«C’è un ricordo che m’è tornato a mente nei giorni scorsi, durante le feste natalizie. So che alcune vecchie usanze sopravvivono in Abruzzo, come in altre regioni; così a Natale, invece dell’albero, di origine nordica, in molte famiglie si usa ancora accendere il ceppo o ciocco nel camino. Ma temo che la tradizione sopravviva nella sua forma esteriore, svuotata del suo significato primitivo. Non so, ad esempio, se vi sia ancora qualche famiglia in cui l’usanza del ciocco sia accompagnata dalla spiegazione che ne veniva data a noi, durante la nostra infanzia e adolescenza. Si accendeva il ciocco di quercia o di faggio perché ardesse durante la notte, si esponevano sul tavolo le provviste natalizie e si lasciava aperta la porta di casa, perché – ci veniva spiegato dai genitori – in quella notte la Sacra Famiglia era in giro per il mondo, in fuga, ricercata e perseguitata dagli sbirri: bisognava fare in modo che se, per caso, arrivata al nostro vicolo, la Sacra Famiglia avesse avuto bisogno di sostare, potesse entrare in qualsiasi casa, e riscaldarsi, rifocillarsi, nascondersi. Il racconto era senz’altro convincente ed esercitava sull’animo del bambino o ragazzo ben disposto una forte influenza. Immaginate dunque che cosa poteva essere per noi la notte di Natale. Impossibile dormire. Da un momento all’altro la Sacra Famiglia poteva arrivare a casa nostra. Assai spesso il rumore del vento contro gli infissi della finestra e i battenti della porta rimasta aperta ce lo facevano credere. Come dimenticare simili esperienze? Esse ci istillavano il rispetto e la solidarietà per i perseguitati. Inoltre, ci davano, del mondo nel quale stavamo per entrare, un’immagine piuttosto pessimistica: era un mondo nel quale l’innocenza era perseguitata dalle stesse autorità. Non credo che sia esagerato affermare che un simile insegnamento poteva lasciare in un animo predisposto una traccia indelebile. Esso fa parte integrale di quello che ho chiamato la nostra eredità cristiana.» (Ignazio Silone, Il ciocco)
A parte la quieta bellezza che promana, il racconto, come del resto tutta la scrittura di Silone, mi ha richiamato quelle attese della vigilia di Natale che si cibavano della medesima cultura. Mia nonna ci raccontava che per la Madonna partoriente e San Giuseppe che non aveva trovato posto per fare nascere il Bambino, dovevamo lasciare una finestra socchiusa, un po’ di acqua e di pane, e dei panni di lino per fasciare il neonato. E noi bambini ce ne andavamo a letto con questa premura e con la speranza che il piccolo nascesse senza pericoli e che i nostri ingenui doni potessero davvero servire a quella mamma e a quel papà scacciati e in fuga. Ai più grandicelli riecheggiavano i versi de La Notte Santa di Gozzano, imparati a memoria per la recita della scuola attivando emozioni uniche, irripetibili.
Al mattino tutti, quando ci svegliavamo, correvamo a vedere se c’erano ancora i panni, l’acqua, il pane che avevamo posto sui davanzali…Ovviamente gli adulti ci dicevano che sulle finestre non avevano trovato nulla, e che il Bambino Gesù era nato ed era in salvo con i suoi genitori, conducendoci presso il presepe dove, sulla paglia della capanna, lo potevamo vedere finalmente adagiato.
Credo proprio che sarebbero indispensabili certi passi indietro, non per ripristinare un mondo che non c’è più, ma per riproporre di quel mondo, quelle cose senza tempo che hanno un valore universale. Il rispetto, la tolleranza, l’accoglienza, come suggerisce Silone, possono essere insegnati ed imprimersi anche attraverso queste usanze antiche, fiabesche, oltreché attraverso l’esempio e le condotte concrete.
Del resto, a ben vedere, il “tesoretto” che ci portiamo dentro, non lo abbiamo interiorizzato attraverso le favole e i sogni della nostra infanzia?
Allora, mi si perdoni la scontatezza, insegniamo ai nostri piccoli a sognare, ad osare gettare lo sguardo oltre la cortina fumogena della desolazione presente. Educhiamoli al tempo fecondo dell’attesa vigile, operosa, mai arresa. Guidiamoli al senso della solidarietà, alla comprensione, al sapersi mettere nei panni degli altri. Facciamo sì che sentano insopportabili, inaccettabili tutte le ingiustizie.
Perché si creda o non, il Natale sia non solo un giorno speciale, ma una consuetudine spirituale, una condizione interiore di apertura, sempre, in ogni tempo dell’anno e degli umani accadimenti.
Auguri a tutti.