Parla poco o nulla l’inglese ed è
nullo in francese. Mohammed si presenta una mattina col foglio plastificato
dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati rilasciatogli
dall’ufficio di Niamey. Da allora passa ogni due settimane per salutare e ottenere
di che sopravvivere qualche giorno in più. Invece di continuare ad alloggiarsi
in strada, presso l’ufficio delle Nazioni Unite, tra polvere, vento e pioggia
quando sarà la stagione, ha trovato un posto presso la ‘Casa del Togo’. I
responsabili delle Casa accolgono anche migranti o rifugiati originari di altre
nazionalità e offrono l’alloggio, i servizi igienici e un minimo di decenza per
il riposo. Per ragioni comprensibili non sono in grado di nutrire gli ospiti
che, in qualche modo, devono darsi da fare in un contesto complicato per tutti
e in particolare per uno straniero incapace di comunicare.
Le segnalazioni all’Ufficio, per
vari motivi, non hanno prodotto nessun risultato apprezzabile. Mohammed
possiede un documento delle Nazioni Unite e un altro dell’Ufficio Nazionale di
Eleggibilità che lo riconosce, per ora, come richiedente asilo. Dopo un anno
circa, fatte le debite indagini, detto ufficio deciderà se Mohammed potrà
essere riconosciuto come rifugiato a pieno titolo. Nel frattempo Mohammed non esiste per nessuno. Non ha una casa, un
minimo di aiuto finanziario e neppure un futuro che vada oltre l’infinita e
temibile attesa quotidiana del cibo. Mohammed è stato battezzato in Egitto col
nome di Gabriele o Jibril. Passa talvolta la domenica mattina per la preghiera presso
la piccola comunità di credenti cattolici nel quartiere di Niamey chiamato
‘Francofonia’, a causa dei giochi omonimi celebrati nel lontano 2005.
Nella lettera che recapita
stamane, debitamente tradotta in lingua francese, si intravvede meglio il tipo
di avventura che l’ha condotto fino a Niamey l’anno scorso. Nato a Sabha al sud
di Tripoli in Libia, ivi ha vissuto con la famiglia composta dai genitori, una
sorella minore e due fratelli maggiori. Trasferitosi a Tripoli con i genitori
torna in seguito a Sabha per completare gli studi universitari e nel 2009,
all’età di 19 anni, unico della famiglia, si converte al cristianesimo. La
famiglia, musulmana, accetta la scelta del figlio e il padre gli consiglia di
conservare la discrezione sul fattore religioso. Quando può parte in Tunisia
per unirsi a comunità cristiane più o meno clandestine finché il padre lo manda
in India per una tesi e un master in economia. Verso la fine del 2013 torna in
Libia per la morte della sorella a causa di una malattia.
Nel frattempo alcuni membri della
famiglia paterna ‘scoprono’ la sua nuova affiliazione religiosa e lo tacciano
di ‘Kafir’, non credente o infedele. Ciò lo porta ad essere imprigionato e
violentato. La sua famiglia non può visitarlo ed è solo grazie ad un conflitto
tra milizie che può evadere dalla prigione. Suo padre lo spinge a lasciare il
Paese e a rifugiarsi in Egitto dove Jibril conosce le Chiese copte ed è
battezzato. Apprende la morte del padre e dei fratelli, uccisi in prigione. Nel
2018 si trova in Turchia e torna in Tunisia nel 2022 per qualche mese prima di
entrare in Algeria e chiedere assistenza presso l’Ufficio per i Rifugiati di
Algeri. L’anno seguente è informato della morte di sua madre e nel mese di
settembre i militari, malgrado il documento che lo riconosce come rifugiato, lo
deportano e, con altri come lui, lo abbandonano nel deserto.
Da allora Mohammed Jibril si
trova a Niamey tra timori, ansietà e incertezze di un futuro che non offre, per
ora, gli orizzonti sperati. Tornare in
Libia sarebbe la sua morte. Termina la lettera con i ricordi di violenze
carnali subite in carcere che non passano mai e dice di immaginare ciò che
significhi quando qualcuno, dietro voi vi dice che siete suo. Jibril ringrazia
e sorride prima di partire a rinnovare il documento di richiedente asilo per
altri tre mesi. Malgrado la vita sia difficile ringrazia il Niger per
l’accoglienza.
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2024
Fonte foto: Il Fatto Quotidiano (da Google)