Il 25 aprile corre il rischio di diventare una stanca liturgia nella quale le parole sulla democrazia e sui partigiani divengono vuota cerimonia.
Per decaffeinare il 25 aprile 1945, giorno della liberazione dal nazifascismo, è sufficiente cadere nella retorica del nemico sconfitto ma sempre alle porte. Il tocco degli stivali dei nazifascisti è sempre in marcia, il passo dell’oca continua a marciare, per cui il tempo della democrazia è lotta contro gli spettri del passato che potrebbero ritornare in ogni momento. Si inocula il virus della paura/terrore del nazifascismo, a cui è stata aggiunta quella del comunismo reale, contro cui bisogna far da ronda come il protagonista nel deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Si scruta eternamente l’orizzonte, ma si rimuove il presente.
Lo scroscio di applausi nelle manifestazioni è simile al gesto superstizioso di coloro che vogliono allontanare gli spettri con rumori e fuochi pirotecnici. Il passato non tornerà più, su questa banale verità si gioca il senso politico con cui si vive il 25 aprile.
Per onorare gli uomini che sono caduti per la libertà e per la giustizia sociale dobbiamo uscire dalla retorica degli applausi in passerella.
Il 25 aprile è una data da ricordare affinché la lotta contro le ingiustizie non sia semplicemente rivolta alla sola lotta partigiana italiana, ma si innalzi fino ad abbracciare le storie nazionali e locali nelle quali gli uomini non si sono adattati, non hanno preso la forma degli stivali, ma si sono sottratti al giogo con la resistenza contro il nemico. Insieme ai nostri partigiani, alla nostra storia quale patrimonio da difendere e trasmettere, dobbiamo ricordare la resistenza dei VietCong e dei paesi che hanno rovesciato il colonialismo e le dittature del secondo dopoguerra.
Facoltà di giudizio
Il 25 aprile vive e continua non nell’astratta memoria, ma nella prassi di coloro che oppressi e razziati hanno ribaltato situazioni storiche impossibili. Non è la vittoria l’elemento da ricordare, ma la lotta di coloro che con piccoli e grandi hanno resistito alla violenza dei sistemi che offendono e umiliano la dignità umana. Trasmettere il 25 aprile diviene, in tal maniera, non un gesto cerimonioso, ma la dimostrazione che lo spirito della lotta non si estingue, ma continua a vivere nei popoli che non hanno subito la storia, non si sono limitati ad una “volontaria servitù”, ma hanno deviato dal cammino della normalizzazione e hanno defatalizzato la loro storia. Ricordare non dev’essere, dunque, solo memoria di ciò che fu, ma concetto e prassi per cogliere le metamorfosi del dominio e porre in atto nel presente “il meglio che abbiamo imparato” da coloro che hanno perso e donato la vita affinché la speranza diventasse progetto politico.
La violenza non li ha fermati, in quanto non sono stati dei nichilisti, ma uomini e donne che hanno creduto nell’oggettività del bene con la razionalità incarnata nelle loro scelte. Razionalità etica e solidale, in quanto lo scandalo per l’ingiustizia si è tradotto in pensiero e progetto politico dialettico e dialogico.
Ricordare dovrebbe strapparci dal torpore nichilistico e favorire l’attivarsi della facoltà di giudizio. La nostra resistenza deve guardare a quel 25 aprile nel quale fu la facoltà di giudizio a determinare la defatalizzazione e a diventare il nucleo non contrattabile con cui fu messo in atto l’urto e l’urlo contro lo stivale che schiacciava i popoli. La facoltà di giudizio è ciò che manca nel nostro tempo; le moltitudini hanno rinunciato a giudicare la qualità politica ed etica del nostro tempo; hanno scelto la resilienza. I partigiani scelsero la resistenza per cambiare radicalmente la società, non si adattarono, è questo il loro valore eterno.
Cosa è un essere umano che rinuncia alla facoltà di giudizio per adattarsi mollemente al sistema? Dobbiamo riappropriarci delle domande, un sistema che neutralizza le domande che “lavora” per l’adattamento e per inibire la facoltà di giudizio non è democratico, rende l’essere umano “superfluo”.
25 aprile contro aziendalizzazione dell’esistenza e delle istituzioni
Dobbiamo consegnare alla storia, senza dimenticare, l’esperienza nazi-fascista, e individuare lo stivale che ci opprime: il capitalismo assoluto con l’aziendalizzazione della vita e delle vite. Nel nostro presente drammatico il nemico va definito, in tal maniera scacciamo la retorica, per ritornare a vivere l’effettualità della storia. Resistere all’aziendalizzazione corrosiva del dominio crematistico non significa solo non lasciarsi aziendalizzare e non diventare “pescecane nell’acquario del capitalismo”, ma progettare un modo di vita e di esserci alternativo.
Senza progettualità ed impegno gratuito il 25 aprile è solo una data che si succede alle innumerevoli date e feste che si ripetono e che hanno smesso di parlarci. Il punto nodale è questo, il 25 aprile deve diventare parola e dialogo con i nostri partigiani da trasformare in comportamenti e concetti da vivere nel presente. Il pensiero cerimoniale e la retorica sono forme di silenzio, in quanto vorrebbero trasmettere e consegnare la lotta al passato, in tal maniera con i partigiani non ci relazioniamo, sono solo vuota ridondanza.
Dobbiamo riprenderci le parole, contestualizzarle e farle vivere nel presente.Il 25 aprile si ripete nel quotidiano ogniqualvolta non accettiamo fatalmente l’ingiustizia e le disuguaglianze, se i diritti divengono privilegio e il dominio pervade ogni vita rendendola mezzo e non fine, allora è l’ora di riprendere i sentieri etici tracciati dai partigiani.
Abbiamo il dovere etico di riannodare le fila della lotta contro l’aziendalizzazione integrale della vita pubblica e della vita privata.
Se la scuola è un’azienda ha clienti e non alunni in formazione, il merito è sostituito dal denaro che determina il “successo formativo”. Se la sanità è un’azienda la salute è un prodotto da vendere sul mercato dell’offerta sanitaria. Il censo sarà la variabile che consente di comprare la salute. Se la RAI è un’azienda non informa e non partecipa alla dialettica democratica, ma è solo uno spot perenne ideologicamente condizionato finalizzato a far quattrini. Se l’arte e la cultura sono il petrolio della nazione, è la storia di una nazione ad essere messa in vendita. Il tempo libero è manipolato dall’industria del divertimento; ogni attimo delle nostre vite è controllato, trasformato in dato al fine di condizionarlo e venderlo.
Il giorno della liberazione per coloro che credono nella Repubblica e nella Costituzione è ogni giorno, non è spettacolo e artificio, ma riflessione condivisa per progettare il futuro sulle contraddizioni del capitalismo.
Noi vogliamo altro, dobbiamo essere veicolo e modello di un altro modo di esserci nel presente, ora, per rompere la cappa plumbea dell’aziendalizzazione integrale, il nuovo totalitarismo che divora le vite e la vita tutta.
I partigiani sono fari di libertà, ci illuminano sul bene e sul male e sula responsabilità storica da assumere.
Un giovanissimo aderente alla resistenza poco prima dell’esecuzione, Giordano Cavestro (Mirko) scrisse parole che attraversano il tempo:
“Parma, 4-5-1944 Cari compagni, ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà[1]”.
La grandezza etica del loro sacrificio dovrebbe essere con noi ogni giorno. Per la dignità di tutti da esseri umani bisogna ricordare coloro che con il loro esempio ci hanno dimostrato che vivere diversamente è possibile.
[1] Lettere selezionata sono tratte dai libri di Malvezzi e Pirelli (“Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”, Einaudi, Torino 1994e quindicesima edizione) e di Avagliano e Le Moli (“Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza a Roma”, Mursia, Milano 1999).