Il tema di cui vorrei occuparmi con queste mie brevissime riflessioni è quello di un ’68 mondiale inteso come evento omogeneo, unificato e portatore di libertà. Tale mito, a mio avviso, è una clamorosa illusione ideologica, un falso storiografico asservito ad un mito di fondazione. Il problema è piuttosto comprendere a che cosa possa essere funzionale la diffusione di un’illusione ideologica e di un falso storiografico di tal fatta. Capire questo, ovviamente, serve anche a capire il “prima” del ’68, perché getta luce sul cruciale periodo che va dal 1956 al 1968, ma anche sul dopo, cioè sui nostri giorni, perché solo in questi anni la generazione sessantottina è giunta a posizioni di potere politico, economico e culturale.
Il ’68 è una costellazione di eventi eterogenei (quello studentesco in Germania, quello studentesco ed operaio in Francia e Italia, il massacro di Città del Messico, l’offensiva vietnamita del Tet, la conclusione della Rivoluzione culturale in Cina, le rivolte nei campus universitari americani contro la leva militare, i carri armati russi a Praga, i movimenti studenteschi in Jugoslavia e Polonia, ecc.) è un falso storiografico, poiché dà l’impressione che sequenze di avvenimenti estremamente eterogenee ed appartenenti a logiche storiche diversissime abbiano in comune un elemento unitario che può essere definito e riassunto da una generale rivolta contro il potere. E’ appunto la riduzione della complessità degli eventi di quegli anni allo stereotipo della lotta contro l’oppressione del potere il fondamento ideologico mistificatore di questo mito di fondazione. In questo modo si pone sullo stesso piano la fumata collettiva di spinelli con i guerriglieri vietnamiti della pista di Ho Chiminh. E’ così prefigurata la trasformazione dell’icona di Ernesto Che Guevara in poster multiuso adatto a ritratti pop per magliette stampate. Tutto questo non è affatto innocente, e non è neppure catalogabile frettolosamente sotto la categoria di consumismo post-ideologico. Più profondamente, si tratta – appunto – di un mito di fondazione di un classe dirigente a venire, culturalmente assai innovativa perché, ad un tempo, è post-borghese (nel senso della triade Dio-Patria-Famiglia) ed ultra-capitalistica.
All’interno di un orizzonte di questo tipo, si assiste al sorgere di una nuova visione filosofica (che è un orizzonte di senso naturalizzato ideologicamente) che si basa sulla razionalizzazione del disincanto e sul disimpegno assoluto in politica, sull’abbattimento progressivo del welfare e sul potenziamento dell’individualismo consumistico. Si assiste così alla fine delle grandi narrazioni: il cristianesimo, l’illuminismo, l’idealismo, il marxismo vengono decisamente rifiutati con il medesimo gesto teorico e, grazie all’aumento spaventoso della forza dei media, con una massiccia operazione di manipolazione della sfera emotiva e cognitiva delle persone. Viene così cancellata l’idea del progresso politico della comunità umana, assoggettando quest’ultimo univocamente alla crescita economica – dichiarando altresì che il costo (ambientale e umano) di tutto ciò vada considerato come null’altro che un “danno collaterale”. Non si può accettare che vi sia una verità al di là del capitalismo. Il post-modernismo teorizza così l’impossibilità categorica di trasformare l’esistente. Vengono destrutturate le idee di nazione, di comunità e progressivamente anche quella di identità collettiva e, da ultimo, individuale.
Dopo questo formidabile lavoro di addottrinamento teorico e di produzione di soggettività, ciò che residua è soltanto un (post)individuo inteso come un essere dotato di sensazioni, desideri, bisogni da appagare attraverso il mercato. In buona sostanza, il post-modernismo si presenta come superamento delle narrazioni ideologiche mentre, invero, nel ritenere immutabile l’esistente, e naturalizzando il mercato, diviene esso stesso il più grande scandalo ideologico (e dogmatico) della storia degli ultimi secoli.