Scrivere di femminismo non è semplice perché non è un fenomeno lineare ed univoco. In realtà si dovrebbe parlare di femminismi, uniti da un minimo comune denominatore ma divisi su molte cose. Scopo di questo articolo non è scriverne l’ennesima storia, sulla quale chi è interessato può trovare molto materiale cartaceo e sul web.
Ci interessa invece tentare di metterne in luce i legami, talvolta espliciti, altre impliciti quantunque ignorati o negati, col capitalismo; nel senso della funzionalità a questo sistema economico, ma anche e soprattutto come funzionalità o identità nelle concezioni filosofiche e antropologiche, in senso lato culturali, che ne sono alla base anche quando non esplicitate.
Possiamo intanto partire da una prima constatazione. Per esplicita e ripetuta ammissione di importanti esponenti femministe (ad esempio Muraro e Dominijanni), il Patriarcato[1] è ormai al tramonto e viviamo già in epoca post patriarcale. Cosa vuol dire allora il fatto che, al contrario, il capitalismo è vivo e vegeto e ha ormai sconfitto il suo avversario storico, o almeno ciò che si proponeva come tale, diventando l’ordine economico/sociale di riferimento, non solo per quanto riguarda i rapporti sociali ma anche e soprattutto per il modo di pensare e di rapportarsi alla realtà che ci circonda? Ora, la fine del Patriarcato implica, necessariamente, anche la fine del suo sistema simbolico, compreso il linguaggio, ma sappiamo dalla fisica che ogni vuoto tende ad essere riempito, occupato. Da cosa lo vedremo.
Senza stabilire rapporti necessari di causa/effetto ma vedendone piuttosto le influenze reciproche, esiste una non smentibile contemporaneità fra tre fenomeni:
1) L’affermazione e l’estensione a livello planetario del sistema capitalistico.
2) L’ evaporazione del padre e del suo simbolismo.
3) La nascita e la crescente influenza politica e culturale del femminismo.
Si possono fare tutti i distinguo che vogliamo, ma da tali fatti emerge che Capitalismo e Patriarcato sono fenomeni diversi, non sempre compatibili, in particolare quando il capitalismo dispiega pienamente la sua logica per diventare assoluto [2]. Il capitalismo dispiegato nel suo begriff è incompatibile col patriarcato, ovvero con la legge del padre, mentre al contrario è compatibile, quando non direttamente connesso, col femminismo e con le sue concettualizzazioni.
Il minimo comune denominatore dei femminismi a cui accennavo sopra è la convinzione che le donne sono sempre state una categoria oppressa, quale che ne sia la ragione, mentre lo scopo è renderle finalmente “libere”, quantunque il termine libertà sia declinato in modo assai diverso. Esso può essere inteso in senso materiale o legislativo, ma anche in senso psicologico di autonomia dal maschile, nel senso di autodeterminazione sociale o individuale in un rapporto di sorellanza fra donne che escluda i maschi, di liberazione delle donne dal giogo patriarcale a sua volta inteso come strettamente connesso al capitalismo o come sistema di genere oppressivo ma solo in parte parallelo al capitalismo, oppure ancora come la premessa per liberazione universale di tutti gli esseri umani, anche degli stessi uomini che avrebbero molto da guadagnare da una società in cui il patriarcato fosse completamente superato, ed infine come liberazione da ogni determinazione naturalistica dell’individuo.
Scusandomi per l’estrema sommarietà, credo sia utile partire tracciando una brevissima mappa classificatoria del femminismo per poi cercare di analizzarne i fondamentali, per quanto possibile nello spazio di un articolo.
Rispetto alla sua fase iniziale, quando le prime suffragette rivendicavano il riconoscimento alle donne dei medesimi diritti sociali degli uomini, essenzialmente il diritto di voto attivo e passivo, il femminismo si è diviso in due grandi filoni fondamentali: Il femminismo dell’uguaglianza e quello della differenza. Occorre avvertire che tale classificazione è utile per orientarsi ma non deve essere intesa in senso rigido perché, come già detto, esistono similitudini strette di analisi e quindi obbiettivi comuni, anche se motivati in modo diverso.
Femminismo dell’uguaglianza
Si può suddividere a sua volta, nel filone liberale/individualista e in quello di classe di ispirazione marxista.
Entrambi i filoni condividono la concezione che rifiuta il legame fra psiche e corpo, e pongono l’accento esclusivamente sulla costruzione sociale delle identità, maschili e femminili. Si parla perciò di generi (gender) piuttosto che di sessi. Tale concezione, nata e sviluppata in particolare negli USA, è stata fatta propria dall’ONU, dall’UE e dalle relative ONG che la propagandano in ogni loro documento come fosse una verità indiscutibile e si adoperano in ogni modo affinchè diventi la base educativa dei programmi scolastici, come ha già documentato Il Covile [3]. In particolare nel n. 799 della rivista, a cui rimandiamo, ci siamo concentrati sui nessi interni fra la logica del Capitale e la Gender Theory, fino ai suoi esiti più estremi del trans umanesimo.
Ora, se quelle connessioni non disturbano affatto il femminismo liberal, pongono invece qualche problema a quello che abbiamo definito per brevità, benché con approssimazione, di classe.
Uguaglianza o uniformità nel femminismo liberal.
I legami del femminismo liberal coi poteri forti, cioè con i governi occidentali, con le Organizzazioni Internazionali, con le grandi fondazioni statunitensi e colle multinazionali, sono evidenti e documentati. Ne scrive a lungo Alessandra Nucci[4]. La sua tesi è che questo tipo di femminismo è stato elaborato a tavolino da un’elite intellettuale, e non si propone affatto di conoscere e favorire la volontà femminile, bensì di influenzarla e incanalarla per scopi non sempre corrispondenti all’interesse delle donne, e qualche volta addirittura contrari. Le donne sarebbero strumentalizzate per, leggiamo nell’abstract del libro, <<promuovere una società pianificabile, fatta di una moltitudine atomizzata di persone poco interessate ad appartenersi l’una all’altro e dunque poco interessate a riprodursi.>> L’antagonismo di classe viene sostituito con quello fra i sessi, e la storia viene riscritta come storia dell’oppressione maschile verso le donna. In questa visione il Patriarcato è un sistema di relazione oppressiva maschi/femmine presente in ogni epoca storica e in ogni cultura, indipendente dai sistemi economici. Induce quelli che vengono definiti gli stereotipi di genere, mentre si assume invece come concetto che non necessita di dimostrazione che maschi e femmine avrebbero gusti, inclinazioni, passioni e predisposizioni identiche, che solo la cultura patriarcale e sessista non farebbe emergere. Non interessa la pari dignità di uomini e donne e non basta neanche la parità assoluta in fatto di diritti, che nei paesi occidentali è già stata ampiamente ottenuta (e oltrepassata) sul piano legislativo ed anche in larga parta nella società civile. Si punta invece alla costruzione di individui omologati e de identificati partendo dalla convinzione che il sesso biologico non abbia alcun ruolo oggettivo nella definizione di ciò che è maschile o femminile, che sarebbero solo costruzioni culturali (Gender theory). Abbiamo già visto trattando la questione [5], che l’individuo neutro è funzionale alla nuova fase del capitalismo finanziarizzato e mondializzato. La Nucci non manca di sottolineare come per arrivare a questo obbiettivo si debba necessariamente contrastare ogni credenza tradizionale.
Così descrive l’azione culturale del femminismo di genere: <<Il conseguente assalto alla cultura popolare ha preso sostanzialmente cinque direzioni: delegittimare la normalità (stereotipi), far diventare norma l’eccezione (culto della diversità), inculcare motivi di risentimento e accusa (vittimismo), delegittimare su questa base la religione cristiana e in particolare la gerarchia cattolica (patriarcato), sacralizzare con intento risarcitorio il femminile (neopaganesimo)>>[6]. La sacralizzazione del femminile in una generica spiritualità di tipo panteistico (New Age), l’attribuzione alle donne (e solo a loro) del diritto insindacabile di decretare la vita o la morte dei nascituri (diritto all’aborto libero dissimulato sotto la definizione di diritto alla salute riproduttiva), e la corrispondente << svalutazione di tutto quanto attiene al maschile>> in quanto ostacolo all’affermazione del mainstream di genere, fino a decretarne l’inutilità[7], sono congrui con gli scopi dei poteri forti, economici, finanziari e politici, che puntano alla denatalizzazione, alla costruzione di individualità deboli e malleabili utili all’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale sotto il loro controllo.
Sul piano sociale questo tipo di femminismo pone l’accento esclusivamente sulla discriminazione sessista e patriarcale che vorrebbe le donne confinate nel tradizionale ruolo di angeli del focolare. Si disinteressa perciò alle differenze (di censo, di classe) all’interno del mondo femminile e osteggia ogni provvedimento di legge teso a proteggerle, comprese le tutele alla maternità, come residuo patriarcale e paternalista. In coerenza con l’assunto che il genere è un costrutto culturale, lotta incessantemente contro ogni differenza ovunque si manifesti, e punta, anche mediante discriminazioni positive, a promuovere la piena parità maschi/femmine in ogni campo della vita sociale ed economica e identiche possibilità di affermazione personale.
<<Il motore di questa trasformazione è psicologico>>[8], prosegue la Nucci, e si attua attraverso l’indignazione e il vittimismo tesi a riscrivere completamente la storia come storia dell’oppressione maschile verso le donne. E’ ciò che Rino Della Vecchia [9] chiama la Grande Narrazione Femminista, mediante la quale il femminismo ha assunto , è ancora la Nucci che scrive <<il controllo dell’etica, ovvero della possibilità di stabilire ciò che è giusto, e annullando al contempo il senso di appartenenza a qualunque struttura capace di suggerire un’etica diversa>>[10]. Le elites femministe, che non sono composte solo da donne, si sono insediate ai vertici delle istituzioni internazionali è da lì conducono la loro guerra con armi incruente ma non meno micidiali. Si tratta, per Della Vecchia, di una guerra condotta nell’ambito dell’Etosfera, , il luogo del buono e del cattivo, del bello e del brutto, del bene e del male. Uno spazio in cui <<non si ragione, non si conosce, si sente>>, dove non vale il principio di verità o di logica, ma solo quello di utilità. E’ vero ciò che è sentito come utile, è falso tutto il resto, e vi possono coesistere concetti ed elementi del tutto contraddittori, che però non solo non sono percepiti come tali, ma sono anzi utilizzati insieme se utili alla causa per la quale ci si batte. Non importa che la GNF non regga ad un confronto coi fatti, dai quali sarebbe ben difficile dedurre che i maschi, cui da sempre sono stati affidati i compiti più duri e rischiosi (dal lavoro alle guerre) e che da sempre hanno protetto le donne considerando la loro vita più importante della propria, sono dei sadici oppressori col gusto di sottomettere l’altra metà del cielo. Ciò che conta è che la percezione di un’oppressione eterna e violenta diventi luogo comune per stimolare la guerra fra i sessi. In questo processo, afferma Fabrizio Marchi, [11] le donne sono state gratificate attribuendo loro un grande potere (sessuale) sugli uomini, a prezzo, però, di una mercificazione generale di ogni aspetto della vita. Mercificazione che, le donne hanno accettato, inconsapevolmente o meno poco importa, introiettando i canoni culturali del capitalismo e rendendosi ampiamente ad esso funzionali, tanto da essersi trasformate da elemento di rottura, come si proponevano alle origini del femminismo, nel suo principale supporto.
Il femminismo di classe o di sinistra
Facile immaginarsi che il femminismo liberal di ascendenza Usa, peraltro maggioritario tanto da essere considerato spesso come il femminismo per antonomasia, abbia suscitato più di una critica, in specie in quelle correnti che si richiamano, in modo più o meno stretto, al marxismo.
Particolarmente netta è stata Nancy Fraser che nel 2013, sul Guardian, ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, e come riscattarlo”. La Fraser sostiene che la critica del sessismo è diventata una giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento. <<Mentre una volta le femministe criticavano una società che promuoveva il carrierismo, ora consigliano alle donne di darci dentro. Un movimento che una volta promoveva la solidarietà sociale, ora celebra le donne imprenditrici. Una prospettiva che una volta valorizzava la cura e l’interdipendenza, ora incoraggia il successo individuale e la meritocrazia>>. Il femminismo che criticava il capitalismo organizzato di Stato, è diventato ancella del nuovo capitalismo <disorganizzato>, globalista e neoliberista. E non perché le donne sono state vittime passive delle seduzioni neoliberiste, bensì per alcune scelte precise: 1) La critica al salario familiare in nome dell’emancipazione femminile e del diritto al lavoro , che ha finito per legittimare il capitalismo flessibile. Esso può avvalersi così di una massa di manodopera a più basso costo, più flessibile e con minori livelli di sicurezza (insomma l’esercito industriale di riserva come teorizzato da Marx). 2)L’accento posto esclusivamente sulle questioni di genere(sessismo, critica della violenza) piuttosto che su quelle sociali, che ha finito per fare dimenticare le prime, e 3) La critica al paternalismo dello Stato sociale, che si è coincisa con l’abbandono da parte degli stati dei programmi macro-strutturali orientati a combattere la povertà.
In sostanza, le istanze del femminismo , che in origine avevano per la Fraser una loro ragione d’essere, sono andate nella stessa direzione, e per questo strumentalizzate, dell’evoluzione in senso neoliberista del capitalismo.
Le problematiche sollevate dalla Fraser hanno suscitato, era prevedibile, un dibattito intenso nel femminismo di ispirazione di sinistra intorno al rapporto fra patriarcato e capitalismo, ovvero sulla possibilità che esista un capitalismo non patriarcalista e non sessista. Prenderò come esempio, perché mi sembra il più significativo e denso d’implicazioni, un articolo di Cinzia Arruzza sul web [12]. L’autrice ammette, e oggi sarebbe difficile negarlo, che la struttura logica del capitale è intrinsecamente indifferente alle differenze di sesso o di razza, ma solo ad un livello di astrazione così elevato che non può trovare mai riscontro nella pratica e nella storia. <<Ciò che è possibile su un piano meramente analitico e astratto e ciò che è storicamente possibile sono due cose completamente diverse>>. Nel suo funzionamento concreto il capitalismo ha come conseguenza necessaria e naturale la riproduzione costante, in forme diverse, dell’oppressione di genere. Femminilizzazione e defemminilizzazione del lavoro, riconfigurazione continua dei rapporti familiari, creano comunque nuove forme di oppressione fondate sul genere, e così come le conquiste dei ceti subalterni non significano che il capitalismo potrebbe fare a meno dello sfruttamento e dell’estrazione di plusvalore, così le conquiste delle donne non prefigurano la possibilità di un capitalismo in cui non esista l’oppressione di genere.
C’è una prima obiezione di principio da muovere a questa tesi. Qualunque giudizio se ne dia, un capitalismo in cui non esista la separazione dei produttori dai mezzi di produzione non è concepibile neanche teoricamente; al contrario, se è concepibile sul piano analitico e teorico un capitalismo non sessista o razzista, la sua realizzazione concreta dipenderà dal contesto storico, che può ovviamente cambiare nel tempo e nello spazio, ma non può essere esclusa in linea di principio. Così fosse la enunciazione teorica risulterebbe immediatamente falsa. E d’altra parte ciò che accade oggi è proprio la dimostrazione di quanto sopra. Emerge infatti con la massima limpidità che il capitale, lasciate al loro destino la morale e l’etica borghesi o religiose, persegue un solo fine: la sua riproduzione allargata. Tutto il resto viene piegato a questo scopo. Discriminazioni, sessismi, razzismo, uso politico delle religioni, possono essere esercitati in qualunque direzione purchè siano funzionale allo scopo, oppure essere osteggiati sempre per lo stesso motivo. Pensare il contrario significa essersi fissati su una fase superata, combattere, e nemmeno con sempre buone ragioni, un avversario immaginario, che ha già abbandonato quella trincea per spostarsi altrove.
La Arruzza intende dimostrare la sua tesi con un esempio:
<<Mettiamo che a un livello meramente astratto […] gravidanze e parti potrebbero essere interamente meccanizzati, che l’intera sfera delle relazioni emotive potrebbe essere mercificata ed espletata attraverso servizi a pagamento. Insomma, mettiamo tutto questo. Si tratta di una visione credibile sui piano storico? L’oppressione di genere può essere sostituita così facilmente da altre forme di gerarchia che abbiano la stessa presa, appaiano altrettanto naturali, siano altrettanto radicate nella psiche e nei processi di formazione soggettiva? Qualche dubbio è più che legittimo>>.
Capitalismo e oppressione di genere sarebbero perciò inscindibili, ma ciò che in realtà risulta da questo esempio è non è l’origine sociale delle discriminazioni di genere. Fra queste sarebbero infatti le gravidanze e i parti, di cui si auspica la meccanizzazione. Allo stesso modo la mercificazione e la sostituzione con lavori a pagamento delle relazioni emotive (penso voglia dire quelle che implicano un lavoro di cura, come la maternità o l’assistenza agli anziani, cioè attività tipicamente o esclusivamente femminili), non è giudicata sbagliata o inumana, ma semplicemente non credibile in una società capitalista. Per usare le parole, un tempo di moda, del Presidente Mao Tze Tung, la Arruzza solleva una pietra che le ricade sui piedi. L’origine dell’oppressione consisterebbe infatti nella naturale costituzione organica femminile, dal momento che gravidanze maschili sono difficilmente immaginabili. L’emancipazione delle donne consisterebbe, semplicemente, nel superamento della natura e nella disumanizzazione della sfera emotiva. La critica al capitalismo si riduce così al rimprovero per non riuscire in questo compito, ossia alla sua inefficienza, superabile, forse, in un altro tipo di struttura sociale. Il femminismo di origine marxista finisce così per saldarsi con l’altro filone che, partendo dalla negazione del dato naturale, la corrispondenza fra corpo e psiche, approda infine, ossessionato dalle differenze, al transumanesimo. In realtà l’Arruzza sottovaluta semplicemente le capacità del capitalismo di ottenere quelle che lei considera come conquiste.
Non si fanno invece troppi problemi le autrici della storia del femminismo del sito Leonardo.it [13]. Vi si inneggia senza riserve al fatto che, depurati dalle scorie delle pretese rivoluzionarie ben presto appannatesi, gli anni della rivoluzione giovanile e femminile hanno innescato una vera rivoluzione antropologica sull’onda dello sviluppo capitalistico in senso edonistico e consumista.
<<La liberazione della donna ha mutato la società. Dal 1972 è nata un’altra donna e tutte le altre conquiste che avverranno sono legate a questa mutazione antropologica di questi anni, dove e soprattutto e innanzi tutto non solo la donna ha mutato il suo carattere, ma ha fatto parallelamente mutare carattere anche all’uomo. Col ’72, infatti, si sono spente le ultime manifestazioni della contestazione, ed è calata anche la spavalderia, l’arroganza e l’egocentrica opinione che l’uomo aveva di se stesso. Le donne diventarono sempre più belle, sicure, attraenti, eleganti, e se voleva l’uomo competere doveva adeguarsi agli stessi canoni. Il medioevo era finito>>, mentre <<Sulla ribalta salgono Versace, Valentino, Trussardi, Ferrè, Litrico, Cardin e tanti altri. E iniziano le modelle. E’ inziata una nuova era (più gradevole).>> Insomma l’era della Milano da bere. Neocapitalismo consumistico e femminismo dell’eguaglianza finiscono per supportarsi l’un l’altro, in analogia con quanto accade quando la critica al capitalismo, anziché incidere, o almeno tentare di farlo, sui rapporti di produzione, si limita a criticarne gli aspetti sovrastrutturali , la sua produzione “ideologica”, scambiati per il suo fondamento. Accade così un curioso fenomeno di simmetria. La destra liberista, e non tutta, intende difendere gli antichi valori borghesi e religiosi, ma risulta perdente perché non capisce che sono ormai incompatibili con gli assetti economici del moderno capitalismo globalizzato, di cui è paladina. La sinistra liberal e progressista intende decostruire quei valori, ma così facendo si pone come pienamente funzionale al capitale che necessita di liberarsi di quelle scorie ormai obsolete e inservibili . Lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la parabola dei partiti ex marxisti, che hanno finito per accettarne pienamente la logica e la weltanschaung , diventando anzi il volto moderno, gradevole, democratico e politicamente corretto del capitalismo. Idem per il femminismo, o almeno per questo femminismo.
Il femminismo della differenza
La negazione di ogni differenza ontologica e di ogni determinazione corporea dei sessi, conduce il femminismo dell’uguaglianza, al di là di ogni intenzione originaria, a collocarsi nel campo del capitale, come abbiamo tentato di dimostrare.
Si finisce per bloccarsi su definizioni ed analisi di tipo esclusivamente sociologico, ma con ciò si rimane alle soglie del problema, rinunciando ad indagare l’universo simbolico originario del maschile e del femminile, l’unico atto a render conto in modo non superficiale della storia del rapporto maschi/femmine, e a partire dal quale poter anche indagare come quegli universi simbolici si sono espressi in concreto nei sistemi socioeconomici che l’umanità si è data.
A questa problematica ha tentato invece di dare risposta il femminismo della differenza.
Anche questo femminismo è attraversato da differenze importanti. Ne esiste infatti una versione, diciamo così dozzinale nonché inconsistente sul piano teorici e pratico, che legge la differenza nel senso di gerarchia etica e morale, nonché di capacità razionale, ossia d’intelligenza. Le donne sarebbero predisposte alla non violenza, alla solidarietà, alla cooperazione anziché alla competizione, alla pace invece che alla guerra, all’accoglienza invece che all’esclusione. E per di più il loro cervello funzionerebbe meglio, sarebbero cioè complessivamente più intelligenti degli uomini. Lo si sostiene, ad esempio, in alcune così dette ricerche scientifiche [14] , ed è ciò che il prof. Veronesi si incarica di propagandare ogni volta che ne ha occasione. Ne discende che un mondo governato dalle donne sarebbe una specie di novello Eden. Non vale la pena spendere parole per contestare queste idee paranoiche. Sono semplicemente avulse dalla realtà, indimostrabili e indimostrate ma soprattutto il frutto di un inedito razzismo di genere che imprime agli uomini uno stigma inemendabile. Semmai è da sottolineare che grazie all’inesauribile lavoro di propaganda mediatica e culturale[15], queste idee sono penetrate in larga parte dell’universo femminile ma anche in quello maschile e, come sottolinea ancora Alessandra Nucci, utilizzate dai poteri forti per disgregare ogni spirito di solidarietà fra uomini e donne in vista del Nuovo Ordine Mondiale.
Esiste però anche un altro filone del femminismo della differenza che, benchè minoritario sul piano della diffusione, ha dignità culturale e un importante spazio soprattutto in Francia ed in Italia. Deve per ciò essere preso in seria considerazione. Lo faremo discutendo soprattutto le tesi due autrici importanti, Luce Irigary e Luisa Muraro.
Questo femminismo non entra , se non per accenni, nel merito specifico dei rapporti fra discriminazione delle donne e capitalismo. Benché quel rapporto possa essere dedotto, rimane quasi sempre sotto traccia e raramente esplicitato. Il punto di partenza è la constatazione, in senso generale sicuramente condivisibile, che maschi e femmine sono diversi in quanto portatori di istanze, modi di essere, di pensare, di ragionare, non riducibili l’uno all’altro. Ma, si sostiene, tutto quanto è femminile, a iniziare dal sistema simbolico, è stato emarginato e soffocato dal patriarcato, sistema ben anteriore al capitalismo come noi lo conosciamo , che ne sarebbe solo una variante. Per iniziare a far emergere la trama delle idee del femminismo della differenza possiamo usare le parole di Luisa Muraro, , importante esponente della Libreria delle donne di Milano e membro della comunità filosofica femminile Diotima [16]. Parlando del libro Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa (Liguori, Napoli 2009), di cui firma la prefazione insieme a Chiara Zamboni, afferma proposito degli effetti del femminismo in epoca post-patriarcale che <<tra privato e pubblico c’è osmosi, le tecniche del potere si sostituiscono all’autorità tradizionale delle donne nel lavoro di cura, i media fanno entrare la soggettività più intima nella visibilità pubblica..>>. Dunque l’irruzione delle tecniche di potere nel lavoro di cura, ossia la loro mercificazione e l’ingresso nel mercato sarebbe un esito positivo della caduta del patriarcato? E l’insopportabile chiacchericcio del gossip mediatico che mischia vita privata e politica sarebbe anch’esso un effetto positivo del femminismo? Giudichino i lettori, ma l’assonanza con quanto scrive la Arruzzi è evidente.
Altre femministe, sia pure in modo contraddittorio, hanno invece una qualche consapevolezza che la fine del patriarcato non significa di per sé una società migliore. Per Sartori Ghirardini[17], anch’essa esponente di Diotima, infatti,
<<…con la venuta meno del patriarcato viene meno anche il suo ordine, ma il risultato non è immediatamente un nuovo ordine, quanto piuttosto un aumento del disordine, e il ritorno a forme di
regolazione, concettualizzazione, azione, emozione, più arcaiche, sempre più spesso elementari e violente>> Si assiste infatti alla << liberazione di un immaginario patriarcale ormai non più regolato dall’ordine simbolico del padre>>.
C’è una evidente contraddizione logica nella proposizione per cui il patriarcato, per definizione fondato sulla legge del padre ossia su un sistema di regole e norme, libererebbe morendo il suo immaginario senza regole. Per la Sartori Gherardini il suo posto è preso in un primo momento da forme di fratriarcato con conflittualità sregolata, per superare il quale occorre seppellire, dopo Dio e il padre che lo rappresentava in terra, anche la madre patriarcale, ossia quella <<madre spettrale dove si confondono le vecchie paure e le nuove, le tradizionali matrifobia e idealizzazione materna e le più recenti fobie e nostalgie innescate dalla nuova libertà femminile>>.
Si tratterebbe dunque della necessità di tornare a un’origine ancora più arcaica, ancor più regressiva, luogo e tempo dell’Eden. A cosa corrisponde in termini psichici lo vedremo.
Tormando a Luisa Muraro, nell’intervento già citato insiste su un concetto: nella politica delle donne,
<<il primo posto viene dato alla pratica del partire da sè […] non facile da far intendere a chi non la conosce in prima persona. Il partire da sé è un pensare non in base ad una rappresentazione ma ad un rapporto vissuto personalmente fra sè e ciò che è in questione, esplicitandolo: io dove sono, che cosa desidero, che cosa m’interessa di questa faccenda. E’ come schiodarsi da una fissità di dentro e fuori, io e gli altri, nel tentativo di situarsi non astrattamente>>; <<il personale è politico, non c’è separazione tra pubblico e privato>> . Ancora nello stesso intervento leggiamo che <<abbiamo concepito la politica come un agire che si avvale di relazione e scambi in cui le persone interessate portano l’energia dei propri desideri e la lucidità della verità soggettiva>>.
E continua <<Se una è femminista, per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, libertà di pensare e di agire in rispondenza ai propri desideri e, prima ancora, libertà di
desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, l’interessata, a dire e decidere quello che la riguarda>>. Sono parole importanti, da tenere in mente quando tratterremo dei caratteri del
capitalismo attuale. Qui è da sottolineare che della simmetrica libertà maschile non c’è traccia, come se questa fosse presupposta esserci da sempre e quindi la legge del padre implicasse norme e limiti per le sole donne, ma questo come vedremo con parole di altre femministe non è vero, oppure, come più probabile, e anche su questo ritorneremo, di tutto ciò che riguarda il maschile e il paterno alla Muraro non importa nulla, con tanti saluti alla pretesa di liberazione universale che il femminismo ama proporre come suo scopo.
Non può sorprendere che la stessa Muraro, commentando il saggio di “Genealogie femminili”, scriva che queste genealogie sfuggano ad essere definite con precisione.
<<Questo tema si trova infatti sul confine fra dicibilità e indicibilità, come del resto molta parte, non sappiamo quanto grande, dell’esperienza femminile>>.[18]
Il femminile implica quindi per comune ammissione, un elevato grado di soggettività nell’approccio alla conoscenza. Si può dire che quel tipo di approccio è opposto a quello maschile, il cui sguardo, almeno intenzionalmente, si pone dall’esterno, con lo scopo di oggettivizzare la conoscenza, astrarla dal sentire personale, separarsi dall’oggetto, segmentarlo, dividerlo per poi ricomporlo alla fine completo dei nessi logici fra le sue parti, individuati ed esplicitati. E’, appunto, quella differenza fra maschile e femminile che Erich Neumann,[19] , così descrive:
<<La coscienza matriarcale che osserva non deve essere confusa […] con il distanziarsi della coscienza maschile che porta alla scienza e all’obbiettività; essa viene diretta da sentimenti e intuizioni concomitanti fondati su processi semi-consci, con il cui aiuto l’Io si orienta con una forte partecipazione di tendenze emotive. […] Si tratta di un tipo di percezione totale a cui prende parte tutta la psiche, nella quale l’Io ha il compito di condurre la libido verso l’evento vitale osservato e di rafforzarlo, più che astrarre da esso e giungere così ad un ampliamento della coscienza.>> Si tratta insomma di una conoscenza che parte da un movimento esattamente inverso a quello maschile oggettivante, e che Jung paragonò a una gravidanza, a un render pregno. <<Per la coscienza lunare [femminile. ndr] la conoscenza è al di là dell’affermazione, del resoconto e della testimonianza. E’ come un possesso interiore che si sottrae facilmente alla discussione poichè il processo conoscitivo interiore, entro il quale si trova questa conoscenza, non è esprimibile adeguatamente e può essere trasmesso molto male a qualcuno che non lo abbia sperimentato>> . <<Le conoscenze della coscienza matriarcale non sono indipendenti dalla personalità che le sperimenta, non sono astratte e prive di emotività, poichè essa mantiene il legame con quelle zone dell’inconscio da cui quelle derivano. Quindi possono essere spesso in contrasto con il conoscere della coscienza maschile, fatto di contenuti consci, idealmente isolati ed astratti, privi di emotività, dotati di generale indipendenza dalla personalità>>. Quindi per Neumann il conoscere femminile è <<vitale di tipo generale […] appartiene al campo della saggezza e non della scienza>>. [20]
Ora, se la conoscenza femminile è, per esplicita ammissione delle stesse autrici del femminismo differenzialista, inscindibile dalla percezione soggettiva, è quanto meno incongruo che la Irigary, in polemica con Freud, parli del narcisismo come fenomeno maschile quando invece è evidente il contrario. <<La descrizione freudiana dell’invidia del pene, nella donna, è guidata secondo la Irigary, dallo sguardo maschile: è l’uomo che non vede nella bambina niente di simile a sé e ne resta inorridito, per cui costruisce un parallelismo fra la paura maschile della castrazione e l’invidia femminile del pene; ma è l’uomo a provare la paura della castrazione e a veder rispecchiata tale paura nella donna; se il rassicurante specchio femminile non rimandasse questa immagine, se non ci fosse, da parte femminile invidia del pene, la costruzione maschile narcisistica crollerebbe>>[21] . Ma non tanto questo è importante , quanto la necessità per le donne di parole, di un linguaggio, ossia di un simbolico conforme all’esperienza femminile, e che riesca a comprendere il linguaggio del corpo e quello gestuale.
La questione del simbolico materno/femminile è cruciale anche in Luisa Muraro, ma con una differenza importante rispetto alla Irigary. Mentre per questa, infatti, esistono <<due principi dell’essere e della simbolizzazione>>, l’uno paterno e maschile e l’altro materno e femminile, e si tratta di non sacrificare l’uno per l’altro ma di affiancarli e farli coesistere, per Luisa Muraro << non c’è che un solo principio, quello materno, del quale sinora solo gli uomini hanno beneficiato, o si sono appropriati, persino dissimulando
e scartando le donne>> nota Francoise Collin[22].
Per la Muraro, [23] occorre costruire un ordine simbolico materno, quindi un complesso culturale, concettuale e linguistico, a partire dal fatto incontestabile, che è anche il primo autentico momento della conoscenza, della relazione con la madre. Questa relazione primaria, cito da Wikipedia, è <<fatta di contatti,di gesti, di parole, di reciproca comunicazione nella quale non si distingue il corpo dalla mente e la mente dalla parola, è il luogo dell’immanenza, della presenza intera dell’essere. Saper amare la madre, l’esperienza di relazione con la madre, dà così il senso autentico dell’essere, e il senso autentico dell’essere si manifesta nella coincidenza di avere senso ed essere vero. Saper amare la madre è dunque il principio della conoscenza, ma la rimozione culturale del nostro rapporto con la madre che si verifica con l’avvento della legge del patriarcato, la quale si sovrappone all’opera positiva della madre, ha l’effetto di scindere la logica dall’essere ed è causa del nostro perdere e riperdere il senso dell’essere >>.
Coerentemente con la concezione secondo cui il filo conduttore della storia sarebbe l’oppressione maschile sulle donne a partire dalla prevaricazione violenta del Patriarcato sul Matriarcato, la Muraro delegittima e azzera la cultura, da Platone e Aristotele fino a Cartesio e oltre, inclusi Freud e la psicanalisi, Jung e la psicologia analitica, ed anche, stavolta in accordo con la Irigary, le narrazioni mitiche della Grecia. Di esse rifiuta la complessa lettura metastorica, considerata una distorsione patriarcale, in favore di una lettura esclusivamente storica, quasi letterale. Così, ad esempio, nell’Orestea vede semplicemente l’instaurarsi violento e in senso sociologico della società patriarcale su quella matriarcale che la precedeva. Ogni altra interpretazione della dialettica patriarcato/matriarcato, ad esempio in senso psichico, non è presa in considerazione per il semplice motivo che minerebbe il suo impianto teorico.
Il simbolico materno si costruisce dunque col ritorno alle origini primigenie, ma per via esclusivamente femminile, attraverso la riappropriazione del rapporto d’amore madre/figlia che il patriarcato ha reciso. Da questo punti di vista esiste una evidente asimmetria fra i sessi, perchè il maschile necessita di un distacco del quale tuttavia si nutre perchè, secondo Freud, non è costretto a staccarsi dall’amore per l’altro sesso ma lo trasferisce su un’altra donna, elevandola a musa ispiratrice e interlocutrice, mentre la femmina, negando la madre, nega anche il proprio sesso per poter rivolgersi all’altro. E’ questa negazione dell’amore materno/filiale, imposta dal patriarcato, che la Muraro contesta per riappropriarsene e concettualizzare, appunto, l’ordine simbolico della madre.
In lei non c’è, come nella Irigary, la consapevolezza che l’amore fusionale è un ostacolo e non un aiuto anche per la donna, perchè costringe a identificarsi tout court col materno, e pensarsi, come donne, tutte sorelle nell ‘utopia di una sorta di comunismo matriarcale primitivo, in cui ogni aggressività è rimossa.
Nella Muraro, non c’è posto per il padre. In una intervista con Ida Dominijanni[24] esplicta chiaramente il concetto a partire dalla rivendicazione del privilegio di <<essere nata dello stesso sesso della madre>> . E il padre? << Quando nel libri compare, il padre è l’uomo che si affianca alla donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli: questo è vostro padre. In altre parole io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità del padre, della legge del padre, pur ammettendo che un uomo, gli uomini, possano invece avere questa necessità. Sono d’accordo con te che un simbolico materno che esclude ogni altro amore, ogni amore dell’altro, sarebbe gravemente difettoso, ma non penso che questo altro debba essere il padre>>. Non avrebbe potuto essere più chiara nella subordinazione e nell’insignificanza della figura paterna, priva di uno statuto simbolico proprio e ridotta a puro ausilio della madre.
Nella stessa intervista la Muraro accenna anche all’attuale <<ordine (o disordine) capitalistico>>, ma come scrive un autore insospettabile, Massimo Recalcati[25], << La condizione strutturale per accedere al desiderio implica un divieto di accedere al godimento assoluto della Cosa>>, e quindi la Legge del padre si configura non come pura interdizione ma <<come dono della facoltà del desiderio>>, mentre senza quella legge si afferma il <<discorso del capitalista>>, che sfrutta la convinzione che <<il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento>>, per illuderlo di poter trovare soddisfazione nel consumo avido di oggetti, quando in realtà, “liberato” dal limite imposto dalla Legge e perciò dal desiderio autentico, ciò che lo spinge è la ricerca della <<Cosa assoluta del godimento>> (l’incesto materno).
Il rifiuto del padre e della sua legge, dunque, si inscrive di per sé nell’ordine logico e filosofico del capitalismo, regolato sul concetto di illimitatezza.
Si delinea così in modo chiaro la contiguità, anzi l’identità, anche del discorso del femminismo della differenza cogli assunti filosofici del capitalismo, che tuttavia deve essere ancora meglio esplicitata. Se finora abbiamo visto il significato della negazione del padre, ora dobbiamo ragionare sul significato del ritorno alla madre, così come lo assumono la Muraro e la Sartori Ghirardini.
E’ da sottolineare, prima di tutto, che l’esistenza e la legittimità di un ordine simbolico materno/femminile non è mai stata messa in discussione in nessuna delle civiltà definite patriarcali. Come nel mito di Demetra/Core così nell’Orestea, il patriarcato non ha soppresso il simbolismo materno/femminile; Core può tornare periodicamente alla madre, le Erinni diventano le Eumenidi. Stando all’attualità, per lo psicanalista Franco Fornari l’affermarsi del codice affettivo materno, il <<regno della madre>>, è decisivo e insostituibile per la vita del bambino. Gli dona sicurezza affettiva e materiale, appagamento di ogni bisogno. Ma al tempo stesso il rapporto madre/bambino è anche ambivalente perché intessuto di violenza. Durante il parto la madre oscilla tra il timore di morire e quello di far morire il figlio, il bambino sperimenta l’angoscia della perdita della beatitudine onnipotente provata nella vita intrauterina. E’ perciò necessario che la simbiosi positiva madre/bambino venga prolungata temporaneamente oltre la nascita, ed a questo provvede il padre assumendo il compito di <<ammortizzatore e mallevadore dei pericoli che minacciano la nascita del figlio dell’uomo>>. Il padre diventa così, in un primo momento il garante dell’affermazione del codice materno da lui definito autocentrico, ma in seguito anche l’operatore della separazione fra madre e figlio la cui simbiosi proseguirebbe naturalmente fino a diventare regressiva e psichicamente mortifera senza l’instaurarsi del codice paterno eterocentrico.
Qui è il punto decisivo, perché la dinamica individuale descritta da Fornari vale anche quando ci trasferiamo sul terreno transpersonsale. Descrive gli stadi di sviluppo dell’umanità dalla situazione originaria di prevalenza dell’inconscio, dell’indistinzione fra l’io e il tu e fra l’uomo e il cosmo circostante, che Neumann chiama partecipation mistique, a quella della emersione progressiva della coscienza egoica, ossia in una parola della cultura. Se intendiamo con Patriarcato e Matriarcato non tanto una struttura sociologica di dominanza del gruppo maschile o femminile (fra l’altro di dubbia prova storica e comunque largamente inservibile per analizzare le strutture psichiche di una società, ben più complesse e intrecciate), quanto invece come dominanza dell’archetipo paterno o materno, emerge allora che il patriarcato ha avuto una funzione emancipativa per l’umanità. E qualsiasi eccesso a cui ha potuto dare luogo, qualsiasi inflazione del maschile/paterno ai danni del femminile/materno si sia verificata, non inficia minimamente il fatto che, come il singolo bambino (maschio e femmina anche se con modalità e difficoltà diverse che non possiamo qui analizzare) si deve staccare dalla madre per diventare adulto, così l’umanità, per diventare adulta, è dovuta passare dallo stadio psichico matriarcale a quello patriarcale. Sul piano soggettivo ciò non significa dover rinnegare il rapporto positivo con la madre che anzi rimane essenziale <<per poter diventare madre anche psicologicamente>>[26], bensì distaccarsi dalla totalità originaria e sperimentare il lato della coscienza, che anche la donna vive come simbolicamente maschile. Questo è il vero senso di ciò che il femminismo definisce come negazione patriarcale del simbolismo materno. In assenza di tale distacco, mentre il maschio subirà una castrazione simbolica, la femmina potrà lo stesso <<realizzarsi completamente dal punto di vista femminile e naturale>>[27], tuttavia non sperimenterà lo spirito.
L’ordine simbolico della madre auspicato dalla Muraro, in assenza di un ordine simbolico del padre, significherebbe né più né meno che la regressione all’indistinzione originaria, all’indifferenziazione tipica del rapporto simbiotico madre/bambino, orientato all’autosufficienza, all’onnipotenza, alla soddisfazione illimitata del bisogno.
Ma tutto ciò corrisponde in pieno alla logica del capitalismo attuale, emancipato dai fastidiosi limiti esterni che gli ponevano nelle prime fasi del suo sviluppo l’esistenza di una religione del padre e quella di classi, che per quanto contrapposte e in lotta l’una contro l’altra, avevano una loro weltanschaung irriducibilmente opposta o solo parzialmente sovrapponibile a quella del capitale.
<< In una disgregazione integrale sia dell’Io, sia del Super-Io [configurazione tipica della psiche attribuite dal femminismo al Patriarcato. N.d.r.], l’antropologia proposta dal capitalismo assoluto-totalitario è, su ogni fronte, quella della destrutturazione […] dell’ego cogitans cartesiano, destrutturazione volta a instaurare l’egemonia assoluta del desiderio illimitato, funzionale alla logica del cattivo infinito dell’accumulazione>>[28].
Verità soggettiva, illimitatezza e libertà del desiderio, ritorno alla madre e rifiuto del limite paterno, esaltazione oppure rifiuto di ogni differenza entrambi cangianti in in-differenza, così la rivoluzione sessantottina e femminista sono diventate funzionali alla logica de-emancipativa del capitale. De-emancipativa perché per attuarsi deve operare una regressione del soggetto all’indistinzione delle origini e re-immergerlo in uno stato di unificazione mistica col cosmo nella quale si perdono le differenze. Vale allora la pena, per terminare, spendere alcune parole sulla spiritualità new age. Lo faremo con le parole di Alessandra Nucci [29]. <<Il pensiero femminile quindi serve a veicolare […] anche un modo di pensare che corrisponde ad una filosofia totalizzante, ovvero al modo olistico di vedere il mondo come un tutto unico, in cui l’umanità è posta sullo stesso livello delle piante e degli animali e il raziocinio è secondario all’emozione. Questo corrisponde alla corrente di irrazionalismo neo-romantico femminista e New Age, che celebra la sorellanza mistica fra le donne di tutto il mondo. In virtù cioè dell’appartenenza al genere femminile, le donne che si mettono in sintonia colla natura supererebbero le barriere etniche e linguistiche per intendersi automaticamente e in quasi arcadica armonia sui temi della pace, dell’ambiente, della legalità ecc>>. E’ lo stesso programma del capitalismo globalizzato che intende unificare anch’esso il mondo, ma sotto la forma merce.
Note:
[1] Per una analisi più approfondita del concetto di Patriarcato rimando al mio libro La Questione Maschile oggi, Settecolori , 2014, nel quale propongo chiavi di lettura diverse e a mio avviso più congrue rispetto a quella corrente. Tuttavia in questa sede assumiamo per brevità il termine nel significato più comunemente accettato di sistema sociale fondato sulla discriminazione di genere.
[2] Per l’evoluzione del capitalismo da una prima fase astratta a quella odierna assoluta-totalitaria (definita come penetrazione del sistema delle merci e della sottesa ideologia in ogni poro della vita sociale e individuale), passando per la fase dialettica (definita dallo scontro di classe e dal permanere di forti contraddizioni anche all’interno delle classi), si veda Diego Fusaro, Minima Mercatalia, filosofia e capitalismo, Bompiani/RCS Libri, 2012/2013, e Costanzo Preve, anomalia della sinistra non normalizzata, in www.ilcovile.it n. 797.
[3] IL Covile n. 764, 768, 776, 788
[4] A. Nucci, La donna a una dimensione, femminismo antagonista ed egemonia culturale, Marietti 1820, 2006.
[5] Il Covile, n. 799
[6] A. Nucci, op. cit., pag. 22
[7] Si veda, ad esempio, la teoria dell’affidamento fra donne, teorizzata da A. Cavarero e F. Restaino in Le filosofie femministe, Paravia B. Mondadori, Milano 2002.
[8] A. N., op, cit., pag. 12
[9] Rino Della Vecchia, Questa metà della terra, Altrosenso Saggi, 2004
[10] A. Nucci, op. cit., pag 16
[11] Fabrizio Marchi, Le donne:una rivoluzione mai nata, Mimesis edizioni, 2007.
[12] http://www.communianet.org/content/riflessioni-degeneri-3-il-capitalismo-indifferente . .
[13] http://cronologia.leonardo.it/storia/a1972g.htm
[14] Si veda www.maschiselvatici.it/…/403-nuove-vecchissime-scemenze-sul-maschio e www.maschiselvatici.it/archivio/claudio_rise/maschio.htm
[15] Si veda Il Covile n. 357, I maschi, l’ultima porta, a sinistra, ripreso in A. Ermini, op. cit.
[16] http://senonoraquandoreggioemilia.wordpress.com/2011/05/16/intervento-di-luisa-muraro
[17] In Piero Coppo, Note a margine di L’ombra della madre di Luisa Muraro. In I fogli di ORISS, 29,2008, da cui sono tratte anche le citazioni successive.
[18] http://www.girodivite.it/Luce-Irigaray.html
[19] Erich Neumann, Psicologia del femminile, Astrolabio, Roma MCMLXXV
[20] E. N., op. cit., pag. 69,70,71
[21] Il Pensiero della Differenza:Luce Irigary, a cura di Wanda Tommasi, in http://www.filosofico.net/irigary2.htm
[22] Francoise Collin, Il pensiero della differenza. Nota su Luisa Muraro. In file:///C:/Users/Admin/Downloads/4643-4790-1-PB%20(2).pdf
[23] Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, 2006.
[24] http://www.ecologiasociale.org/pg/dum_fem_muraro3.html
[25] Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, 2011. Per la recensione del libro si veda http://www.maschiselvatici.it/index.php/libri-cinema-musica-eventi/abbiamo-letto/187-cosa-resta-del-padre
[26] Erich Neumann, op. cit., pag. 21
[27] Ibidem, pag. 20
[28] Diego Fusaro, op. cit., pag. 395
[29] A. N., op. cit., pag. 177
Fonte: http://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_804_Ermini_femminismo.pdf