Un paio di giorni fa stavo discutendo con una signora su facebook sul tema della (presunta) disparità salariale fra uomini e donne. Le stavo rispondendo e poi, come spesso mi succede, nè è scaturito un vero e proprio (e lungo) articolo. Quello che leggete di seguito. Mi scuso per la lunghezza:
“Gentile Signora, le rispondo, come le avevo già preannunciato, solo su due questioni, quelle che ritengo più importanti e che stavamo affrontando, e cioè il tema della (presunta) disparità salariale fra uomini e donne e dei morti (in esclusiva maschili) sul lavoro. Sulle altre da lei sollevate non entro per evidenti ragioni di tempo e spazio. In ogni modo, sui siti che le ho già segnalato, potrà leggere e documentarsi quanto vorrà su tutto lo scibile.
Partiamo dal primo punto, cioè la presunta disparità salariale fra uomini e donne che, secondo la narrazione femminista (di tutti i femminismi) sarebbe il risultato di una discriminazione sessista nei confronti delle donne.
Come già le dicevo, non esiste nessun contratto di lavoro che reciti che a parità di qualifica e mansione una donna percepirebbe un minor salario. Se così fosse sarei il primo a scendere in piazza contro una intollerabile e inaccettabile discriminazione sessista. Ma il punto non è di natura formale ma sostanziale. E cioè, nessuna donna, nella realtà concreta intendo (al di là dell’aspetto formale), viene retribuita meno di un uomo, a qualsiasi livello. La sfido a trovarmi una donna, in qualsiasi ambito, privato o pubblico, che a parità di qualifica e mansione, percepisca un salario inferiore a quello di un suo collega pari grado di sesso maschile.
Dove sta quindi il busillis? Si giunge a questa conclusione attraverso un procedimento fasullo e ipocrita. E cioè si cumula il monte salari complessivo percepito dalle donne e lo si compara con quello degli uomini, si fa la differenza e si scopre che le donne guadagnano complessivamente meno degli uomini. Chi dice nella misura del 10 o 11%, come ad esempio riporta II Sole 24 ore, chi del 16% come dice invece la Repubblica, una delle corazzate del neo femminismo mediatico/politico italiano e via discorrendo (i riferimenti può trovarli da sola su Google o dovunque vuole).
Ma è ovvio che questo modo di procedere è maldestro e privo di ogni logica. E’ un po’ come quando, altrettanto maldestramente e ipocritamente, si calcola il reddito medio pro capite in un dato paese e si dice che è ad esempio di 20.000 dollari l’anno, ben sapendo che in quello stesso paese c’è chi ne guadagna milioni e chi non ne guadagna neanche uno…
L’Università Bocconi, altro bastione ideologico/accademico del sistema dominante – che certamente si guarda bene dal sostenere le tesi di un gruppo di “brutti, sporchi e cattivi” e soprattutto “maschilisti” come siamo tacciati di essere – per una volta in controtendenza rispetto all’orchestra mediatica che normalmente suona all’unisono lo stesso spartito, ci dice che la differenza salariale fra uomini e donne
non supererebbe in realtà il 2%: https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fdrive.google.com%2Ffile%2Fd%2F0B6gpS9zR7YIETlJtV1RCM1dDak0%2Fview%3Fusp%3Dsharing&h=NAQH2dLCF&s=1
In virtù di questa premessa, il monte salari complessivamente cumulato dalle donne è inferiore a quello degli uomini, NON perché retribuite, formalmente e sostanzialmente, meno degli uomini, bensì per le seguenti ragioni. Le elenco in ordine decrescente di importanza:
- Le donne optano molto di più, rispetto agli uomini, per il lavoro part time, e svolgono molte meno ore di lavoro straordinario. Questo perché ancora molte preferiscono (comprensibilmente) dedicarsi alla famiglia e alla cura e alla crescita dei figli, e lasciano che sia il proprio marito o compagno a lavorare a tempo pieno. Nonostante i tempi siano radicalmente cambiati ci sono ancora molte donne (più numerose di quanto si crede…) che optano addirittura per non lavorare – potendolo fare – e lasciare questa “incombenza” ai mariti (tanto poi se anche si separano a pagare gli alimenti, a essere buttati fuori di casa e male che va a finire alla Caritas non solo loro ma i rispettivi mariti, e non credo di inventarmi nulla…)
- Per ragioni oggettive ma anche sociali e culturali (approfondirò il concetto nel paragrafo successivo), gli uomini, in misura molto maggiore rispetto alle donne – anche in questo caso sia per ragioni oggettive (ad esempio fisiche), che socio-culturali (l’obbligo morale di lavorare e di essere socialmente accettati, soprattutto dalle donne…) accettano qualsiasi tipo di orario, turnazione, mole e condizione di lavoro, ecc. E’ ovvio quindi che un lavoro gravoso, rischioso, svolto magari di notte e che contempla un maggior numero di ore di straordinari, sarà complessivamente più retribuito rispetto a quello di una segretaria, di un insegnante o di un impiegata;
- Il tasso di occupazione maschile è tuttora superiore a quello femminile per ovvie ragioni, e cioè perché l’ingresso massiccio e sistematico delle donne nel mondo del lavoro è iniziato solo relativamente di recente, in seguito alla rivoluzione tecnica e tecnologica, che ha in larga parte (ma non del tutto, tant’è che a crepare sul lavoro continuano ad essere solo gli uomini che continuano a svolgere i mestieri più pesanti, rischiosi, inquinanti e mortali) consentito a tutti/e, uomini e donne, di poter svolgere le medesime mansioni. Prima di tale rivoluzione, e cioè per millenni, la grandissima parte del lavoro era svolto e poteva essere svolto – per ragioni fisiche, biologiche e ambientali OGGETTIVE e non certo per discriminazione (magari ad essere “discriminati”, se ciò significa evitare la lenta agonia in una miniera, in una fonderia o imbarcati a forza su un vascello per morire di frustate, denutrizione o scorbuto…) – soltanto dagli uomini.
Ma è normale che ogni processo, anche il più rapido, necessita dei suoi tempi. E quindi è ovvio che tuttora il tasso di occupazione femminile sia minore rispetto a quello maschile. Ed è quindi altrettanto ovvio che questo minor tasso di occupazione incida sul calcolo (ipocrita) del salario e della ricchezza complessiva percepita dalle donne.
Naturalmente ora bisognerebbe aprire un lungo e complesso discorso di natura storica, sociale, culturale e psicologica. Mi limito solo ad alcuni cenni.
Le donne hanno rivendicato il loro diritto all’indipendenza (e quindi al lavoro) da una settantina di anni a questa parte, da quando cioè il lavoro, in virtù della rivoluzione tecnologica-industriale di cui sopra, ha reso possibile l’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Prima di tale rivoluzione le donne che lavoravano, come operaie tessili, mondine, braccianti, non lo facevano per una libera scelta di autodeterminazione nè tanto meno di “realizzazione personale” (aspirazione, lusso o vezzo di cui la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai goduto…) ma – esattamente come quasi tutti gli uomini con l’esclusione di una esigua minoranza di appartenenti alle elite sociali dominanti, delle quali facevano parte anche alcune donne – per una dolorosa necessità, quella cioè di sopravvivere. Una necessità alla quale, se avessero potuto, avrebbe volentieri rinunciato, e ne avrebbero avuto ben donde. Nessuna donna, infatti, ha mai rivendicato il diritto di lavorare in una miniera, in un cantiere edile, in una acciaieria, su un peschereccio, a riparare fogne o su un traliccio dell’alta tensione (e infatti le quote rosa vengono richieste solo per i consigli di amministrazione e per i parlamenti…). Questa rivendicazione di indipendenza economica (attraverso il lavoro) è stata avanzata dalle donne, come ripeto, quando le condizioni OGGETTIVE lo rendevano possibile e anche – diciamocela tutta – desiderabile.
A tutt’oggi, e soprattutto oggi, le donne costituiscono infatti la maggioranza e talvolta la grande maggioranza della forza lavoro in settori quali la pubblica amministrazione, la scuola, la comunicazione, la magistratura, il terziario più o meno avanzato, privato o pubblico, e naturalmente i lavori di cura alla persona (dove comunque non si rischia di morire o di perdere una mano…). Mentre gli uomini, nonostante la rivoluzione tecnologica, costituiscono tuttora la grande maggioranza della forza lavoro nell’industria pesante, edile, siderurgica, estrattiva, marittima, della sicurezza e via discorrendo, dove invece non solo si rischia ma molto spesso si muore per davvero…
A ciò si deve aggiungere un altro fondamentale elemento, sempre di natura culturale/psicologica. E cioè che per le donne, al contrario degli uomini, il lavoro non ha mai rappresentato un obbligo sociale e/o morale. Erano infatti gli uomini che incappavano e tuttora incappano nella scomunica e nella riprovazione sociale qualora non fossero stati e non siano in grado di mantenersi con le proprie forze e soprattutto non fossero stati e non siano in grado di mantenere la propria famiglia. Un obbligo che le donne non hanno mai avuto. Non è un caso che a tutt’oggi, a togliersi la vita per ragioni legate alla perdita del posto di lavoro o al non riuscire a trovarlo, sono quasi esclusivamente uomini in ragione del 98 o del 99%. Per una donna perdere il lavoro o non trovarlo, non comporta nessuna conseguenza dal punto di vista della sua considerazione sociale né tanto meno per la sua condizione psicologica (comunque non nelle forme drammatiche che assume in un uomo). Viceversa, un uomo senza lavoro è considerato un fallito, un invisibile, un buono a nulla. Vero o falso che sia (il più delle volte, falso) come tale si percepisce, a differenza di una donna che potrebbe anche percepirsi tale ma di certo non è gravata dalla pressione sociale e dal pubblico giudizio da cui è gravato un uomo con il suo stesso problema. Una donna senza lavoro è desiderabile e appetibile né più e né meno di una donna che lavora, perché sono di altra natura le “specificità” che la rendono desiderabile (e anche sposabile). Un uomo senza lavoro, cioè privo di reddito, semplicemente non è desiderabile (o forse solo per lo svago di una notte o due…) e sicuramente non appetibile (tanto meno come marito-padre). Piaccia o meno, care amiche, con l’esclusione dei più giovani e belli, buoni per lo svago ma non certo per un “investimento” di altra natura, vale il detto: “Homo sine pecunia, imago castitatis”…
Qual è la risposta a tutto ciò da parte della narrazione femminista? E’ la più scontata delle scontate, quella che conosciamo benissimo. E cioè (questa la favola rassicurante e deresponsabilizzante…): “Se tanti uomini soffrono è per colpa di altri uomini, o meglio del sistema maschilista e patriarcale che premia alcuni e ne frustra altri. Perché dovete sapere che il sistema maschilista e patriarcale non è cattivo e oppressivo solo con le donne ma anche con gli uomini, quindi gli uomini che soffrono perché non riescono ad essere adeguati ai parametri che il sistema maschilista gli impone se la devono prendere con altri uomini”.
Ergo, secondo tale logica, il femminismo non libera solo le donne ma anche gli uomini; non è una narrazione parziale, come abbiamo sempre ignorantemente pensato, ma universale. E quindi “Se gli uomini che soffrono vogliono liberarsi e affrancarsi dalla loro condizione di oppressi (e comunque sempre privilegiati nei confronti delle donne…) debbono aderire in toto alla narrazione femminista”.
Fin qui la favola. Buona forse per far addormentare i bambini la sera. Quello che il femminismo naturalmente non ci dice – e non può dire, altrimenti si squaglierebbe come neve al sole – è che il modello maschile dominante è innanzitutto la proiezione di un archetipo da sempre radicato nella psiche femminile (al quale il maschile si adegua…), che è appunto quello del maschio dominante, oggi (e da molto tempo ormai) rappresentato dall’uomo socialmente affermato. Da quando in qua, infatti, un operaio, un bracciante, un precario o un disoccupato, hanno costituito e costituiscono l’oggetto del desiderio dell’universo femminile?
Ergo, se il femminismo fosse in buona fede, invece di colpevolizzare il genere maschile a senso unico, dovrebbe rivolgersi innanzitutto alle donne per invitarle a fare quella rivoluzione culturale che NON hanno MAI fatto, per lo meno fino ad ora, e che consiste in due cose fondamentali: distruggere quegli archetipi di cui sopra (che appartengono a loro e soltanto a loro e che nessun maschio gli ha inculcato o imposto…) una volta e per sempre, e smettere di utilizzare la loro sessualità come strumento finalizzato per un verso alla realizzazione di quegli archetipi e per l’altro per mantenere gli uomini in una condizione di dipendenza e di subordinazione psicologica e sessuale (tema, quest’ultimo, che fa drizzare i capelli alle femministe, ma tant’è, la realtà è il più delle volte amara e la verità non è MAI o quasi mai rassicurante…).
Ma se si facesse questo sforzo, come dicevo, il femminismo si squaglierebbe, perché ammettere questo significherebbe ammettere che le donne (siano esse madri, mogli o compagne) sono in realtà in grado di esercitare un potere molto grande, di natura psicologica, sugli uomini. Ma è evidente che chi è in grado di controllare e di condizionare la psiche di una persona è in grado di controllare e condizionare la persona nella sua totalità. Naturalmente il discorso si farebbe ora estremamente più ampio e complesso e mi fermo, per ovvie ragioni.
- Sostenere che le donne siano nella sostanza, se non nella forma, retribuite meno degli uomini, è del tutto illogico. Viviamo in una società ipercapitalista, dove l’unica stella polare, se non siamo ipocriti, è rappresentata dal profitto. Se veramente fosse possibile assumere le donne pagandole meno degli uomini, sostanzialmente se non formalmente, è ovvio che già da molto tempo avremmo un tasso di occupazione femminile infinitamente superiore a quello maschile, per ovvie ragioni che è superfluo spiegare. Quale imprenditore o imprenditrice (il profitto non ha sesso…) infatti opterebbe per assumere uomini nel momento in cui si ha l’opportunità di assumere donne pagandole di meno? Ovviamente nessuno/a.
In conclusione, alla luce di queste riflessioni, non possiamo che concludere che la tesi in base alla quale le donne (anche sull’utilizzo generico di questo termine ci sarebbe da approfondire: le donne sono forse una categoria sociale omogenea? La Lagarde o Veronica Lario, la Merkel o la Bellucci fanno parte, solo per il fatto di essere di sesso femminile, della stessa categoria sociale della famosa “casalinga di Voghera”, o dell’operaia o di un’ addetta alle pulizie?…) sarebbero pagate di meno in quanto vittime di una discriminazione sessista ai loro danni, è una manipolazione della realtà. In parole ancora più esplicite: una menzogna.
Veniamo ora, molto brevemente, alla questione dei morti (tutti o quasi maschili) sul lavoro.
Ho già di fatto risposto all’obiezione della signora che in altro spazio attribuiva la carneficina maschile sul lavoro (che avviene da sempre…) al fatto che le donne sarebbero state “relegate” ai lavori domestici e di cura. Come ripeto, se essere relegate (o discriminate) significa accudire un bambino piuttosto che lavorare in una miniera o su una piattaforma petrolifera, ben venga la discriminazione…
Se è vero, come è vero, che la storia dell’umanità è stata caratterizzata dalla divisione sessuale (oltre che sociale) del lavoro, non possiamo che dedurne che questa divisione ha senz’altro favorito e messo al riparo le donne rispetto alla stragrande maggioranza degli uomini. Non potremmo che dedurne che alla fin fine, anche la struttura patriarcale (si dovrebbe qui aprire una lunga riflessione sul matriarcato, che non apro…) ha sicuramente e di gran lunga penalizzato molto di più gli uomini rispetto alle donne.
Anche nelle società che si reggevano sulla schiavitù, durate purtroppo millenni, la condizione degli schiavi maschi era di gran lunga peggiore di quella delle schiave femmine. Nessuna schiava femmina è mai stata incatenata al remo di una galera, destinata al lavoro forzato nelle miniere o nelle cave in condizioni che definire disumane è un eufemismo, oppure obbligata a scannarsi con altre schiave in un’arena per il diletto del pubblico pagante. Anche allora le schiave femmine erano adibite al lavoro domestico o tutt’al più a sollazzare gli appetiti sessuali dei patrizi e degli aristocratici (attività “ludiche” che vedevano coinvolti anche gli schiavi maschi…).
Ergo, quando si dice che la divisione sessuale del lavoro avrebbe privilegiato gli uomini e discriminato le donne (ripeto: parlare di uomini e di donne in termini generici, dal mio punto di vista, che è un punto di vista di classe, significa parlare di categorie che NON hanno alcun senso, a meno di non parlare sotto il profilo rigorosamente dell’appartenenza sessuale) si sta facendo una gigantesca manipolazione della storia, e quindi si sta producendo falsa coscienza.
Questo, sia chiaro, non significa che le donne (o meglio, alcune donne…) non abbiano vissuto discriminazioni o forme di oppressione di diverso tipo (così come alcuni uomini…) nel corso della storia. Nessuno ha intenzione di negarlo (e poi perché?…). Del resto, qualsiasi narrazione ideologica contiene anche delle verità altrimenti non sarebbe credibile, e ovviamente vale anche per il femminismo.
Ciò che si sostiene è che la narrazione femminista è necessariamente parziale (e tutt’altro che universale) e deformante della storia e della realtà. Si potrebbe obiettare che ciò vale per ogni narrazione ideologica, e anche in questo c’è un fondamento di verità. E allora oggi più che mai è necessario un nuovo racconto, una narrazione alternativa a quella femminista, scritta dagli uomini e per gli uomini. Due racconti parziali, sia pure in una relazione conflittuale, possono dar vita ad una interessante, vivace e ricca dialettica. Un solo racconto parziale, specie quando è l’unico ufficialmente ammesso, non può che trasformarsi in un Dogma, in una Verità A Priori alla quale è necessario conformarsi”.
P.S. per chi non fosse sazio e volesse eventualmente approfondire, sviluppo e approfondisco ulteriormente gli argomenti trattati in questo articolo: http://www.uominibeta.org/articoli/nuovo-racconto-maschile/