Ho una sorella americana. Vive a New York, lavora per Google. I capelli però se li taglia in Italia. La cosa non mi era chiara. Per quanto mi riguarda ho un rapporto decisamente conflittuale con i parrucchieri, il mito di Sansone riecheggia da qualche parte dentro di me e provo un certo astio verso chi sta lì con le forbici in mano dopo avermi torturato il cuoio capelluto con dita d’acciaio, alternando acqua gelida ad acqua bollente.
Provavo e provo quindi un certo disagio a prendere appuntamenti al buio con Gaetano Hair Dresser o RomaNord Exctension, tanto più da quando avevo visto mia sorella trasformarsi in un ebreo ortodosso, con tanto di boccoli laterali e sfumatura alta. Il desiderio che trovasse a Brooklyn o a Manhattan un parrucchiere capace, ma non troppo incline agli azzardi dei suoi colleghi romani infervorati dall’avere sotto le forbici una cliente newyorchese, diventò quindi sempre più pressante. Poi Tabatha mi spiegò che non era possibile, né ora, né mai. Tabatha è Tabatha mani di forbici, forse qualcuno di voi non la conoscerà, ma Tabatha ha un suo pubblico affezionato, su Real Time, la televisione del futuro. Real Time propone una serie di trasmissioni basate su quella strana interazione tra vita e televisione che sono i reality. Tramite i reality noi impariamo a vivere, come fossimo bambini davanti ai Teletubbies o a Masha e l’orso, con l’unica differenza che mentre le trasmissioni per bambini danno ancora qualche insegnamento etico e basato sul buonsenso, i reality ci forniscono qualche dritta in più su come va il mondo. Diciamo che le trasmissioni per bambini stanno ai reality come le maestre degli anni ’70 stanno al sergente di un’accademia militare. In ambedue i casi si tenta di intervenire sull’individuo al fine di piegarlo alle esigenze sociali, ma non esattamente allo stesso modo.
Bene, Tabatha, come il più spietato dei sergenti, impone ai parrucchieri che l’hanno chiamata un training decisamente duro. Loro, però, hanno l’obbligo di sentirsi fortunati: grazie ai suoi consigli potranno risollevare le sorti dei loro saloni. La trasmissione è tutta lì.
Lo spettatore osserva, puntata dopo puntata, come Tabatha riesca a convincere quei poveretti, spesso recalcitranti, a stare alle sue regole se vogliono trasformarsi, com’è d’obbligo, da parrucchieri di periferia, con una clientela non proprio sofisticata, in saloni di bellezza di un certo prestigio. Perché in America, e qui si svela l’enigma dei viaggi di bellezza di mia sorella, o sei un parrucchiere di successo che fa tagli azzardati a prezzi esorbitanti o sei uno sfigato, con una clientela depressa a cui fai tagli improbabili in un salone sporco e con un arredo che ha visto tempi migliori. Delle due l’una, tertium non datur. Per trasformare un parrucchiere sulla strada del fallimento in un imprenditore di successo, Tabatha usa, ovviamente, il pugno di ferro. Devo dire che ha anche un lato romantico, un certo rispetto per le capacità professionali, e tende a valorizzare, ove ci fossero, quelle dei dipendenti. Ma il trucco sta proprio lì. Mostrare come l’unico valore possibile, a cui ogni altro aspetto umano deve piegarsi, è l’impegno nel proprio lavoro, a cui corrisponde un adeguato indennizzo monetario. Ognuno vive per lavorare e sogna il successo e lavora per il successo e viene gratificato con il denaro, unico metro di giudizio di un essere umano. Quindi non puoi accontentarti del tuo negozio in periferia e fare tagli decenti per un prezzo onesto. Non puoi. O ti fai trascinare nel gorgo della depressione o miri a fare del tuo negozio il migliore della zona, per poi venderlo e comprartene un altro in centro, per farlo diventare il migliore, creare una catena di negozi di parrucchieri con il tuo marchio, buttarti nel business dei corsi di aggiornamento necessari per l’ascesa sociale dei parrucchieri rampanti e finalmente morire con le forbici in mano, martire entusiasta della tua ascesa costante. Ovviamente, rispetto a MasterChef, pare di stare nella preistoria dei rapporti produttivi, ancorati ad un’antica etica protestante che sebbene spietata mantiene, appunto, i suoi contorni contortamente etici, ma c’è un ma. Come in tutti i reality lavorativi di importazione, i licenziamenti fioccano, immediati, ad ogni segno di disaffezione alla causa del successo dell’impresa. Non c’è articolo 18 che tenga, ovviamente, essendo questo un antico e folkloristico retaggio del socialismo reale in salsa italiana. Il licenziamento è un atto dovuto, anche nei confronti del lavoratore riluttante.
In fondo lo fai per lui, è il momento che cresca!
P.S. Il video fa parte dell’archivio di “TeleRompo”, Tv mai nata ma sempre in procinto di vedere la luce…