Piaccia o non piaccia, il governo che sta per nascere rappresenta senz’altro un avanzamento nella dialettica politica del paese. Sconfitto rovinosamente il PD, messo all’angolo Berlusconi, il centro interpartitico che per anni (complice la benevolenza della Bce) ha ammorbato l’aria impedendo l’emergere dei veri problemi e dei conflitti decisivi è stato finalmente archiviato. Per la prima volta in tanti anni un governo si presenta come espressione diretta della rabbia sociale accumulata durante la lunga crisi, e si presenta con l’obiettivo esplicito di “dare”, ed in modi immediatamente tangibili, invece che con quello di “togliere”. Per la prima volta le tensioni maturate nel fondo della società italiana si danno una forma politica che potrebbe essere almeno parzialmente efficace: la forma può e deve preoccuparci, ma non possiamo ignorare il contenuto.
Si apre così una fase estremamente dinamica e interessante. Durante il percorso del governo qualcuno perderà definitivamente la faccia: o l’Unione europea, o la Lega, o il M5S, o chi li avrà contrastati in nome dell’europeismo. Oppure tutti quanti. Molti preconizzano un più o meno rapido fallimento della coalizione, un crollo a seguito di qualche mossa avventata, una repentina crisi dell’alleanza, un abbandono progressivo degli obiettivi più altisonanti. Può darsi. Ma la valutazione deve essere fatta tenendo presente quello che è, contemporaneamente, l’elemento di forza ed il vincolo del governo: ossia il fatto che la convergenza dei due vincitori del 4 marzo realizza per la prima volta quel fronte sociale tra tutti, o quasi, gli umiliati ed offesi dalla globalizzazione e dall’Unione europea (piccola e media impresa, finte partite iva, disoccupati, precari e fasce crescenti dello stesso lavoro “regolare”: è esclusa, naturalmente, la gran parte degli immigrati) che è la base di ogni possibile avanzamento politico. Anche se questo fronte è sotto l’egemonia della sua parte più forte, ossia delle medie imprese (cosa inevitabile data l’attuale latenza di un credibile progetto socialista), la disperazione degli outsider sociali ha comunque spinto al governo gli outsider politici nella speranza di ottenere da loro l’inizio di una significativa redistribuzione del reddito. Questa speranza sosterrà il governo per un tempo non breve, perché le attuali alternative non sembrano, e non sono, affatto migliori. Ma questa speranza ha anche bisogno di risposte immediate. Il governo godrà quindi, probabilmente, di un consenso politico più duraturo di quanto molti immaginano (e sperano). Ma d’altra parte, per mantenerlo, sarà forzato ad agire, e presto.
E’ la natura sociale dei sostenitori del governo, unita alla valutazione degli effetti politici del suo insediamento, che deve guidarci nel definire il nostro atteggiamento nei suoi confronti. L’idea che circola in alcuni ambienti, e cioè che il governo sia, o prepari, “il fascismo del XXI secolo”, è ovviamente frutto di colpevole ignoranza o di un opportunismo che si prepara ad allearsi con quell’antifascismo liberista e globalista che è la vera matrice del possibile fascismo del futuro. Polemizzare con questa idea è inutile, ma comprendere perché ed in cosa il governo gialloverde è diverso dal governo nero, e rappresenta semmai un’insidia più sottile, ci aiuta a definire quale debba essere il nostro atteggiamento nella complessa fase che si apre (“nostro”: ossia l’atteggiamento di chi deve e vuole costruire una nuova forza socialista capace di crescere all’interno del durissimo scontro attuale). Usando la vecchia, ma spesso utile, scolastica marxista, e distinguendo tra la base sociale di un raggruppamento politico (ossia la classe che mette i soldi e che fornisce quadri, ideologia ed obiettivi) e la sua base di massa (ossia la classe che costituisce il grosso dei sostenitori ed elettori), possiamo dire che, nell’essenza, il fascismo ebbe come base sociale la grande industria di allora (in massima parte protezionista) nonché le gerarchie monarchiche, militari, ecc., ed ebbe come base di massa una piccola borghesia ed un sottoproletariato ferocemente antisocialisti, disposti a distruggere manu militari le organizzazioni proletarie, anche approfittando del riflusso del grande movimento rivoluzionario degli anni precedenti. Il governo gialloverde ha invece come base sociale il composito mondo delle Pmi (generalmente ostile alla grande impresa globalista di oggi) e come base di massa un proletariato ed un semiproletariato che vedono oggi per la prima volta la possibilità di far contare “lassù in alto” le proprie ragioni, in mancanza di un movimento conflittuale di massa e di un’organizzazione alternativa. Questo governo quindi, almeno per ora, non reprime le istanze delle classi popolari, ma in qualche modo ne previene l’espressione autonoma e le organizza in funzione delle necessità della sua base sociale. Ma per farlo al meglio deve offrire a quelle istanze qualche risultato almeno parzialmente soddisfacente: e quell’ “almeno parzialmente” potrebbe essere oggi sufficiente ad aprire un duro scontro con l’Unione europea, ossia con la forma oggi assunta dal dominio di classe delle grandi imprese globaliste.
Questa natura composita e non lineare del governo traspare anche dal suo programma. Un programma veramente popolare, nell’Italia di oggi, dovrebbe darsi come primo e diretto obiettivo la piena occupazione, ossia una cosa che può essere ottenuta soltanto ricostruendo un apparato pubblico capace non solo di aprire i cordoni della borsa, non solo di espandere il settore dei servizi, ma anche o soprattutto di intervenire direttamente ed in prima persona sull’apparato produttivo del paese, assumendosi l’onere della pianificazione strategica e del rinnovamento tecnologico in luogo di un capitalismo privato che, tranne che in alcune fasi, si è rivelato inadeguato al compito, e che oggi si confronta con notevoli ostacoli internazionali. Tale svolta non potrebbe essere finanziata da un inasprimento fiscale, sia perché nessuno è in grado oggi di gestire una guerra di redistribuzione interna, sia perché tale guerra colpirebbe anche le numerosissime figure sociali intermedie che inevitabilmente si rivolterebbero, in questo caso, contro una politica socialista. Un progetto di ricostruzione dell’intervento di stato deve essere finanziato, quindi, per altre vie, ma essenzialmente con la monetizzazione del debito: il che ci porta direttamente alla collisione con Bruxelles. Il programma del governo gialloverde ha invece come obiettivo diretto la ricostruzione dei margini di profitto delle Pmi, e solo come conseguenza indiretta l’aumento dell’occupazione. Come è noto, il perno è la flat tax, e l’idea di fondo è sempre quella: il risparmio fiscale si tradurrà magicamente, oltre che in aumento della propensione al consumo delle famiglie, in aumento della propensione agli investimenti delle imprese. E da ciò deriveranno occupazione, sviluppo, aumento della base imponibile e quindi ulteriore aumento del gettito fiscale: ulteriore rispetto a quanto la semplice introduzione della flat tax dovrebbe generare di per sé, convertendo alla lealtà fiscale anche gli evasori più incalliti. Si tratta sostanzialmente di una versione radicale della vecchia politica dell’offerta (temperata dal fatto che anche alcuni strati popolari trarrebbero un vantaggio immediato dalla riduzione delle aliquote): in questo contesto il ricorso al deficit spending (anche se fosse più corposo di quello proposto nel programma) non inaugurerebbe affatto una nuova stagione keynesiana (la quale peraltro non basterebbe, perché qui non basta la spesa pubblica, ma ci vuole l’impresa pubblica), ma sarebbe soltanto un modo per coprire i buchi di bilancio che inevitabilmente si aprirebbero con la flat tax. Sarebbe la trasformazione delle tasse evitate da qualcuno nel debito di tutti.
Ciò detto, però, bisogna aggiungere due cose, che fanno la differenza rispetto alla classica accoppiata tagli delle tasse + aumento del deficit, inaugurata, se ben ricordo, da Ronald Reagan. Bisogna aggiungere cioè che oggi anche un aumento residuale del deficit è considerato dall’Unione europea contabilmente pericoloso (soprattutto dopo la vittoria dell’Afd in Germania), e che a maggior ragione un aumento del deficit che sia dovuto anche ad una politica di redistribuzione sociale (non importa quanto ingente) diviene contabilmente e forse soprattutto politicamente del tutto inaccettabile. E’ questo mutamento di significato del deficit rispetto alla classica impostazione della destra liberista a costituire (ammesso che il programma venga in qualche modo onorato) la vera caratteristica specifica di questo governo. Esso tenderà dunque, almeno per un primo e non breve periodo, a scontrarsi con Bruxelles sia per sostenere la propria base sociale (flat tax) sia per sostenere la propria base di massa (pensioni e “reddito di cittadinanza”: senza contare gli effetti immediati della flat tax stessa), senza la quale il progetto di ridare fiato alle Pmi è inattuabile.
E’ per questo che il nostro atteggiamento nei confronti del governo non si può risolvere né nell’opposizione “sempre e comunque”, né, al contrario, nell’illusione che Lega e M5S stiano in qualche modo lavorando per noi, ma nella capacità di modulare i nostri giudizi e le nostre risposte. Contrastare gli aspetti inaccettabili del programma (penso ad esempio alla creazione e gestione di “classi pericolose”- fatte non solo di immigrati – come capro espiatorio di possibili fallimenti), incalzare il governo sugli obiettivi di redistribuzione, smascherarlo se e quando la sua opposizione all’Unione europea è puramente verbale, sostenerlo di fronte agli attacchi convergenti di Bruxelles e dei suoi agenti italiani indicando, se ne siamo capaci, strategie di contrattacco diverse da quelle gialloverdi. Sostenere Di Maio?! Sostenere Salvini?! Sì: perché ed in quanto sostenendo loro sosteniamo in realtà le richieste popolari di cui il governo deve, almeno fino ad un certo punto, farsi latore. Se e quando i due verranno attaccati dall’Unione per i loro intenti redistributivi, la difesa sarà d’obbligo, pena perdere per decenni qualunque credibilità di fronte a quella che dovrebbe essere, ed è, la “nostra” gente. Del resto, chiunque abbia giustamente protestato contro le pressioni di Mattarella e degli eurocrati in nome del diritto del popolo italiano a veder insediarsi il governo democraticamente scelto, ha portato con ciò, lo volesse ho meno, la sua pietruzza a sostegno del futuro premier.
La stessa opposizione al governo, quando (e accadrà molto spesso) sarà necessaria, dovrà essere condotta in maniera del tutto diversa da quella abituale, già dimostratasi inutile. Bisognerà infatti cercare di immedesimarsi nell’elettore popolare del governo e rivolgere alla Lega ed al M5S una domanda molto semplice: “vi ho votato per questo e per quest’altro: lo avete fatto? E, se no, perché?”. Ogni altra tirata sul razzismo, sull’autoritarismo, magari sull’ “impreparazione tecnica” del governo non porta da nessuna parte, non incide, non sposta (oltre ad essere molto simile alle critiche dell’establishment): lascia indifferenti i capi a cui è rivolta ed offende gli elettori che con essi si sono identificati. Ogni opposizione che consista nel non lasciar parlare l’uno o nel contestare l’altro è vissuta, da chi ha votato l’uno o l’altro, come una limitazione della propria libertà: è un’opposizione rabbiosa ed impotente, che serve soltanto ad allungare il certificato penale di quelli che vanno in piazza e ad allargare la distanza che li separa dal popolo.
“Va bene tutto,” – mi dirà a questo punto il lettore amico, ma critico – “guarda però che il governo ha già calato le braghe, si è già messo la coda tra le gambe, si è già cosparso il capo di cenere prima ancora di aver peccato. Ti sei accorto o no che la bozza che parlava di uscita dall’euro è stata frettolosamente ritirata e che adesso nel programma si invoca addirittura lo spirito di Maastricht? Lo vedi o no che il sovranismo viene sempre sventolato come soluzione, ma quando si arriva al dunque lo si abbandona perché è impraticabile? O comunque non è praticabile dai Salvini e dai Di Maio?”. Mi permetto di fare al proposito alcune contro-obiezioni. E’ certamente vero che la coalizione di governo non è univocamente e decisamente antiunionista, anzi. E ciò non solo per l’atteggiamento attualmente prevalente nel M5S, giacché anche la Lega ha probabilmente i guai suoi. Premesso che noi dovremmo iniziare a studiare davvero i nostri avversari, mentre finora ci siamo limitati all’invettiva, mi sembra di poter dire che quello delle Pmi non è un blocco omogeneo: ad esempio, le imprese decisamente orientate al mercato interno sono più sicuramente antiunioniste, mentre quelle orientate all’export lo sono di meno. Inoltre ho l’impressione che gli amministratori locali della Lega, in primis quelli delle regioni, non abbiano molto interesse a modificare un contesto nel quale il federalismo il ha fatti comunque prosperare, e ad affrontare un periodo turbolento il cui lo stato centrale potrebbe guadagnare maggior voce in capitolo. A queste forze filounioniste il “monito” di Mattarella ha certamente offerto una sponda, ed il programma di governo ne ha risentito. Però c’è anche altro. Se io fossi al posto loro, ossia al posto dell’agguerrita componente antiunionista del governo, suggerirei esattamente la tattica che sembra trasparire dalle enunciazioni programmatiche. Inizierei cioè a giocare per linee interne, mostrando l’incongruenza e la mala fede dell’Unione rispetto ai suoi stessi assunti (e questo potrebbe essere il senso del richiamo allo spirito di Maastricht, giacché l’asserito scopo di quel trattato era quello di favorire la cooperazione fra gli stati più che l’integrazione gerarchica che poi si è realizzata…). Successivamente, invece di condurre un’astratta battaglia sull’euro (che sarebbe dominata da astratti tecnicismi e astratti terrori), avanzerei sommessamente alcuni degli obiettivi redistributivi, dandone anche, magari, una versione moderata e lasciando all’Unione ed ai suoi servi l’onere di dimostrare a tutto il fronte sociale che sostiene il governo e a tutti i ceti popolari che ancora non lo fanno, che l’Unione stessa non può e non vuole fare nessun passo verso una ragionevole redistribuzione del reddito. E quindi che in certi casi con la buona educazione non si ottiene niente. Il resto seguirebbe.
Ecco: per quanto la correzione di rotta sia stata evidente, la sua rapidità potrebbe essere il frutto non solo dell’attuale prevalenza delle componenti moderate, ma anche della scelta tattica delle componenti radicali. E le domande sociali che stanno alla base del successo gialloverde potrebbero presto accelerare i tempi di quella tattica.
Insomma: la situazione è, a mio avviso, molto più incerta e complessa di quel che può sembrare a prima vista. Dobbiamo attrezzarci a gestire almeno tre scenari diversi. 1) Scenario “ Tsipras 2, ovvero la farsa dopo la tragedia”: il governo, assediato dall’esterno e indebolito dalle tensioni interne, cede di colpo su alcune questioni essenziali. La delusione degli elettori si traduce in sostanziale passività, e i gialloverdi tirano a campare tra molti mugugni e qualche crescente conflitto. 2) Scenario “lunga contesa”: il governo inizia un effettivo contenzioso con l’Unione europea; la Germania, preoccupata dello scontro in atto con gli Usa, antepone momentaneamente le ragioni geopolitiche a quelle strettamente economiche e decide di fare alcune concessioni; il governo ottiene quindi alcuni risultati, e può giustificarne la relativa pochezza (che è però già molto se confrontata agli zeri dei governi precedenti) con la difficoltà della battaglia e con la cocciutaggine dell’Unione. Tutto ciò non può che aumentare la presa dei partiti di governo sulla società italiana, aprendo un ciclo, se non di egemonia stabile, quantomeno di monopolizzazione (e relativa sterilizzazione) della protesta sociale. 3) Scenario “rottura”: rigidità europea, rabbia sociale ed aspettative di mutamento si fondono, e si inizia un processo di exit. A questo punto, se i partiti di governo mostrano capacità di metamorfosi e svoltano verso una assai più incisiva presenza dello stato a tutela delle imprese e dei lavoratori, inizia una duratura egemonia gialloverde sul paese; se invece questa metamorfosi non avviene si aprono spazi sia per l’emergere di forze di destra radicale, sia per una nuova prospettiva socialista.
Ritengo poco probabile il primo scenario: l’entità dello scontro Bruxelles-Italia non sarebbe, almeno all’inizio, pesante come nel caso greco, e in ogni caso mentre la cultura di Tsipras era ed è profondamente europeista, la coalizione governativa è invece attraversata da un diffuso sentimento antiunionista e contiene le capacità tecniche necessarie a gestire la rottura. Tutte cose che rendono l’ipotesi dell’exit ben più concreta e fattibile di quanto non fosse nel caso greco: e Bruxelles non può correre troppo alla leggera questo rischio. Al momento mi sembra più probabile l’inizio di una lunga contesa, che sarà anche una fase di crescente discussione all’interno dei due fronti (governo italiano ed Ue), ed il cui esito è impossibile prevedere.
Questa situazione pone ad una forza socialista – ed ancor più ad una forza socialista che sia solo in gestazione – dei compiti molto ardui. Per affrontare adeguatamente ognuno degli scenari qui tratteggiati sono infatti necessari un alto profilo teorico e politico, una grande capacità di leggere la società italiana ed il suo rapporto con la crisi internazionale, una militanza molto appassionata e preparata, capace di cogliere ogni occasione ed ogni svolta. Anche lo scenario “Tsipras”, che potrebbe sembrare il più favorevole, nasconde in realtà molte insidie. Infatti Tsipras (quello vero) è ancora lì, e rischia pure di essere rieletto: come si vede nemmeno un evidente fallimento spiana la strada ad un’alternativa. Inoltre, nel nostro caso gli Tsipras sarebbero due: e di fronte all’eventuale opportunismo dell’uno, l’altro potrebbe rompere e presentarsi lui come paladino del popolo, svolgendo la funzione che ipotizziamo di svolgere noi. Il secondo scenario richiederebbe la capacità di confrontarsi passo passo col governo, di svelare sempre le ambivalenze ed i limiti degli eventuali successi governativi, di promuovere ed organizzare momenti efficaci di resistenza popolare al disagio che comunque continuerà a crescere. Soprattutto, entrambi gli scenari, ed il terzo ancor di più, ci imporrebbero di definire con molta precisione la nostra differenza rispetto all’ipotesi economica gialloverde. Come abbiamo già visto la spesa pubblica, il deficit, l’intervento di stato possono assumere significati assai diversi. E la stessa rottura con l’euro può avvenire in due modi: un modo liberista, in cui una inflazione ed una svalutazione pur non catastrofiche fanno comunque diminuire i salari e rendono più aggredibili le imprese italiane; ed un modo tendenzialmente socialista, in cui l’interesse nazionale al controllo dei movimenti di capitale e al salvataggio delle imprese in crisi si incontra con l’interesse popolare e di classe alla parziale socializzazione della produzione (estensione della proprietà pubblica e della pianificazione strategica). Bisogna prepararsi ad interpretare correttamente tutti i passaggi di questo inevitabile ritorno del pubblico sapendo, oltre tutto, che sia la Lega che il M5S, forze nuove o rinnovate che si muovono in una situazione nuova, potrebbero essere costrette a significative metamorfosi, proponendo un proprio modello di stato imprenditore (cosa che forse già si apprestano a fare, anche se la banca pubblica a cui si accenna nel programma, pur essendo sufficiente ad innervosire la Commissione europea, sembra più interessata ad erogare i soliti incentivi all’innovazione che ad inaugurare un sano dirigismo).
In ogni caso, hic Rhodus… . Una nuova formazione politica socialista o nasce ora, o cresce dentro queste contraddizioni, o difficilmente potrà germogliare in un’Italia tutta tinta di giallo e di verde (o solo di giallo, o solo di verde…), oppure ingrigita e delusa da una sconfitta deprimente.
Foto: Today (da Google)