentamente, perché l’Unione europea crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per la loro uscita. Gli stati del Comecon non hanno avuto da negoziare la loro uscita perché il Comecon ha smesso di funzionare una volta iniziato il movimento centrifugo. Gli Stati membri della UE che si aggrappano ai rami e continuano a salvare quel che resta dell’Unione non riusciranno ad adattarsi alla nuova situazione con il rischio di sperimentare le convulsioni dolorose dei primi anni della nuova Russia: caduta vertiginosa del livello di vita e della speranza di vita.”4 . La differenza tra la situazione dell’URSS e quella della UE, però, è notevole. Per quanto riguarda l’URSS, i governi di USA ed Europa volevano farla crollare, mentre Washington ha interesse a tenere unita la UE in una situazione di grande debolezza e a subordinarla sempre più alla Nato. Il processo di disgregazione continuerà, ma, probabilmente, non sarà così rapido come suppone Meyssan. L’ipotesi di Nazanín Armanian: “L’uscita di GB aumenterà il potere di una Germania che sta ampliando la sua influenza nello scenario mondiale. I suoi militari già partecipano a una trentina di missioni anche nel convulso Vicino Oriente. La GB potrà avvicinarsi ancor di più agli USA, creando un contrappeso all’associazione franco tedesca … il Brexit debilita la UE come attore globale… La perdita di una GB con potenza nucleare ridurrà le capacità di dissuasione della UE, per cui aumenterà la dipendenza militare verso Washington…” Ma ci sono anche altri aspetti: “Gli USA hanno 688 milioni di dollari di investimenti in GB … GB era la principale voce (altri direbbero La Quinta Colonna) di Washington a Bruxelles e il suo braccio destro nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Entrambi i paesi si vedranno forzati a consolidare le «relazioni speciali»… Il prossimo presidente USA cercherà di stabilire un maggior controllo su una UE che sprofonda in una crisi economica, politica e di identità. .. il Pentagono esigerà dagli alleati della Nato di aumentare le quote che devono pagare, anche se conosce la grave situazione economica e sociale che soffrono paesi come Spagna e Grecia …”5 . La UE ha diverse possibilità: cercare di approfittare del Brexit per accelerare il processo di unificazione. E’ la via di Juncker, che ha dato i risultati disastrosi che sappiamo e che porterebbe a ulteriori defezioni. Un’altra via sarebbe di trasformare la UE in una zona di libero scambio e, al massimo, in una blanda confederazione. E’ improbabile che sia scelta questa via, che potrebbe garantire alcuni anni in più di sopravvivenza. Comunque, nessuna illusione. Non sappiamo se avverrà in tempi brevi o a medio termine, ma la prognosi per la UE è infausta. Per mettere in rilievo il carattere bizantino della UE, è utile considerare la discussione in corso sull’uso dell’inglese negli organismi comunitari: non si tratta di una vendetta della Perfida Albione, ma di un’autopunizione masochistica del burocratismo comunitario: “Ancora negli anni ’90, gli affari a Bruxelles, conferenze stampa comprese, andavano avanti su due binari paralleli: inglese e francese. Negli ultimi vent’anni, l’opzione-francese è scomparsa. Non solo è finanche difficile pensare ad un parlamentare o a un funzionario lettone o svedese che parlino, invece che inglese, francese, dovendo anche iniziare a studiarlo da zero. Ma tutta l’attività politica e legislativa avviene formalmente in inglese. Nel senso che documenti, rapporti, comunicati, delibere vengono anzitutto, faticosamente, discussi, contrattati, definiti in inglese. Solo poi vengono tradotti nelle altre lingue … Ma con le regole attuali non c’è alternativa, spiega la Huebner. Non c’è più nessun paese a chiedere l’inglese come lingua ufficiale della Unione. E gli irlandesi? Hanno scelto il gaelico. I maltesi? Il maltese. Senza inglesi, niente lingua di Shakespeare. Così impone l’articolo 342 del Trattato, in base al quale Malta o Irlanda non possono chiedere due lingue ufficiali. L’ultimo – e inatteso – colpo di coda della Brexit sarebbe lasciare una Unione che funziona quotidianamente in una lingua – l’inglese – ma dove tutto ciò che ha veste ufficiale deve essere in francese. O in tedesco. Per sfuggire al caos occorre cambiare l’articolo 342, cioè il Trattato, con un processo lungo, complicato, tortuoso e pieno di insidie, necessariamente unanime, referendum compresi (difficile prevedere il risultato di un referendum in Francia sull’uso dell’inglese). Molti governi preferirebbero, probabilmente, la Torre di Babele a questo percorso minato”. 6 . Nascerà il mercato clandestino delle traduzioni in inglese vendute a caro prezzo? Si può essere più ridicoli? L’inglese di Bruxelles – aggiunge l’articolo – non è lo stesso parlato a Londra, perché molti termini non sono interpretati in modo corretto. Anche in questo, Renzi non è isolato. I proletari non hanno bisogno di attendere che le borghesie europee si uniscano, visto che queste non sono neppure in grado di capirsi, ma devono stabilire solidi legami fra loro, non attendere che l’avversario crei le condizioni per l’unificazione dei proletari. Al tempo della Prima Internazionale, le possibilità di contatto, di comunicazione e di trasporto erano infinitamente inferiori alle attuali, eppure sorse un vincolo molto forte, che coinvolse, non solo l’Europa, ma anche gli Stati Uniti. Gli strumenti politici con cui le borghesie del mondo, a cominciare da quelle europee e americane, s’impiccheranno ci riguardano ma solo fino a un certo punto. L’essenziale è capire che, si dividano o si uniscano, non preparano certo il terreno per la riscossa proletaria. Solo prendendo le distanze da questi processi storici che riguardano i nostri avversari, riguadagneremo l’autonomia di classe.
1 “Il mito dell’Europa unita”, il Programma Comunista, nn. 11 e 12 del 1962.
2 Marcello Foa,“Se la Gran Bretagna fosse un Paese sull’orlo della catastrofe, la sua Borsa dovrebbe crollare. Invece a crollare sono le borse dei paesi dell’unione”. Il giornale, 5 luglio 2016.
3 “La vera «catastrofe» della Brexit: i 400 più ricchi del mondo perdono 127 miliardi di dollari”, Zerohedge 25 giugno 2016.
4 “Il Brexit ridistribuisce la geopolitica globale. Nulla potrà più impedire il collasso UE. Tuttavia, in gioco non è la stessa UE, ma tutte le istituzioni che permettono il dominio USA nel mondo. [Thierry Meyssan] 25 giugno 2016, megachip globalist
5 Nazanín Armanian, “20 impactos políticos del Brexit”, Punto y seguido, 28 Jun 2016.
6 Maurizio Ricci, “La Babele europea: la Brexit cancella l’inglese come lingua comune”, Repubblica, 2 luglio 2016.
Fonte: Il De profundis per gli Stati Uniti d’Europa http://www.rottacomunista.org/contributi/Basso/16-07-09_-_DeProfundisPerStatiUnitiEuropa.pdf