L’esplosione di sommosse contadine è un fenomeno ricorrente in Europa nel periodo che va dalla fase terminale del medioevo al principio dell’età moderna: durante il XIV secolo si verificano, fra le altre, la grande jacquerie del 1358 in terra di Francia e la ribellione di John Ball in Inghilterra, mentre nel corso del ‘500 impetuose insurrezioni scuotono la Germania in concomitanza con la riforma protestante e poi, sul finire del secolo, la Slavia asburgica. Tutti questi moti vengono soffocati nel sangue e i loro ispiratori vanno incontro a punizioni spietate, ma la periferia orientale del continente sarà interessata da sporadiche sollevazioni fino a Settecento inoltrato (e grazie all’opera di Puškin il nome del capo cosacco Pugacëv è oggi più noto di quelli di Matija Gubec e persino di Thomas Müntzer, caduto nel dimenticatoio assieme alla DDR).
Le ragioni del malcontento non sono difficili da individuare: in una società ancora preindustriale, statica e stratificata l’agricoltura è la principale fonte di ricchezza, ma a chi materialmente la produce toccano al più le briciole. I contadini conducono un’esistenza misera e travagliata, lavorano la terra senza possederla e sono esposti agli arbitrii delle classi privilegiate, nobiltà in primis. Questa condizione di precarietà e (brutale) sfruttamento si aggrava in occasione dei frequentissimi conflitti, spesso di lunga durata: per piegare il nemico gli eserciti (che siano stranieri o “nazionali” poco cambia) e le compagnie di ventura curano di distruggerne le risorse, cioè innanzitutto campi coltivati e manovalanza. Che le violenze indiscriminate contro i civili siano una prerogativa della contemporaneità è purtroppo falso: per accertarsene basta scorrere le pagine di Polibio, Dostoevskij o di un qualsiasi cronista medievale. Grama in tempo di pace, la vita diviene insopportabile in guerra: non è un caso che due degli episodi citati all’inizio si riferiscano alla secolare contesa che fra ‘300 e ‘400 oppose il regno di Francia all’Inghilterra. Di solito le rivolte scoppiano quando il potere centrale (se di “potere centrale” si può parlare in entità fragilissime e ancora feudali!) entra in crisi per effetto di sconfitte sul campo o di fratture interne e non si dimostra più in grado di controllare il territorio: è a quel punto che, spinti da insicurezza, rancore e disperazione, i “vermi della terra” ardiscono sfidare i loro padroni.
L’universo contadino non è ovviamente una realtà omogenea: servi, braccianti e fittavoli costituiscono le categorie più numerose, ma non mancano – sebbene siano abbastanza rari – agricoltori benestanti, che dalle insurrezioni si tengono alla larga o ne assumono la direzione, e le condizioni di vita non sono ovunque le stesse. In linea di massima, comunque, la popolazione rurale pratica un’economia di sussistenza senza poter godere appieno dei frutti del proprio lavoro, sopravvive sotto la soglia di povertà mangiando poco e male e non ha modo di influire sulle decisioni che la riguardano, essendo priva di rappresentanti riconosciuti oltre che di istruzione. Il lento processo di accentramento che accompagna la formazione degli stati diminuisce, anziché accrescerli, i ristrettissimi spazi di autonomia: non per caso nei Dodici Articoli del 1525 i contadini tedeschi invocano il rispetto delle antiche consuetudini – cioè degli usi civici – minacciate dallo strapotere dei vecchi e nuovi ceti dominanti e da una legislazione che riconosce diritti e prerogative solo a chi sta in alto. Sono lotte di retroguardia destinate all’insuccesso, poiché in contrasto con le esigenze di un’economia e di una società in rapida trasformazione che ispireranno, oltremanica, l’affermarsi delle enclosures, cioè il violento spossessamento delle terre comuni, e l’adozione di norme sempre più vessatorie nei confronti dei poveri, fra cui le famigerate Poorlaws.
In estrema sintesi: privi di qualsivoglia tutela giuridica, coltivatori e allevatori patiscono abusi e spoliazioni ad opera dei detentori di privilegi; sviluppano una forma embrionale di coscienza collettiva ma, anche quando si armano di falci e forconi, si riducono a combattere battaglie difensive, richiamandosi a un passato che più non ritorna. Sono classe oppressa e talvolta ribelle, ma mai rivoluzionaria.
Questo stato di minorità perdura fino a Novecento inoltrato, anche se non dappertutto: nella Francia napoleonica, ad esempio, il legislatore promuove la nascita e il progressivo rafforzamento della piccola proprietà contadina in un’ottica di inclusione e responsabilizzazione delle masse rurali (rectius: di parte di esse). Le timide riforme agrarie portate avanti in altre regioni europee (nei territori soggetti all’Austria, ma non solo) sono biasimate dai regimi più conservatori: nel bacino del Mediterraneo e nella Russia europea il latifondo seguita a rappresentare la regola, mentre in Gran Bretagna la frenetica industrializzazione svuota le campagne, degradando milioni di uomini liberi o semiliberi a schiavi salariati. Anche dove intenzioni e circostanze appaiono maggiormente benevole, tuttavia, il tenore di vita permane assai basso: l’intera famiglia fatica dall’alba al tramonto per garantirsi il minimo indispensabile, ma i soldi scarseggiano sempre e basta una gelata o uno scroscio estivo di grandine per mettere a repentaglio il sostentamento – un debito contratto per necessità è l’anticamera della rovina. Ho un vivido ricordo di alcuni nostri parenti, sloveni d’oltre confine (c’era ancora la Jugoslavia socialista), che visitavamo nei primi anni ’80: avevano animali, campi e persino una vigna, ma la casa disadorna odorava di muffa e i visi precocemente invecchiati esprimevano soprattutto rassegnazione. Allora – e parlo di pochissimi decenni fa! – il cittadino era visto come un privilegiato per via dello stipendio sicuro, ancorché modesto, del riscaldamento centralizzato e del bagno in casa: abitare in campagna era piuttosto una condanna che un’ambizione.
Mi si potrebbe ribattere che quella jugoslava non era una società consumista e che già a quei tempi da noi le cose stavano ben diversamente: senz’altro vero, almeno per quanto riguarda il superfluo il fascinoso Occidente avrà avuto venti/trent’anni di vantaggio rispetto al mondo comunista, ma pure in Italia (rammentiamolo!) si assiste nel dopoguerra a una massiccia emigrazione, non soltanto meridionale, alla volta dei centri urbani e allo spopolamento delle aree rurali e montane. Le grandi città industriali offrono opportunità d’impiego, servizi e comodità; chi resta legato al suo appezzamento si specializza, se la terra è particolarmente buona, oppure intraprende un’altra attività parallela da cui ricava il grosso delle sue entrate. Si esalta nell’operaio metalmeccanico l’eroe del nostro tempo, mentre il campagnolo – non alludo ovviamente al medio-grande proprietario – incorre in bonarie canzonature e viene trattato alla stregua di un relitto del passato.
Poi, invero abbastanza repentinamente, le cose cambiano e il rapporto fra i nostri due soggetti si capovolge. Crisi occupazionale e strisciante precarizzazione del lavoro dipendente giocano un ruolo, ma all’imborghesimento del contadino contribuiscono altri e decisivi fattori, quali l’accresciuta disponibilità di fertilizzanti, insetticidi e macchine agricole, un più agevole e meno costoso accesso al credito, il diffondersi di abbordabili polizze assicurative e soprattutto l’aumento delle sovvenzioni pubbliche (in primis di quelle comunitarie). Il vagheggiamento della vita agreste, vista come antidoto allo stress generato dalla città, è non concausa, ma conseguenza di tutto ciò.
In un mondo all’interno del quale i moderni mezzi di trasporto (e di comunicazione) hanno quasi azzerato le distanze il contadino medio, innalzato al rango di proprietario, vive una condizione di privilegio rispetto al cittadino “senzaterra”, anzitutto perché è almeno in parte autosufficiente, e quindi non è completamente alla mercé dei datori di lavoro privati, in secondo luogo perché anche solo pochi ettari di terra coltivabile costituiscono un bene rifugio che, oltre a dare frutti, è facilmente monetizzabile in caso di bisogno. Per superare indenni (o quasi) le cicliche crisi economiche e sopravvivere a un ipotizzato tracollo del sistema Massimo Fini consigliava già annorum fa di provvedersi di “un campo e due kalashnikov”: al di là dell’intento provocatorio, il suggerimento del noto polemista, ma pure l’esodo dei ceti benestanti da città sempre meno attrattive comprovano il nuovo prestigio sociale acquisito dall’ex villico, che nessuno si sognerebbe oggi di trattare con sufficienza.
Come mai allora l’intero continente è attraversato in questi giorni da lunghe file di trattori che bloccano le autostrade e assediano i palazzi governativi? Di proteste negli anni scorsi ce ne sono state, specie in Francia e in Italia, ma quelle odierne si segnalano per un livello di mobilitazione mai visto prima e per l’efficacia del coordinamento delle iniziative. A quanto raccontano i giornali, richieste e motivazioni variano da paese a paese: da noi si pretende il ripristino dell’esenzione Irpef per i redditi agricoli, in Polonia ci si batte contro il via libera all’importazione di prodotti ucraini e così via. Sul banco degli imputati siedono ovunque l’Unione Europea e gli esecutivi nazionali: si contesta il c.d. Green Deal, che prevede fra l’altro la messa al bando dei pesticidi e una riduzione delle superfici coltivabili, nonché il taglio dei sussidi all’agricoltura, che però è conseguenza dell’ingresso nella UE di economie meno sviluppate, e criteri di distribuzione dei fondi che avvantaggiano quello che una volta si sarebbe definito il latifondo, in mano non più a boriosi aristocratici ma a imprese multinazionali che, smaltita la sbornia finanziaria, hanno scoperto il business della terra e stanno acquistando vastissimi appezzamenti in giro per l’Europa, Ucraina compresa. Un ulteriore motivo di risentimento è rappresentato dallo spadroneggiare della grande distribuzione, che impone ai produttori prezzi di vendita irrisori per poi decuplicarli a svantaggio dei consumatori. I cahiers de doléances si basano insomma su problematiche reali e concrete, e derubricare la contestazione in atto a egoistica difesa di interessi corporativi sembra a chi scrive perlomeno riduttivo. I media sistemici, quando si esprimono, mostrano una certa tendenza a svilire le ragioni della lotta e a metterne in cattiva luce i protagonisti: in un articolo riportato in una rassegna stampa di Radio3 di qualche settimana fa si leggeva che tra gli agricoltori scesi in piazza ci sono quelli che possiedono 50 ettari, quelli che ne hanno 500 e quelli con 5.000 e più, e che in genere sono questi ultimi – gente evidentemente ricchissima – a capeggiare la rivolta. Visto che il valore di una cinquantina di ettari oscilla, a seconda delle caratteristiche del terreno, fra il milione di euro e gli otto-nove milioni, il pubblico non è certo indotto a simpatizzare con i protestatari, tutti pretenziosi paperoni: se però consideriamo che le dimensioni medie di un’azienda agricola italiana raggiungono a malapena gli 8 ettari (non 800, e nemmeno 80!) ci rendiamo conto che i manifestanti sono perlopiù persone normali, di sicuro non indigenti, ma neanche particolarmente agiate, persone che temono di ripiombare in una condizione da cui sono faticosamente uscite… l’altroieri. Piuttosto che di eccessi di allarmismo parlerei di corretta interpretazione dell’evoluzione socio-economica in corso: se i grandi gruppi transnazionali hanno individuato nelle terre fertili una lucrativa opportunità di investimento (e questa è un’evidenza), la scorciatoia per accaparrarsele consiste nel giocare di sponda con le imprese attive nel settore della distribuzione – consorelle o meno che siano – e con le istituzioni comunitarie, sicuramente più propense a soddisfare le esigenze del grande capitale che a tutelare il benessere dei cittadini-sudditi. L’incremento dei costi di produzione, influenzato da quello di divieti e prescrizioni e non più compensato da generosi contributi pubblici, e l’impossibilità di contrattare il prezzo delle derrate trascinano il coltivatore medio-piccolo in un vicolo cieco, da cui si può momentaneamente uscire soltanto cedendo il proprio “tesoretto” – però alle condizioni stabilite dal compratore, che disponendo di un’infinità di risorse e di potenziali interlocutori (e potendosi permettere di traccheggiare a tempo indefinito) è in grado di dettare le regole a piacimento.
Stando così le cose l’attuale protesta non appare ingiustificata né tantomeno gratuita e, a ben vedere, ha più di qualche punto di contatto con quelle che hanno costellato l’epoca tardo medievale: oggigiorno gli agricoltori stanno infinitamente meglio di allora e non possono certo essere considerati gli ultimi fra gli ultimi, ma anche questa battaglia assume un carattere difensivo e, se vogliamo, conservatore – lo scopo non è rovesciare il sistema, bensì mantenere delle prerogative messe in pericolo da processi di mutamento su cui i resistenti avvertono di non poter altrimenti incidere. Vi è inoltre la confusa coscienza, da parte loro, di appartenere a una categoria unitaria, sia pure disomogenea al suo interno, e di essere dotati di strumenti di pressione spendibili, oltre che di risorse sufficienti a finanziare– almeno nell’immediato – le iniziative intraprese.
Da costoro sarebbe illusorio aspettarsi uno sbocco rivoluzionario o istanze di palingenesi sociale: certant de damno vitando e non intendono intestarsi cause che non siano la propria, tuttavia la loro azione contrasta, su un piano concreto e a prescindere dai moventi soggettivi, la sempre più marcata polarizzazione della ricchezza e la deriva bellicista dell’Occidente – e questo è un valido motivo per sostenerla, benché non sia altruistica né risolutiva.