L’idea che la sfera privata – se contrapposta a quella pubblica – detenga caratteri virtuosi, progressivi, civilizzatori non ha assunto rilevanza da pochi giorni. In primo luogo iniziò a riscuotere un certo successo nel momento in cui si iniziò a concepire il personale come politico. I primi vagiti di una rincorsa al modello americano nascono proprio da questa considerazione. Il rifiuto di imbrigliare la propria personalità nei meccanismi oppressivi delle gerarchie cristallizzate dalle organizzazioni collettive e burocratiche. Si affrancò un modello esistenziale fino a pochi anni prima impensabile nelle società dove era ancora ben vivo il conflitto di classe. L’individuo con le sue forze ma anche con le sue incommensurabili capacità creative era il solo soggetto in grado di rompere e scardinare il patto sociale. L’avanzata implacabile delle nuove tecnologie, la crescita esponenziale dei nuovi mezzi di comunicazione hanno messo a disposizione il campo da gioco in cui rendere questa prospettiva di vita incontrovertibile. La rinnovata dimensione della libertà personale. Che non ha bisogno di lacci e divieti. La Frontiera immateriale dove tutti gli uomini dotati di ingegno e buona volontà tornavano a percepirsi come proprietari di sé stessi.
I dispositivi di comando neo-liberali sono stati introiettati così profondamente proprio perché questo scenario esistenziale è stato ritenuto allettante da gran parte della popolazione. Il fatto che l’opzione assecondasse ideologicamente i propositi predatori del grande capitale appariva come eventualità del tutto secondaria. Il merito personale, l’espansione bulimica delle singole personalità diventavano elementi costitutivi dell’intero meccanismo sociale. L’incontro tra questa modalità espressiva e la narrazione secondo cui la managerialità privata coincidesse con l’efficienza e la competenza è risultato fatale. Un matrimonio celebrato nel nome del progresso. Finanza creativa. Proprio il mito della creazione ha sacralizzato l’individualismo progressista. Onnipotenza del soggetto. I creatori della Rete così non sono stati assimilati ai vecchi magnati dell’industria pesante che pensavano al profitto sfruttando l’alienazione del lavoratore. La sfida si sostanziava nella configurazione di un Mondo Nuovo nel quale potevano essere celebrati come imperatori de-territorializzati.
Cristopher Lasch nel lontano 1984 così ammoniva: “Le avanzate tecniche di comunicazione, che sembrano limitarsi a facilitare la divulgazione di informazioni su una scala più vasta di un tempo, a un esame più approfondito dimostrano di impedire la circolazione di idee e di far sì che il controllo venga esercitato da un pugno di grandi organizzazioni”. Ma proseguiva ancor più profeticamente: “… la tecnologia incarna la progettazione intenzionale di un sistema di gestione e di comunicazione a senso unico, concentra il potere economico e politico e, sempre più, anche quello culturale nella mani di piccole élite di pianificatori, analisti del mercato ed esperti di ingegneria sociale, stimola l’input o il feedback soltanto in forma di cassette dei suggerimenti … riservando agli stessi media il diritto di scegliere i leader politici e i loro portavoce, e presentando la scelta di leader e partiti come una scelta tra diversi beni di consumo”.
Ma se tutto questo non fosse stato accompagnato dalla narrativa sulla libertà e sul progresso indefinito regalato dalla Rete il fenomeno difficilmente avrebbe toccato la questione democratica. La Rete difatti ha permesso di identificare l’etica con l’iniziativa privata. Sacerdoti di questa costruzione rivelatrice sono stati i movimenti anarchici e progressisti. Si ricordino i Pirati, movimento trans-nazionale secondo il quale lo Stato non si doveva permettere in alcun modo di porre limitazioni all’espansione della sfera virtuale. I Creatori della Rete, quindi hanno incarnato sia lo spirito della libera circolazione dei capitali sia le tendenze culturali liberal/progressiste, e oggi detengono appunto il potere di modellare o indirizzare la competizione politica su partiti, messaggi, soggetti che assecondano le loro aspirazioni di profitto e contemporaneamente il clima culturale adatto perché quei profitti si ingrossino senza ostacoli. I social hanno espanso questa tendenza. Hanno de-territorializzato i centri d’informazione e quindi hanno contribuito a fortificare la de-nazionalizzazione della politica. Tanto che i proprietari si possono permettere di silenziare il Presidente in carica del centro dell’Impero. Si dotano di poteri super-costituzionali.
Lo possono fare perché negli anni l’egemonia culturale conquistata impedisce una presa di coscienza sul ruolo dello Stato. Oggi appare difficile spiegare a chiunque che una piattaforma privata nel momento in cui inizia a rivestire centralità nel dibattito politico assume una rilevanza pubblica e che di conseguenza le modalità di accesso a quei mezzi di comunicazione non possono essere stabiliti dal diritto privato, insomma dal mero accordo tra capitalista e consumatore. Il privato non può – in quel caso – far prevalere i propri protocolli sui contenuti rispetto alla cornice costituzionale. Sulla loro rilevanza non ci possono essere dubbi. Anzi l’utilizzo dei social nelle campagne elettorali sono stati oggetto di specifici studi in occasione delle campagne elettorali. Per incensare – tipico il caso di Obama – la propensione alla modernità se a prevalere sono candidati in linea con lo spirito dei tempi, per screditare – attraverso il controverso tema delle fake news – se la spuntano i loro avversari.
Con la censura operata dalle piattaforme queste si presentano nel ruolo di editori. Se selezionano i contenuti si comportano come dei veri e propri media con la consapevolezza di detenere un illimitato potere di indirizzo politico. Qui entra in gioco la questione democratica. Ma nel mondo liberale la questione della purezza democratica ha rivestito centralità finché essa assicurava la possibilità di controllare l’azione del Sovrano da parte della comunità dei proprietari. Nel momento in cui – grazie alle conquiste sociali del movimento dei lavoratori – anche le classi subalterne hanno avuto accesso ai luoghi istituzionali in cui si concretizzava la dialettica politica, la democrazia ha iniziato a rappresentare un fastidio da sorpassare. Per ovviare al problema la decisone politica è stata passo dopo passo ceduta agli organi della Governance sovranazionale i quali si limitano a creare le condizioni perché si sviluppino sempre nuovi mercati di profitto.
In questo contesto la disarticolazione della sfera pubblica con la sua implicita de-legittimazione ha assunto proporzioni mastodontiche. Tutti i fattori sin qui descritti hanno reso lo Stato inerme nei confronti dei grandi proprietari. Se gli organi pubblici ordinassero la chiusura delle piattaforme in un dato territorio nel caso in cui la loro censura impedisse il corretto svolgimento della vita democratica si assisterebbe alla rivolta degli utenti. Gli stessi, anche i più critici al modello dominante, si affiancherebbero nell’attacco allo Stato che in questo modo assumerebbe contorni invasivi e totalitari. La stessa equazione espressa dalla popolazione nel periodo di emergenza COVID. Lo Stato non può decidere nulla. Così ogni candidato, ogni fazione politica accomoderebbe i propri messaggi per assicurarsi la sopravvivenza nei nuovi canali di comunicazione. La rappresentazione manieristica della democrazia torna così a essere un affare privato per la libera comunità dei padroni. Impensabile solo immaginare – per chi non si accomoda – la conquista del potere.
Ma questa disarticolazione ha finito per schiacciare proprio l’individuo. La vulgata secondo cui non servono più intermediazioni collettive per raggiungere le proprie aspirazioni di felicità ha compromesso del tutto la capacità di contestare organicamente il sistema. Il mondo post COVID sta esasperando questa tendenza. Nonostante la crescita di diseguaglianze insopportabili e la manifesta incapacità del modello neo-liberale di affrontare la Realtà, il risentimento sociale è sempre più spoliticizzato. Assume i contorni dello sdegno o del ribellismo di giornata. Il dibattito è costruito su architravi in cui la popolazione si affronta con ottuso manicheismo. Da una parte la civiltà progressista che asseconda ogni spinta civilizzatrice dei mercati dall’altra la “barbarie” popolare che si aggrappa a credenze arcaiche. I secondi pensano di rappresentare autenticamente il 99% della popolazione che non gode dei privilegi della globalizzazione, i primi si celebrano come meritevoli, istruiti e lanciati nel gotha della società civile. Gli uni affabulati dalle fake news ufficiali (gli hacker russi, le armi di distruzione di massa) gli altri da quelle meno sofisticate che imperversano negli interstizi della Rete. Il popolo resta ancorato ai due modelli dell’ individualismo americano. Quello cosmopolita e competitivo della Silicon Valley che promette sempre grandi svolte epocali e quello difensivo e risentito di Dixieland che sogna il villaggio arcadico del passato. Il loro collante è stato sempre un nemico esterno. Gli Stati Uniti come spazio sacro.
Ma un altro dato dovrebbe far aprire gli occhi. L’1% della popolazione mondiale, quella che detiene gran parte della ricchezza, cresce in maniera diseguale. Lo 0,1% di super ricchi legati alle plusvalenze borsistiche e alle piattaforme globali aumentano i loro profitti più velocemente e in misura maggiore rispetto al 9,9% rappresentato dalle élite tradizionali legate al territorio e all’economia reale. Queste sono oggi le squadre che si stanno affrontando politicamente nell’apparenza del sistema democratico occidentale. Con la distruzione dei corpi intermedi – il personale è politico appunto – i singoli individui esclusi dal gioco si schierano inconsapevolmente nel regolamento di conti interno alle due bande. Senza sapere che torneranno a marciare unite per saccheggiare le classi popolari e per reprimere o silenziare qualsiasi opzione di riscatto collettivo delle stesse, soprattutto se saranno ispirate da orizzonti socialisti. I Paesi non allineati sono ostracizzati da entrambe le parti. E lo faranno con la repressione o con la censura. Il vero obiettivo della campagna sulle fake news difatti è la libera circolazione delle idee. Non impedire a qualche sciamano di girare libero con una pistola.
In America il Ku Klux Klan non è stato inventato l’altro ieri e non è nato di certo grazie ai social network.
Fonte foto: YOUTHQUAKE (da Google)