Obama e Putin nascondono le loro reali intenzioni in Medio Oriente. A parole attaccano lo Stato Islamico, nei fatti Washington ha interesse a non distruggerlo definitivamente, mentre Mosca coglie l’occasione per sostenere il regime di Asad in Siria.
LO STATO ISLAMICO non passa mai di moda. Esso si manifesta come soggetto non univoco e, per sua natura, in continuo cambiamento. Insomma, rimane sempre argomento di grande attualità. La cifra del suo successo è possibile identificarla nelle grandi capacità che esso mostra nel riempire i vuoti di potere nelle zone a cavallo tra Medio Oriente e Africa. Il “califfato”, negli ultimi due anni, ha notevolmente ampliato i suoi orizzonti, diffondendosi a macchia d’olio. Tantoché da Isis (Islamic State of Iraq and Siria) è diventato Is (Islamic State), passando da una zona di azione limitata alla Siria e all’Iraq, ad una indeterminata. Niente più limiti né confini. Parallelamente a questo cambiamento ”formale”, lo Stato Islamico ha promosso un’efficace comunicazione mediatica. In un mondo frazionato come quello della “jihad”, composto da innumerevoli fazioni, Al-Baghdadi è stato in grado di promuovere un vero e proprio marchio unificante. Nel giro di pochi mesi il “califfato” ha inglobato cellule terroristiche tra le più disparate: dai Mujaidhin libici e yemeniti fino ad arrivare a Boko Haram in Nigeria. In altre parole le fazioni più piccole hanno preferito accodarsi all’IS piuttosto che scomparire.
Non solo, la comunicazione altamente spettacolare e hollywoodiana, ha dato la percezione di una compagine più pericolosa di quanto in realtà essa sia. Anche il terrorismo cambia: dagli attentati alle cineprese.
NEL VENTUNESIMO SECOLO si fanno più proseliti con la spettacolarizzazione dell’orrore che con le armi, questo l’insegnamento di Al-Baghdadi. L’opinione pubblica occidentale reagisce di conseguenza: essa si sente altamente indignata e, allo stesso tempo, minacciata dallo Stato Islamico, per tale motivo sono stati accolti con grande sollievo i vari raid aerei che colpiscono il “mostro” in Siria. I primi ad impegnarsi in queste azioni militari sono stati gli Usa. Per onor di cronaca è doveroso ricordare che proprio Washington, in una prima fase, ha finanziato gli armamenti del “califfato”. Possiamo dire sicuramente che sono stati i primi a essersi sentiti in colpa …
E’ più di un anno che Obama colpisce le postazioni dello Stato Islamico, ma i risultati stentano ad arrivare. Le bandiere nere svettano ancora su buona parte della Siria. Sembra molto strano che una potenza come quella americana non riesca a sconfiggere un gruppo di miliziani che combatte con pick up Toyota e mitragliette. Niente a che vedere con le mirabolanti dotazioni degli States. Tali supposizioni vanno a braccetto con alcuni dati pubblicati dal “Washington Post”: il 75% dei caccia “a stelle e strisce”, dopo le operazioni belliche in Siria, ritorna alla base senza nemmeno aver sganciato un missile. Qualche interrogativo sorge spontaneo: ma gli Usa hanno come obiettivo quello di sconfiggere il “Daesh”? Non proprio. Washington non ha nessuna intenzione di distruggere la sua “creatura”, che mai come di questi tempi può tornare comoda. Il vero obiettivo è quello di arginare lo Stato Islamico, non di obliterarlo definitivamente. L’importante è che Al-Baghdadi non si sieda sul trono di Damasco.
Gli Stati Uniti non hanno avuto grandi esperienze in Medio Oriente, alla Casa Bianca è ancora vivo il ricordo delle fallimentari azioni di Bush in Iraq. L’imperativo post 2004 è basilare: non impantanarsi di nuovo nelle sabbie del Levante. Per tale motivo, Obama ha scelto la linea blanda, che consiste nel tenere in vita i jihadisti. Washington sa benissimo che se il “califfato” venisse sconfitto si aprirebbe una guerra per la supremazia geopolitica del Golfo potenzialmente distruttiva. Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita in prima fila per contendersi lo scettro del Levante. Fin qui nulla di nuovo, il problema è che nessuno dei quattro Stati sopraelencati ha il peso specifico per dettare legge, di conseguenza assisteremmo ad un contenzioso senza potenziali vinti e potenziali vincitori. Tanto vale a questo punto per Washington mantenere in piedi lo Stato Islamico. Anche i mostri possono tornare utili, soprattutto se usati per eludere scenari ben peggiori, perché Obama è disposto a tutto, ma non ad impantanarsi di nuovo nella terra del caos.
E’ NOTIZIA DI POCHI GIORNI FA: anche la Russia si impegna nella guerra contro l’IS in Siria. Putin ha stanziato gli armamenti russi in tre diverse basi siriane: quella aerea di Latakia, quella sottomarina di Gabla, quella navale di Tartus. Possiamo dire che i russi, al pari degli americani, entrano in gioco nella partita del Golfo. Anche in questo caso la retorica differisce decisamente dalle reali intenzioni. La missione militare voluta da Putin va inquadrata nell’ottica di un sostegno al dittatore siriano Al-Asad, non come un’azione contro i jihadisti. Per la Russia è importante evitare che Asad soccomba sotto il peso degli attacchi dello Stato Islamico, che vantano proprio come primo obiettivo il disgregamento dello Stato siriano. Questo Putin non lo può accettare, Asad è la colonna portante delle ambizioni sovietiche in Medio Oriente. Le alleanze russe passano tutte attraverso Damasco ed è proprio per sostenere la cosiddetta “mezzaluna sciita” che Mosca ha deciso di intervenire militarmente nei territori del Levante. Fino ad ora, circa 2500 soldati russi sono passati nelle compagini dello Stato siriano.
INCREDIBILE MA VERO,
Russia Stati Uniti si muovono lungo la stessa direttrice, quella della retorica smodata. Mai Obama e Putin avrebbero potuto manifestare le loro reali intenzioni in Medio Oriente, molto meglio gettare fumo negli occhi ai propri cittadini, il primo per evitare ostilità di grado ben superiori a quelle dello Stato Islamico, il secondo per salvaguardare e sostenere alleanze scomode agli occhi dell’opinione pubblica. Washington e Mosca preferiscono dilettarsi con il gioco delle tre carte, tanto la carta giusta difficilmente salterà fuori. Nel frattempo è preferibile che il “califfato”continui ad agire, quasi indisturbato, tra Siria e Iraq.
Degne di nota sono le considerazioni di Rosa Brooks, consulente del Pentagono, editorialista di “Foreign Policy” e professoressa di diritto all’università di Georgetown. Le sue parole si muovono tra critica e provocazione, ma non di certo utopia: “ Se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo capaci di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di stringere accordi con esso. Passerà qualche decennio ed ecco che poi l’IS avrà un seggio all’Onu, se l’Onu esisterà ancora. E tutte quelle terribili atrocità verranno cortesemente ignorate.” Così come già successo nel caso della Rivoluzione francese, nel caso dello sterminio degli Armeni e dell’Olocausto, spiega la professoressa. “Commettere atrocità di massa non impedisce il futuro successo. Se smettiamo di bombardare lo Stato Islamico, forse potrà contenere se stesso più rapidamente di quanto possiamo farlo noi. Oppure, volendo essere meno deprimenti, i capi dell’IS capiranno, come tanti brutali regimi prima di loro, che le atrocità generano disordine interno e ribellione.”
Una volta gettata la maschera, le due grandi potenze potrebbero intraprendere anche la strada più imprevedibile: legittimare l’ultimo grande “mostro” creato dall’Occidente. Visti gli insegnamenti che ci ha fornito la storia, non sarebbe nemmeno così impensabile.
Ringrazio Lorenzo La Neve, amico nonché fumettista della Bad Moon Rising, per aver disegnato le vignette dell’articolo.