Spesso, all’interno della nostra area, constatiamo come i diritti civili siano oggi giocati contro i diritti sociali per conculcare questi ultimi, come del resto è efficacemente avvenuto; tuttavia, bisogna dire anche che c’è modo e modo di intendere gli stessi diritti civili. Questi, tutte le volte che sono stati intesi seriamente, e cioè quando hanno, in primo luogo, impegnato quanti vi si richiamavano a condurre battaglie per la dignità e per il riscatto degli oppressi, hanno sempre avuto anche importanti ricadute sociali. Si sono, per la verità, fin dal principio saldati alla questione sociale.
Forse, quelli che sono oggi propugnati dalle élite, e rilanciati dai subalterni che ne hanno interiorizzato la retorica e le parole d’ordine, non dovrebbero nemmeno essere chiamati diritti civili; sono, a ben vedere, molto meno dei diritti civili seriamente intesi; sono, piuttosto, semplici diritti individuali neoliberali, puramente esteriori; sono diritti cosmetici e in quanto tali legati solo alla sfera dell’apparire, ma disancorati dall’essere sociale, che si punta invece a disaggregare e a dissolvere.
Ripercorrere il movimento per i diritti civili degli afro-americani negli anni ‘50-’70 del secolo scorso potrebbe offrire un terreno fecondo per illustrare la differenza.
La grande marcia organizzata sessant’anni fa, nell’agosto del 1963 a Washington da A. Philip Randolph e Bayard Rustin, in occasione della quale Martin Luther King pronunciò il suo discorso, tra i più noti e importanti del Novecento, fu significativamente denominata “Marcia per il lavoro e per la libertà”. La parola libertà veniva dunque declinata insieme a lavoro, in stretta relazione al lavoro e dopo di esso, mostrando subito lo stretto intreccio tra diritti civili, diritti economici e diritti sociali.
“Libertà” è parola scivolosissima. Quando non la si aggancia ad un altro concetto, diventa la “libertà” al centro dell’universo valoriale liberale e neoliberale; un concetto vuoto e allo stesso tempo potente, sempre persuasivo, che si vorrebbe presentare come incondizionato e come motore di emancipazione, anzi di un cammino storico progressivo e necessario verso l’emancipazione; ma, così inteso, non lo è, e non può esserlo. E non soltanto non può esserlo, ma, molto peggio ancora, è lo strumento di un travisamento, è un concetto-nebbia che avvolge e fa sparire tutto, è la notte della questione sociale, che si vuole dissolvere, facendo coincidere questa presunta “libertà” proprio con i diritti individuali neoliberali dell’apparire, mentre si incrudisce la macelleria sociale e si approfondiscono divari e alienazione. Si vuole presentarlo come il cardine assoluto, ma è vero esattamente il contrario: “libertà” è concetto dipendente perché necessità di essere qualificato. La questione viene ideologicamente elusa, ma la verità è che la “libertà” non ha un campo semantico autonomo; diversamente, per esempio, da “Lavoro”. Innalzarla da sola a principio guida e spartiacque, senza precisare come la si connoti, è, in una parola, un imbroglio; è una narrazione, una costruzione ideologica: per la precisione, quella pseudo-progressista che, in mancanza di altri termini che possano specificarla, fa confluire la libertà esattamente nel Mercato. La “libertà” non esplicitamente agganciata a null’altro è la libertà implicitamente ma sostanzialmente santificata nel Mercato e nel paradigma globalista dell’individualismo competitivo. È la libertà sempre e solo di chi può permettersela, o di chi secondo la catechesi neoliberale è abbastanza valoroso da conquistarsela, gettandosi tra le braccia salvifiche del mercato; o, più spesso, è di fatto la libertà di chi può comprarsela. Proprio in questo modo il richiamo seduttivo alla libertà emancipatrice viene usato per sottrarre diritti e spingere ancora oltre le frontiere dell’alienazione.
Inevitabilmente, anche il movimento per i diritti civili degli afro-americani del secolo scorso ha finito per essere talvolta risucchiato nel tritacarne della narrazione neoliberale falsamente emancipatrice; bisogna tuttavia notare che storicamente esso è stato altra cosa e ha coinvolto in profondità la questione sociale.
Ben altrimenti dal neoliberalismo, M.L. King si inscrive in un contesto che sottolineò programmaticamente il binomio tra “Lavoro” e “Libertà”. In questo abbinamento, la libertà, qualificata dal lavoro, viene portata immediatamente all’interno della questione sociale.
Il neoliberalismo vuole espellere dal campo della libertà la questione sociale, M. L. King portava la libertà e la discriminazione razziale ben dentro alla questione sociale ed economica. Il neoliberalismo profonde ogni sforzo per espellere dal discorso pubblico la conflittualità sociale, spingendo interamente la domanda di uguaglianza dentro la dimensione estetica, che è esteriore,
a-storica, fuorviante e sterilizzante; M. L. King radicava il cambiamento dentro il problema dei rapporti sociali di forza e di dominio. Muovendosi, al contempo, anche nella dimensione politica, storica e ontologica dei diritti inalienabili negati, si richiamò al “sogno americano” ad un tempo per rovesciarlo e per chiedere che fosse finalmente inverato. Gli estensori della Dichiarazione di indipendenza e della Costituzione degli Stati Uniti d’America, come è noto, non avevano affatto inteso estendere i diritti naturali e di cittadinanza a tutti. Ciononostante, proprio i principi ai quali si erano richiamati si offrivano alla possibilità della contro-narrazione; a condizione, appunto, di calare il piano “ontologico” dei diritti inalienabili dentro ai rapporti storico-sociali, materiali ed economici:
È un sogno profondamente radicato nel sogno americano… “noi riteniamo evidente che tutti gli uomini sono creati uguali”… Cento anni dopo [la fine della schiavitù] il Negro non è ancora libero… cento anni dopo, il Negro vive nella solitaria isola della povertà circondato dall’immenso oceano della prosperità materiale … In un certo senso, siamo venuti nella capitale della nostra nazione per incassare un assegno. Quando i creatori della nostra Repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza stavano firmando una cambiale di cui ogni americano sarebbe diventando erede. Questa cambiale era la promessa che a ogni uomo, sì, nero come anche bianco, sarebbero stati garantiti i “diritti inalienabili” della Vita, della Libertà e della ricerca della felicità. È evidente che l’America non ha tenuto fede a questa cambiale nei confronti dei suoi cittadini di colore; invece di rispettare questa sacra obbligazione, l’America ha dato alla popolazione Negra un cattivo assegno, un assegno che è tornato indietro con il timbro “fondi insufficienti”… Questo non è il tempo di prendere il tranquillante del “gradualismo”. (M. L. King, I have a dream, 28 agosto 1963).
Del resto sono presenti negli scritti di Martin Luther King esplicite attestazioni di sintonia con la prospettiva del socialismo democratico, né mancano riferimenti alla lotta di classe. [1]
Non soltanto l’ideologia mercatista, neoliberale e tecnocratica usa, attraverso la sua principale emanazione politica, quella della sinistra liberal, i diritti civili per fare strame di quelli sociali; ha anche, parallelamente, lavorato per accreditare una versione al ribasso degli stessi diritti civili ridotti a diritti individuali neoliberali, confinati nella sfera estetica. Altrimenti, anche i diritti civili avrebbero, come hanno avuto in passato, la capacità di innescare profonde trasformazioni sociali.
La narrazione neoliberale non si limita, dunque, a giocare i diritti civili contro quelli sociali; essa, piuttosto, si struttura su due elementi portanti interdipendenti: abbassa i diritti civili a diritti cosmetici ed espelle i diritti sociali.
Purtroppo questa narrazione elitista dei diritti è stata interiorizzata dai subalterni che si sono fatti incantare dalle sirene della sinistra liberal e politicamente corretta, facendosi esercito del tecno-capitalismo.
[1] https://www.largine.it/index.php/il-socialismo-dimenticato-di-martin-luther-king/