Per analizzare il “decreto lavoro”, approvato il primo maggio 2023 dal Consiglio dei Ministri, partiamo dalle considerazioni rilasciate dal ministro dell’economia e riportate sul sito istituzionale del Mef[1], incentrate sul taglio al cuneo fiscale contenuto nel decreto che garantirebbe una riduzione delle tasse tale da contribuire a “un aiuto reale contro il carovita e la risposta concreta alle chiacchiere”.
Quanto detto è sufficiente a qualificare il taglio del cuneo come asse portante del provvedimento, pertanto andremo a vedere come è stato finanziato lo stesso, di cosa si tratta a uno sguardo più attento e quali effetti è lecito attendersi.
Leggiamo sempre dal Mef che “circa 4 miliardi di euro vengono destinati, nel periodo compreso tra il 1 luglio e il 31 dicembre 2023 (senza ulteriori effetti sulla tredicesima), all’incremento di 4 punti percentuali del taglio del cuneo fiscale per i dipendenti rispetto a quanto già previsto in legge di bilanci […]L’aumento nella busta paga dei dipendenti viene stimato, nel periodo luglio-dicembre, fino a 100 euro mensili di media”.
Leggendo queste affermazioni la prima premessa da fare è che il provvedimento non impatta sull’Irpef ma sui contributi previdenziali, che quindi devono essere coperti dallo Stato con i 4 miliardi suddetti. Di questi gran parte sono il cosiddetto “tesoretto”, ovvero risorse liberate con la revisione del deficit tendenziale dell’anno in corso dal 4,5 per cento previsto nella Nadef al 4,35 per cento attuale, la cui differenza ammonta appunto a 3 miliardi: in poche parole erano stati stanziati 3 miliardi per coperture di cui non c’è più bisogno e vengono quindi impiegati per finanziare il taglio del cuneo contributivo (non fiscale quindi). Il restante (1 miliardo circa) sarà coperto da tasse (partita di giro per i lavoratori) per un totale di 4 miliardi. Andando a vedere chi sono i beneficiari, questi 4 miliardi andranno a finanziare il taglio ai contributi che arriverà al 7% per i redditi sotto i 25mila euro e al 6%per quelli sotto i 35mila. I governi passati avevano finanziato con importi più alti misure simili, quindi non si può certo dire che sia il più grande taglio ai tributi dei lavoratori come da qualche parte si è letto. Ad esempio per il bonus Irpef da 80 euro del governo Renzi (2014) furono stanziati 10 miliardi e il governo Conte-2 stanziò ulteriori 5 miliardi per portare il bonus a 100 euro. Anche andando a vedere gli effetti sui beneficiari troviamo che chi ha redditi bassi, come chi dichiara 10 mila euro l’anno, otterrà solo 25 euro addizionali riguardo agli sconti già in essere (ad oggi 19 euro). Alla fine sarà chi si colloca sul limite reddituale alto dei beneficiari (35 mila euro) che otterrà la riduzione maggiore, i quasi 100 euro di cui si è tanto propagandato. Ma a ben vedere alla fine della giostra queste cifre sono da rivedere al ribasso, in quanto come già detto per passare dai 3 miliardi di “tesoretto” ai 4 necessari per finanziare il taglio ci vuole un miliardo aggiuntivo pagato con la tassazione dall’aumento dell’Irpef: questo significa che al netto di quanto si prende con lo sgravio e quanto si paga di tasse avremo un importo decisamente più basso dei conclamati 100 euro (dai 60 euro in giù). Dulcis in fundo la misura non è per tutto l’anno ma per metà anno perché parte da luglio fino a dicembre (tredicesima esclusa), e poi si vedrà. Una misura quindi decisamente parziale e precaria.
A proposito di precarietà il decreto contiene la semplificazione delle causali che per i contratti da almeno 12 mesi favorirà l’aumento delle assunzioni precarie: questa misura per i liberisti è un bene infatti il Financial Times ne tesse le lodi, per chi invece crede che non ci sia correlazione tra flessibilità e occupazione e che la flessibilità serva a rendere i lavoratori contrattualmente più deboli, questa misura è un male. Bisogna solo capire da che parte stare e a quale teoria economia fare riferimento.
Poi sull’abolizione del Reddito di Cittadinanza sostituito dall’assegno di inclusione avanziamo alcune osservazioni. Nella nuova proposta si divide nettamente tra due categorie: i “non occupabili” con diritto al sussidio e gli “occupabili” a cui spetta bene che vada un percorso formativo di un anno a soli 350 euro. In questo modo l’abile al lavoro disoccupato perde un reddito che non costituisce più un limite alla discesa dei salari da lavoro povero, che rimosso quell’ostacolo potrebbero continuare liberamente la corsa verso il basso. Ma a questo punto si pone la domanda di quale sia il criterio per decidere chi è occupabile o meno. In precedenza erano i centri per l’impiego e i servizi sociali a decidere sulla base di un complesso di elementi che non si fermavano solo all’attitudine fisica, ma anche alle condizioni di disagio personale e sociale. Ora invece a dir poco si taglia con l’accetta e in base all’età e al nucleo familiare si decide chi è abile (e disoccupato) o inabile. Infatti per avere il nuovo assegno di inclusione occorrerà avere anche carichi familiari o minori di 18 anni o superiori ai 60 anni. Quindi a parte la disabilità, se ho a carico un familiare under 18 o over 60 avrò l’assegno, altrimenti no. Questa valutazione prescinde quindi dall’esperienza lavorativa e dalle competenze del soggetto, e apre a critiche sotto il profilo di costituzionalità perché si discrimina solo in base all’età, perché ogni italiano tra i 18 e i 59 anni è considerato occupabile fino a prova contraria.
[1]https://www.mef.gov.it/inevidenza/Approvate-misure-per-lavoratori.-Giorgetti-diamo-aiuto-concreto-contro-carovita/
Fonte foto: Fanpage (da Google)