Esistono numerosi fattori e motivazioni esterne che rendono difficile valutare in che misura il terrorismo c.d. islamico abbia una matrice intrinseca o estrinseca all’Islam stesso. Eppure ci si deve porre questa domanda da un lato per non cedere ad un complottismo superficiale e irrilevante (in questo sono pienamente d’accordo con chi ha scritto su queste stesse pagine che non è semmai il complotto a interessare in se, quanto piuttosto le motivazioni di fondo e come questo si inserisce nel quadro geopolitico generale) che assolve di fatto l’Islam da qualsiasi reale influenza su questo fenomeno valutandolo come del tutto eteronomo. Dall’altro lato si deve invece non cedere all’eccesso opposto nel vedere l’Islam nel quadro dello “scontro di civiltà”, se vogliamo ancora usare il tono geopolitico “aristocratico” di Huntigton e non finire addirittura per scadere nelle banalità indifferenziate dei commentatori ostili all’Islam che tirano l’acqua al mulino di un presunto Occidente giudeo-cristiano-platonico ed altro. Un Occidente gaudente costretto a cambiare, poverino, le sue “abitudini” senza vedere più le sue responsabilità dei suoi governanti nel ritorno del “Grande Gioco” in cui tanto arabi, che in generale musulmani o cristiani, sono solo pedine su una scacchiera dell’egemonia globale.
Dopo gli attentati del 13 novembre sono state date molte spiegazioni sui moventi dell’accaduto. Si è invocato innanzi tutto il legame con il sedicente stato islamico ISIS-ISIL-DAESH rilevando al contempo tutte le stranezze di questo ennesimo “califfato” alle cui origini certo non sono estranee le petromonarchie del golfo (giusto per dire quanto è ormai accertato e non andare oltre verso altri interessati padrini interni o esterni al medioriente), il revanschismo irakeno sunnita tra cui quello baathista, la Turchia da sempre alle prese col problema curdo, e non ultima, la situazione delicata degli sciti divisi dalla Siria sunnita tra Iran e Libano. A queste analisi si sono poi sovrapposte quelle “interne”, quelle dell’origine, in massima parte, occidentale degli attentatori, la loro vita grama nelle “banlieu” occidentali, la conversione o radicalizzazione, l’essere stati dei “foreign fighters” o averne tratto ispirazione attraverso le figure di amici o familiari, l’uso spregiudicato della rete e delle nuove tecnologie.
Ma in tutte queste concause probabilmente tutte vere e tutte comunque parziali come si inserisce e in quale misura l’idea di “Islam radicale”?
Qualche analisi ha parlato di “fascismo” termine che è decisamente fuori luogo a mio avviso quando si parla di Islam radicale. Infatti per “fascismo” (1) si intende una società che comunque non è dissimile da quella borghese in cui una classe egemone nazionale si mantiene a spese delle classi subalterne sfruttanto il mito della nazione (e nei tempi andati della razza ora sostituita piuttosto da un tentativo di egemonia della cultura), sistema che comunque va ad inserirsi in un modello capitalistico anche se al momento non è del tutto congeniale agli scopi e alle prassi dell’attuale capitalismo globale cosmopolita (e per tale motivo, almeno finora questo movimento “neo-fascista”, pur dotato ormai di un’ampia base sociale interclassista, non è mai arrivato al potere in quanto il blocco sociale delle vecchie sinistre socialdemocratiche, ormai completamente assorbite nell’orbita del capitalismo globale, e della destra liberale è comunque riuscito a mantenerlo ai margini nelle nazioni europee di maggior peso (2) ).
Lasciando quindi da parte le proiezioni sul radicalismo islamico di ideologie nostrane cerchiamo di rispondere alla domanda di sopra. Per farlo commenterò qualche brano di Bruno Etienne L’Islamismo Radicale (Rizzoli 1988 e 2001) a mio parere tutt’ora uno dei testi più chiari sull’argomento. Durante questo processo dovremo sempre tenere a mente come questa ideologia si offre come un’àncora, un baluardo, fondamentalmente egualitario, contro l’esclusione di classe ed il razzismo anche nei confronti di quei ragazzi delle banlieu che hanno saltato il fosso e prescindendo dalle convinzioni dei loro genitori si sono come si dice “radicalizzati”. Il germe è nella loro fame di autodeterminazione che va al di là dei semplici confini nazionali, infatti scrive Etienne (il passo si riferisce all’urbanizzazione delle campagne arabe, ma si applica bene anche alle enclosures come le banlieu nate nell’Europa della libertà): Il paradosso sta nel fatto che lo stato è sorto grazie all’ala progressista dei nazionalisti anche in quelle regioni fino a quel momento votate ai miraggi (mi’rag) o spirituale (assunzione). Limitiamoci ai miraggi dell’illusione ideologica: sono sempre stato affascinato dalla lettura contraddittoria degli autori marxisti compiuta dalla sinistra araba. Perché mi sembra difficile scoprire negli scritti dei fondatori del socialismo […] un argomento qualsiasi che permetta di inneggiare alla nascita di uno stato-nazione, se non in quanto fase temporanea; è utile ricordare che il grado dell’avanzata capitalista consente a Marx di esaltare la società borghese, fondamentalmente perché ha messo fine all’alienazione dell’uomo nei confronti della religione; ma siccome essa ha prodotto una nuova alienazione, economica questa volta, in seguito alla divisione del lavoro, essa si è fermata a metà strada nell’opera di emancipazione. Contraddittoriamente essa produce l’”omogeneizzazione dello spazio” perché il mercato possa funzionare. La formazione di un mercato interno costituisce il cambiamento e l’innovazione cruciale: esso omogeneizza, destrutturandole le solidarietà tradizionali. E’ possibile misurare con l’estensione del mercato interno … la pregnanza dello stato nei paesi arabo-musulmani, in base al tipo specifico di individualità creato dalla società di mercato. Un buon rivelatore che politicamente significa che solo la borghesia in quanto classe ha storicamente bisogno di libertà. Ma la presenza di una borghesia (al Cairo, a Casablanca o a Rabat) può essere il metro della libertà? Lo stato moderno ha messo fine all’alienazione religiosa? Il fallimento (apparente, provvisorio) su questo piano non dovrebbe far dimenticare che l’uniformizzazione territoriale e linguistica è stata l’espressione della necessità per la borghesia trionfante di darsi delle strutture politico amministrative che facilitassero la concentrazione del capitale e permettessero la conquista di un vasto mercato, anche interno. […]. In ogni caso, le trasformazioni radicali non colpivano allo stesso modo tutte le categorie sociali: mentre alcuni se ne andavano a studiare nelle università europee o americane, milioni di contadini venivano ad accalcarsi in città sempre più ingovernabili e a costituire in tal modo una potenziale clientela degli eserciti ufficiali, dei militari o … dei capipopolo. Il confronto reale non era solo una questione di definizioni; e in arabo, l’ambiguità tra patria e nazione è, se così posso esprimermi, chiarissima, perché i patriottismi locali sembrano incompatibili col nazionalismo arabo, perché lo stato non coincide sempre con la nazione, perché infine la nazione araba aspira ad uno stato che sia l’unico stato della nazione araba, mentre la comunità musulmana aspira ad uno stato che sia l’unico stato della “umma”. Come creare in queste condizioni singole patrie che possano sopravvivere a questa duplice aspirazione all’arabismo e all’islamismo? Gli arabi hanno una “matria” e si cercano delle patrie. Storicamente solo i partiti comunisti arabi hanno militato a favore di stati locali; i partiti ba’tisti si sono battuti per raggruppamenti sulla base di una comunanza linguistica e storica araba, mentre i movimenti islamici si battono per l’unità fondata sull’unicità e sul destino escatologico della “umma”. La tensione è dunque tra la “watan al-‘arabiyya” e la “umma al-islamiyya”: cioè tra nazionalisti e ummisti (3) .
Quindi dobbiamo comprendere come l’Islam radicale si inserisce in un discorso in cui lo stato-nazione è oggettivamente debole, mal definito e (mal)visto come un prodotto occidentale in regioni… fino a quel momento votate ai miraggi. Nonostante questo tuttavia un ruolo non trascurabile viene giocato dal nazionalismo arabo che è in tensione con l’Islam stesso, mentre vuoi per errori di prospettiva o per incapacità di analisi la sinistra araba è stata progressivamente marginalizzata da questo scontro. (E questo conta molto probabilmente anche per spiegare l’attrazione esercitata dall’ISIL-ISIS principalmente sulle masse arabe.) Nonostante lo scontro violento e sanguinoso tra gli stessi arabo-musulmani (già nel 1988 Etienne scrive “eppure da una decina d’anni le guerre che si svolgono in questa regione non hanno niente da invidiare a quella del ’14-18)”. Ma qui dobbiamo anche porci un problema che è emerso più volte anche nelle analisi recenti sull’Islam: la richiesta, molto ipocrita alle volte, agli esponenti della c.d. comunità musulmana di prendere le distanza dal terrorismo. Distanze da che? Di cosa parliamo? Seguiamo ancora Etienne in questo pezzo che poi prosegue nello “Stato allogeno”:
L’occidentalizzazione poneva infatti il problema della secolarizzazione dello Stato. Per questo, occorreva riservare all’Islam la sfera metapolitica dell’escatologia e dei fini ultimi e quella infrapolitica (la vita privata), lasciando gli altri ambiti allo Stato e all’ideologia nazionale e progressista. Nella cultura arabo-musulmana, il ritorno alla tradizione del Profeta rappresentava l’alternativa alla sovranità politica, indipendentemente dalla forma del potere. I chierici ufficiali, gli ‘ulama’, hanno dato sempre prova nella realtà di legittimare qualsiasi potere, suscitando in questo modo la comparsa di chierici rivali, che dal canto loro, non accettavano di giustificare qualsiasi potere, ma anzi scoprivano nella tradizione un messaggio contestatario. In altre parole, ci troviamo di fronte ad una difficoltà di classificazione che contraddice parzialmente il ruolo di intellettuale proposto da Gramsci: all’interno della categoria degli intellettuali tradizionali, i più organici sono i meno dotti; ma allo stesso tempo, la rinascita dell’Islam scritturalista, dovuta ai tradizionalisti, ha contribuito a far nascere una coscienza collettiva nazionale in seno alle masse musulmane, in un senso tuttavia che può essere riletto in funzione dell’eredità arabo-musulmana. E’ quel che i gruppi islamici fanno denunciando l’allogeneità dello Stato. […]. Resta da porre un’ultima domanda impertinente: esiste lo Stato nell’area geografica di cui ci occupiamo? E’ legittimo sostenere che non esiste Stato in senso moderno prima di Hegel? […] Se rileggiamo in un’altra ottica i pensatori arabo-musulmani antichi (Mawardi, Ibn Taymiyya, Gazzali, al-Maqrizi, Ibn Qutayba,…) sembra alquanto difficile trovare giustificazioni alla creazione di uno o più stati-nazioni separati dalla comunità musulmana. Occorre aspettare il 1925 e il libro rivoluzionario di ‘Ali ‘Abd ar-Raziq perché un autore arabo affronti il principio della separazione tra religione e potere politico (al-islam wa usul al-hukm). […]. Sembra invece che uno degli aspetti originali del pensiero arabo-musulmano sia stato e sia quello di negare ogni divisione tra società civile e società politica: la Comunità musulmana è una società fondata su principi e in questo senso l’Uno e l’Universale sembrano agli occhi dei teorici arabo-musulmani, più promettenti del “parrocchiale”, del locale e dell’individuale. Così non è eccezionale trovare nel pensiero arabo-musulmano il diritto imprescindibile alla violenza contro lo Stato quando esso, dimentico delle sue origini teologiche, non è più conforme alla “umma”. Ogni volta che lo Stato musulmano tradisce le aspettative della Comunità, si produce una rottura (fisq) che rende impossibile la redenzione se non attraverso il modello dei primi tempi dell’Islam e della sari’a. Lì sta la connessione tra la Comunità e la politica, nel senso di gestione della Città (4) .
Possiamo dunque dire rivoluzione? Certo non è una rivoluzione “consevatrice” (5) , di rivoluzione di tratta: abbattere il sistema. Il palazzo va preso ma non è il progresso il motore ma la tradizione! Comprendiamo quindi che vi è un completo capovolgimento dell’ottica occidentale secondo cui la rivoluzione è il progresso, complice l’enorme sviluppo della scienza moderna da cui il capitalismo ha preso la tecnica per trasformare il mondo ed il lavoro dell’uomo. Solo di recente in occidente l’ideologia della crescita e del progresso è stata messa in discussione dai teorici della decrescita (e qui non si può non pensare ancora all’influenza della religione e alla recente enciclica del Papa “Laudato si’”), ma ascoltiamo ancora Bruno Etienne:
“E’ per questo che, secondo me, il problema del califfato è risolto da molto tempo, un po’ perché i turchi, non essendo arabi, non potevano trasmetterlo, ragion per cui hanno fatto bene ad abolirlo, e un po’ perché oggi nessun capo di stato arabo-musulmano può avanzare pretese sull’imamato della Comunità musulmana. Infatti il “qutb”, il polo, è sconosciuto in base alla versione esoterica della vera gerarchia del mondo, la quale non è conosciuta se non dai veri iniziati. Ma aspettando la fine dei tempi, questa visione comporta che le autorità politiche abbiano un solo dovere: quella di dotare la Umma di una organizzazione temporale a partire dall’appello alla diffusione del messaggio divino trasmesso dal Profeta, per condurla alla salvezza. E’ quanto gli islamici (radicali n.d.c.) ricordano con decisione: essi invocano, come gli ortodossi, la trascendentalità. Se i chierici delle tre religioni monoteiste si sono sempre serviti delle stesse giustificazioni per legittimare le loro manipolazioni, l’originalità dei chierici islamici sta nell’avere attinto allo stesso bagaglio degli ortodossi reinterpretando l’eredità a loro vantaggio. Il conflitto tra l’ordine e il sistema non può essere risolto se non attraverso la modificazione di quest’ultimo, poiché l’ordine è trascendente; le teorizzazioni dei movimenti islamici, per quanto screditate, costringono a rivedere le cose, perché elaborano un ordine al quale la società fa riferimento”.
La diffusione del radicalismo islamico è avvenuta grazie a “piccoli imprenditori (religiosi) indipendenti” (gli stessi che oggi ritroviamo come “imam” in certe moschee di periferia anche in occidente):
“La loro voce è quella di un intellettuale collettivo che rilancia l’idea di gihad (jihad)e insieme concretizza le rivendicazioni popolari utilizzando materiale vecchio in senso nuovo. Questa collettività è formata da “piccoli imprenditori (religiosi n.d.c.) indipendenti” che presentano un certo numero di caratteristiche comuni, dall’Atlantico al Golfo; militanti di una trentina d’anni, essi sono il prodotto della massiccia scolarizzazione in lingua araba, frustati dall’impossibilità di ascesa sociale dovuta alla concorrenza dei rampolli della borghesia, privata o di stato, educati all’estero o in istituti legati a paesi stranieri. Inoltre la quasi totalità di costoro si è urbanizzata dopo il conseguimento delle indipendenze nazionali. I chierici ufficiali (ortodossi n.d.c.) possono facilmente accusarli di approfittare delle scorciatoie della storia, perché la loro educazione si è compiuta solo a metà: troppo forte è poi la concorrenza dei partiti politici perché arrivino a realizzare una mobilitazione sociale in senso moderno. E per di più ricorrono ad anacronismi per individuare il nemico attuale; è così facile per gli ‘ulama’ o per la sinistra ricordare che essi fanno una lettura erronea di Ibn Taymiyya o di Maqrizi. Ignorando le dispute tra dotti, i quali ben sanno che Ibn Taymiyya parlava dei mongoli, gli islamici (radicali) non nutrono alcun dubbio sul fatto che la classe politica dominante, mongoli, mamelucchi o israeliani, “se non è zuppa, è pan bagnato”. Le scorciatoie storiche hanno per loro tanto più senso in quanto il tradimento dei chierici impedisce di concepire e di recuperare la loro stessa storia: e le parole utilizzate per abborracciare delle strategie sono forse il prodotto di ideologie di infimo ordine o da bazar, ma vertono più sull’essenza del religioso … che sull’autenticità o la verità del contenuto storico. … c’è infatti rottura tra i gruppi islamici e i loro referenti classici, ma c’è sicuramente continuità nella manipolazione del vocabolario religioso” (6) .
A maggior ragione la lettura dell’Islam abbozzata dai terroristi è superficiale, ma allo stesso tempo essa pesca proprio nell’urgenza di abbattere il sistema perché percepito come allogeno, errato, fuori della “tradizione” che diventa in questo caso una guida alla rivoluzione. Ma la scissione non si limita alle prassi, ma è anche nella teoria: la “Trahison des Clercs” si manifesta col fatto che l’appoggio dei cultori della tradizione è negato. All’ennesimo attentato l’occidente ignorante chiede l’abiura della violenza a chi (al-Azhar o altri che siano, le comunità islamiche sparse tra oriente e occidente) viene percepito come l’alleato del Faraone da abbattere, di fatto producendo l’effetto opposto a quello voluto e rinforzando nei radicali l’idea che il sistema deve essere abbattuto.
Tutto questo sebbene politicamenente (lo diceva Gilles Kepel in Jihad) l’Islam radicale è fallimentare. Come movimento egualitario nell’attuale fase neo-imperialista del capitalismo avanzato, questo fallimento non è poi tanto dissimile da quello della sinistra occidentale. Tant’è che le sue strade sono solo due, eguali per certi versi a quelle del movimento post-68 in occidente, il ritorno alla politica, il cosiddetto “riflusso”, o la lotta armata. Nel primo caso si ha l’accettazione del modello in una sorta di replica del sistema politico occidentale in sostanza la tradizione, con il suo contenuto incommensurabile, viene incanalata in una espressione politica ben definita: un partito. Questo tentativo ben lungi dall’essere risultato vincente, e quindi rimasto a metà tra impegno politico e lotta armata, è nato con al-Ḥasan al-Bannā nel 1928 fondatore dei Fratelli Musulmani e con molti altri gruppi simili. Le fortune o le sfortune politiche di questo movimento sono note: percepito come un pericolo da tutti i despoti arabi è stato perseguitato in mille modi e posto fuorilegge in diversi stati con la complicità dell’occidente (l’ultimo clamoroso caso è stata la destituzione del presidente eletto Morsi in Egitto con un colpo di stato). E’ singolare che solo in Turchia, stato non arabo e con una tradizione laica molto forte, un partito di ispirazione islamica sia al potere (7) , partito che ha una certa affinità ed anche dei rapporti politici con i Fratelli. Ma qui parliamo già di una sorta di Democrazia Cristiana in salsa turco-islamica con in più le spezie del nazionalismo turco di certo non favorevole agli arabi. Gli odiati turchi, che proprio Sayyid Qutb, il grande ideologo dei FM (8) , aborriva per le loro colpe storiche non ultima l’abolizione del califfato.
Certamente ad un livello ideologico più alto siamo alle prese poi con un sistema diverso in cui l’esoterico prende costantemente il sopravvento sull’essoterico. In cui l’ordine “nascosto” al quale il sistema del mondo deve essere periodicamente riportato in accordo crea uno iato tra il modello scientifico-razionale di derivazione occidentale e il mondo islamico. Le implicazioni sulla natura dello stato e della società non sono semplici e si scontrano non solo con l’attuale ipostasi della modernità capitalista, ma anche con altre concezioni della storia progressive, marxismo incluso. Sebbene questo in parte sia vero per ognuna delle religioni monoteistiche, ciascuna delle quali aspira allo Stato Etico se non Confessionale, per l’Islam in generale, e ancor di più per il l’Islam radicale, la mancanza di un processo di secolarizzazione della religione e il suo carattere anti-statale, ne rende difficile, se non impossibile, il rapporto con le forme di gestione del potere odierno, nonostante l’aspirazione fortemente egualitaria e universalistica di questa religione.
In questo fallimento dell’Islam radicale si riflette la disperazione di chi, soprattutto in occidente, si radicalizza e prende le armi in nome di un’ideologia tra il religioso ed il politico, in cui un ruolo ha certamente la vuotezza e l’assenza del sistema valoriale occidentale ormai fondato esclusivamente sul capitalismo avanzato e la mercificazione di ogni cosa. Interviene come abbiamo visto il capovolgimento dell’idea di sovvertimento che passa attraverso una tradizione recuperata in modo anche superficiale, ma vi gioca un ruolo non secondario anche il panarabismo, la povertà, la visione di un medioriente distrutto e affossato da guerre ormai trentennali. L’identità di questi “beurs” è messa a dura prova gettata tra la mortificazione data dall’irraggiungibile edonismo occidentale, la perdita di di ogni speranza di cambiamento, ed il richiamo di una prospettiva “altra” dimenticata, ma ricca di una visione universale, comunitaria, pensiero forte opposto a pensiero debole, riscoperta all’improvviso da qualche imam radicale di passaggio o reperita nei meandri della rete. Se queste sono cause o con-cause che valgono per le seconde e terze generazioni europee di immigrati, a più forte ragione valgono nel medioriente martoriato dalle guerre imperialiste.
Per meglio capire dovremmo forse ricorrere all’antropologia, quella che Etienne praticava “sul campo” viaggiando per il Maghreb:
“Qualche anno dopo in Marocco carico un’antostoppista ancora relativamente giovane, barbuto e con una treccia da una parte che indossa l’abito arlecchinesco “muraqa’” dei pellegrini.
Nel frattempo avevo lavorato molto sulla religione e sulla mistica. Dopo i consueti saluti, perché già allora padroneggiavo con relativa facilità il vocabolario religioso, attacco subito: <Sei un viaggiatore sulla strada di Allah?> e aggiungo, buttando lì a caso: <Chi ti ha dato il primo tappeto? E la prima cintura? Che rosa porti?>. L’uomo sorride e, volgendosi verso di me, mi chiede se sono musulmano; nonostante la mia risposta negativa, mi dice: <Si porto la rosa di Sidi ‘Abd al-Qadir. Ma come lo sai tu, un kafir?>. Allora gli spiego che insegno storia delle idee politiche arabo-musulmane a Casablanca, e lui, dopo avermi interrogato a lungo, mi racconta la sua vita. E’ la sesta volta che va alla Mecca, ma è stato anche a Damasco e a Baghdad sulla tomba di Ibd Arabi e di Sidi ‘Abn al-Qadir al-Gilani. E’ andato anche a Gerusalemme. Non ha documenti… e di fronte al mio stupore: <Ci sono fratelli dovunque, e luoghi, segni…vieni con me stasera, incredulo, e vedrai…>.
Mentre procediamo mi spiega che il solo serio fastidio che ha avuto in quindici anni (ci mette circa tre anni per compiere un pellegrinaggio Marocco-Machreq, andata e ritorno), è stato in Libia alla frontiera egiziana. Non arrivo a capire quando perché i suoi calcoli sono per me incomprensibili, ma è stato durante uno dei conflitti che hanno opposto i due stati. Mi conduce allora in un piccolissimo villagio e veniamo accolti da gente che, pur non aspettandolo, lo conoscono manifestamente. Saluti, tè alla menta. Sono tutti seduti, e il mio uomo parla. Stavolta capisco di più. Parlerà fino a notte inoltrata e grandi e piccini, uomini e donne, giovani e vecchi (siamo una qundicina nella stanza) sottolineano il suo racconto con approvazioni, formule rituali, e anche brevi preghiere. In meno di quattro ore racconta tutto: il Profeta, il mondo, la guerra, l’emigrazione, le gesta degli arabi, gli splendori della civiltà musulmana, l’empietà dei benestanti e dei potenti, l’ipocrisia dei falsi musulmani…tutto. Dirige la preghiera della sera, poi mangiamo tutti insieme (con la mano destra); dopo il pasto silenzioso e le abluzioni, gli astanti gli pongono delle domande. Quando mi addormento, sta ancora rispondendo su tutto e a tutto. Sento anche parlare di pillola contraccettiva…
L’indomani mattina, al mio risveglio, se ne è già andato e mi ha lasciato un talismano. Su un pezzetto di carta mi ha scritto a doppia voluta intrecciata la parola araba corrispondente a “Lui”, il che da sinistra a destra risulta HW-WH. L’ineffabile, il multiforme dai novantanove nomi…
1) Naturalmente questa è una mia definizione, che è già un’estensione di quello che di definisce “fascismo storico” e che può essere ulteriormente estesa forse, ma a mio avviso non forzata oltre certi limiti assurdi per cui “fascista” è tuttociò che non si riconosce come il modello di sviluppo capitalistico attuale fondato sull’”esportazione della democrazia” ed i “diritti umani”.
2) L’analisi di questo tema prenderebbe da solo ben più di un semplice articolo, basti dire che l’abbraccio “mortale” tra le versioni attuali di destra e sinistra ha avuto più di una conferma coi governi di unità nazionale in Germania, coll’alleanza anti-FN dei socialisti e del centro destra in Francia, e con la transizione in Italia da Berlusconi a Renzi i cui programmi sono molto simili se non identici.
3) Bruno Etienne, L’Islamismo Radicale, Rizzoli 1988/2001, cap. 3.
4) Bruno Etienne, ibidem.
5) L’idea occidentale di “rivoluzione conservatrice” mal si applica qui. La “rivoluzione conservatrice” è un movimento elitario dall’alto eminentemente culturale e non una vera rivoluzione.
6) Bruno Etienne, ibidem.
7) Tralascio volutamente il caso di Gaza che è troppo particolare per rientrare in un’analisi politica generale.
8) Giustiziato nel 1966 e giudicato “eretico” dagli ‘ulama’ di Al-Azhar. Qutb è interessante anche perché ha di fatto subito una certa influenza da Carl Schmitt come critico dell’occidente, quindi in una certa misura una critica di destra, sebbene egli credeva nella giustizia sociale e nella ridistribuzione del reddito e come abbiamo osservato con anche con Etienne, l’islamismo radicale non è compatibile con un stato-nazione forte opposto alla ‘umma dei fedeli.