Il G7 è terminato, lo
spot pubblicitario Puglia è andato in onda a reti unificate. Verità e
capitalismo non sono coincidenti. A pochi km da Egnatia, dal borgo dei resort e
del lusso, nel quale i Grandi della Terra hanno ricevuto anche la benedizione
papale, si brucia e si muore di cancro. Il capitalismo nell’attuale fase è un’immensa
organizzazione volta a rimuovere la realtà e la verità su se stesso mediante i
suoi fedeli difensori. La guerra è il connotato del capitalismo. La guerra è
sui fronti, sul lavoro e nei luoghi di produzione. L’acciaio è la linfa della
produzione dei beni, l’acciaieria più grande d’Europa a Taranto è più grande
della stessa città, è la sintesi tragica
del capitalismo. I lavoratori muoiono in nome del capitale. Gli abitanti di
Taranto nella loro totalità sono sottoposti ad una lenta agonia con il ricatto
del lavoro. Un intero territorio subisce quotidianamente una guerra che ormai
dura da più di cinquant’anni. Chi non ha conosciuto che la guerra e la morte non
osa immaginare un’altra possibilità. Chi può emigra, chi resta respira, lavora
e muore. A Taranto e, in particolare nel
quartiere Tamburi, il tasso di mortalità per cancro dovuto alle polveri rosse è
straordinariamente alto. Ai bambini è interdetto il gioco nelle aiuole, sono
avvelenate come l’aria.
Il Consiglio per i
diritti umani dell’Onu il il 12 gennaio
2022, ha definito Taranto “zona di sacrificio” .
L’ONU così scrive:
“Le zone di sacrificio spesso sono create dalla
collusione di Governi e imprese. L’acciaieria Ilva di Taranto, in Italia, da
decenni compromette la salute delle persone e viola i diritti umani”.
Il termine“zona di sacrificio”è esplicativo,
rammenta per associazione l’olocausto nel senso etimologico del termine.
Olocausto dal greco holòkaustos, interamente bruciato, è termine che ben si
aggrada alla città di Taranto. Il capitalismo è esperienza religiosa perversa,
esige il sacrificio totale, ma quest’ultimo non è finalizzato alla vita ma alla
morte. Taranto brucia nelle fiammate dell’acciaieria. L’ONU per “zona di sacrificio” indica un’area geografica in cui sono negati i
diritti umani in nome dell’economia e della produzione. Lo Stato non interviene
per ristabilire i diritti negati e per bonificare l’ambiente, poiché lo Stato è
il mercato, è a servizio delle oligarchie. Si perseguono interessi privati col
sacrificio di una intera popolazione sottoposta ad un lento olocausto, ad un
inesorabile soffocamento. Le diossine che uccidono penetrano nel corpo
lentamente, sono respirate, pertanto l’aria donatrice di vita diviene soffio mortale.
Il terreno è anch’esso avvelenato nei suoi strati superficiali e profondi. Il
cittadino tarantino suddito dell’acciaieria è preso da un avvelenamento totale:
respira polveri rosse, le tocca, lo avvolgono, sono sulla sua pelle, è vestito
di polvere rossa. L’ONU definendo Taranto
“zona di sacrificio” ha
denunciato una condizione nota desunta dai dati statistici ormai incontestabili
che indicano eccessi tra il 7% e il 15% per la mortalità generale e per i tumori.
I media tacciono, preferiscono parlare dei Grandi della Terra, mentre i popoli
sono oggetto di violenza. A Taranto secondo il report dell’ONU sono negati i
diritti umani e nel contempo in Italia si spendono cifre inaudite per “ le missioni
di pace e per la guerra conclamata”, in nome dei nostri valori, come la
retorica europeista ed italiana dichiara trionfalmente. Dinanzi a
contraddizioni tanto evidenti non si può che restare scandalizzati. Cerchiamo
d’immaginare i tarantini come hanno vissuto la retorica dei Grandi della Terra
con la benedizione del Papa della misericordia. Per loro il silenzio, mentre la
Puglia ridotta ad una prospettiva edenica tra uliveti, resort, mare e borgo che
più bianco non si può, andava in onda su ogni canale di Stato e privato. La
verità di ciò che i tarantini, specie i più poveri, vivono da decenni è
occultata, per loro non c’è che un presente in cui il respiro è un lusso che
non si possono permettere, poiché il Leviatano d’acciaio deve produrre acciaio
e sacrificare sull’altare della valorizzazione dei profitti uomini, donne e
bambini. I bambini sono i più penalizzati, uno Stato che non difende le nuove
generazioni ha smesso di essere Res-publica,
è lo Stato dei potenti e delle oligarchie.
Giuido Piovene così descrisse Taranto nel 1957 in Viaggio in Italia prima che lo sviluppo senza progresso la
canibalizzasse per sempre:
“Taranto è vivace e
mossa, la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante,
stimolante, direi cantabile…Vive tra i riflessi in un’atmosfera traslucida
adatta a straordinari eventi di luce. Questo porticciolo orientale, questa
popolazione di pesci e molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani’’.
Immaginiamoci se potesse riscrivere il suo viaggio, oggi, tra diossina,
morti precoci e un ambiente devastato per sempre. Per poter comprendere ciò che
Taranto subisce non è sufficiente la ragione, il “nostro essere nella sua
totalità” deve fare uno sforza enorme per associale la realtà descritta da
Guido Piovene alla “zona di sacrificio”che
l’ONU ha denunciato.
Poesia e lotta perla vita
La Taranto del 1957 è persa, ma il suo ricordo può essere d’ausilio per
motivare i tarantini e non solo a non accettare fatalmente il sacrificio
dell’acciaio. I veri Grandi sono le madri e i padri di Taranto che hanno perso
i loro figli e ciò malgrado lottano per un presente migliore e per donare a
Taranto un futuro in cui non si muore e non si emigra, ma semplicemente si
vive. La città dei due mari è anche città delle due vite, vi è una Taranto
devastata dal dolore e resa cenere, ma vi è una Taranto che sta rinascendo
nelle associazioni. Vi sono cittadini che non si lasciano più ricattare e non si adattano al destino di morte e di
deserto rosso che altri hanno deciso per i tarantini. Il lavoro dev’essere fonte
di vita, quando il lavoro è causa di morte si chiama “sacrificio”. Taranto era
città di mare e di terra, come tutta la Puglia, ora la terra, madre di vita non
produce frutti; la polvere rossa l’ha resa sterile, i suoi frutti devono cadere
sul suolo inquinato. Il veleno si nutre di veleno. Dove sorge l’acciaieria vi erano ulivi,
anch’essi sacrificati per un ingannevole benessere che ha condotto Taranto ad
essere ciò che è oggi.
La poesia di Pasquale Pinto, ex operaio dell’acciaieria, ora non più
tra noi, è parte della letteratura operaia ignorata dal Leviatano del potere.
Pasquale apre il testo “Terra di ferro” con i seguenti versi che non sono solo
da leggere, ma devono indurci ad immaginare la vita che cade sotto il peso del
dominio dell’acciaio:
Un operaio
è caduto l’altro giorno
da un altoforno
70 metri
sempre in giù
sempre più giù
verso la terra dei vivi
salutata finalmente dal cielo.
La loppa tiepida
ha ripreso a fumare
col sangue delle narici.
Un tecnico
forse del Nord
forse del Sud
pieno di vita come il sole
gli si è chinato
con le mani di una madre
con le mani di tutte le madri
che attendono sugli usci gialli
come terra la pioggia di settembre
(La terra di ferro, cit., p.
95)
Sta a noi
scegliere se schierarci con l’acciaio o con la vita, ad ognuno la sua scelta,
ma ogni scelta è fondamentale per rendere il mondo un posto dove vivere o
morire. Di Pasquale Pinto ricordiamoci, leggiamo le sue poesie, le quali sono
un viaggio nella realtà senza il quale non c’è futuro, ma solo “zona sacrificio”. La
letteratura operaia e la poesia possono contribuire a pensare il presente, a
porre in essere i processi di realtà con i quali poter guardare oltre la “zona
di sacrificio”.
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