Il taglio del numero dei parlamentari, mantra del programma 5S, è finalmente arrivato in porto; ma in un modo e in una prospettiva in cui non si salva nessuno e in un’ottica che con la riforma istituzionale c’entra come i cavoli a merenda.
In sé e per sé la decisione è politicamente neutra. Non è detto che un parlamento funzioni peggio con 400 deputati anziché con 630 e 200 senatori anziché 315; ma non è scritto da nessuna parte che funzioni meglio. Quello che conta è il contesto politico-ideologico che ha portato a questa scelta; e che riguarda non solo quelli che l’hanno promossa ma anche quelli che l’hanno votata senza condividerla. E anche quelli che non l’hanno votata, fino a considerarla una specie di attentato alla libertà e alla democrazia.
E qui, appunto, non si salva nessuno. Non i grillini, accusati, a mio parere ingiustamente, di volere distruggere il Parlamento in nome della democrazia diretta e il voto dei cittadini con la piattaforma Rousseau. Ma certamente colpevoli di avere alimentato, fino a limiti estremi, il culto dell’antipolitica fino a rappresentare i suoi (della politica N.d.A) praticanti come casta e il suo esercizio come costo per la collettività. Ma, su questo punto (quasi) nessuno è in grado di scagliare la prima pietra: perché l’antipolitica è al cuore dell’immaginario politico della prima repubblica e perché la riduzione dei costi della politica e dello stesso potere elettivo fu l’asse promozionale della riforma costituzionale di Renzi. Aggiungendo, per inciso, che i radicali che oggi si stracciano le vesti prospettando scenari apocalittici non denunciarono, neanche una sola volta, lo svuotamento dei poteri del Parlamento attuato nel corso di quegli anni. E, attenzione, in atto in quasi tutti i paesi del cosiddetto “mondo libero” in cui le necessità di decidere fanno sempre più premio su quelle di discutere e in cui leggi elettorali maggioritarie e scelta dei candidati da parte delle dirigenze di partito limitano sempre più l’autonomia degli eletti.
Ciliegina sulla torta, il fatto che una riforma condivisa realmente solo dal M5S sia stata votata da oltre il 90% dei deputati. L’ennesima manifestazione di viltà di una classe politica disposta a difendere i diritti dei “suoi” ma mai la dignità di tutti.
In prospettiva, poi, c’è il vuoto più assoluto. O, più esattamente, la totale incomprensione delle garanzie, istituzionali ed elettorali, tali da garantire che il provvedimento or ora votato non apra la strada alla trasformazione dell’Italia in una “democrazia illiberale”.
Prima tra tutte, la difesa del ruolo del Senato. Che in tutte, dico tutte, le democrazie liberali occidentali, è stato concepito come elemento di freno o meglio di correttivo contro i pericoli insiti in un sistema monocamerale. E che, proprio per svolgere appieno questo ruolo, è stato dotato di un sistema elettorale diverso: elezione di secondo grado (Francia), rappresentanza dei territori (Germania), applicazione del sistema elettorale su base territoriale (Italia, Spagna), rappresentanza sociale o meritocratica (Gran Bretagna), rappresentanza centrale (Senato americano). Ora, la prima idea che sembrano avere in mente i nostri geniali legislatori sembra essere quella di uniformare in tutto i due sistemi elettorali. I cultori del “maggioritario che può tutto” già esultano; gli avete già aperto la strada.
Infine il sistema elettorale. Anche qui, specie dopo l’uscita dei renziani – “sosteniamo tutti il governo, ma restiamo, politicamente, avversari” – dovrebbe essere chiaro a tutti che il sistema proporzionale è l’unico in grado di far valere la forza di quel 45 e più per cento di adesione su cui lo schieramento anti Salvini può contare; oltre a garantire una adeguata rappresentanza alle minoranze.
Ci si dice, però (unico argomento a disposizione a quanto pare) che il Pd ha il “maggioritario nel suo Dna”. Ammesso, però, ma tutt’altro che concesso che ne abbia uno…
Fonte foto: La Repubblica (da Google)