L’aspettativa
di vita pro capite in tutti i principali paesi sviluppati continua a salire
nonostante gli anni pandemici che hanno diminuito la speranza di vita.
In
nome della aspettativa di vita, negli anni passati, i paesi a capitalismo
avanzato hanno innalzato l’età pensionabile costringendoci a uscire dal mondo
del lavoro a quasi 70 anni di età.
Al
contempo numerosi interventi legislativi hanno determinato sistemi sfavorevoli
di calcolo dell’importo previdenziale nell’ottica di contenere la spesa
pubblica.
In
Italia, con l’avvento del sistema contributivo, a parità di anni lavorati la
pensione già oggi è decisamente più bassa del passato e tra una decina di anni
si attesterà, nel migliore dei casi, attorno al 65% dell’ultima busta paga.
Questi meccanismi spingono i salariati a ritardare l’età pensionabile per non
incorrere in continue decurtazioni dell’assegno previdenziale, in sostanza
lavoreremo più anni, i nostri contributi saranno maggiori percependo tuttavia
una pensione decisamente inferiore al recente passato.
Era stato raccontato ai lavoratori che l’avvento del sistema contributivo sarebbe stato all’insegna dell’equità e della uguaglianza, i fatti dicono invece l’esatto contrario: lavoreremo più a lungo percependo un assegno previdenziale da fame, saremo costretti a svolgere mansioni gravose per molti anni, le condizioni di vita e retributive saranno sempre più deteriorate.
Tutti
i governi a capitalismo avanzato si stanno muovendo nell’ottica di aumentare
l’età pensionabile nazionale e le proposte di ritardare il pensionamento hanno
suscitato grandi proteste popolari e sono passate sovente per l’arrendevolezza
dei sindacati rappresentativi.
L’innalzamento
dell’età pensionabile ha effetti negativi sulle nostre esistenze, eppure esiste
una sorta di pensiero unico e unilaterale orientato a soddisfare solo gli
interessi dell’economia liberale.
Sono lontani i tempi nei quali era egemone un punto di vista socialista della società e dei rapporti di produzione, manca da anni una seria discussione economica sui tempi di vita e su quelli del lavoro.
E’
palese l’assenza di un discorso politico-economico nella nostra società, si
affrontano i singoli temi in ordine sparso, eppure le condizioni materiali di
vita hanno strette connessione con i tempi e le modalità del lavoro. Un
ragionamento sulla previdenza non dovrebbe lasciar fuori innumerevoli altre
questioni, dagli orari lavorativi alla dinamica salariale, dal welfare
universale fino a sanità ed istruzione. L’assenza di una visione complessiva
determina l’assenza di una prospettiva politico-economica di resistenza
allo sfruttamento.
Manca
una visione complessiva dei rapporti economici e sociali, se ci fosse capiremmo
ad esempio che la pensione di vecchiaia dovrebbe riflettere il costo della
produzione e della riproduzione del lavoro durante l’intero corso della vita di
una persona, eppure i versamenti pensionistici non tornano mai nelle mani della
forza lavoro attraverso salari e pensioni dignitosi.
Se
pensiamo alla nostra esistenza ci troviamo davanti a una vita precaria con
salari bassi e una futura previdenza ancora più incerta. Non esiste uno Stato
equo e ridistributivo, gli anni neoliberisti hanno alimentato le disuguaglianze
economiche e salariali, dopo 40 anni le condizioni economiche della classe
lavoratrice sono decisamente peggiori di un tempo.
Prenderne atto significa fare i conti con le nostre stesse esistenze, per questo ogni ragionamento sul lavoro e sulle pensioni non può essere scisso o riconducibile ad esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, averlo fatto ha determinato la sconfitta della classe lavoratrice e la sua ricattabilità con l’aumento dei tempi di lavoro a discapito di quelli di vita in una società per altro dominata da crescenti disuguaglianze ed iniquità.
Fonte foto: AgoraVox Italia (da Google)