Sconcerto nella redazione de “La Repubblica”. Le donne non votano le donne. Sembra privo di sostanza, dunque, quel principio assiomatico secondo cui i generi si trasformano in astrazioni, privi di corporeità e slegati da loro contesto sociale e culturale. Insomma, del tutto sorprendentemente, poco influenzabili dalle raccomandazioni algoritmiche che vorrebbero disciplinare un costante saper essere. Chissà se un giorno in quegli ambienti si comprenderà che anche gli omosessuali non necessariamente si immaginano come liberal cosmopoliti ma anch’essi vivono della loro carne e delle loro ossa. Doppio sconcerto nello scoprire che i referendum intenti a limitare il diritto all’aborto sono stati respinti anche negli stati dove Trump ha maramaldeggiato. Forse si potrebbe intuire che determinate conquiste civili procedono secondo il grado di consapevolezza maturato nella collettività e prescindono da impalcature ideologiche indotte. Si potrebbe ragionare, ad esempio, sul fatto che nel voto statunitense il fattore culturale ha inciso significativamente. Ma non nella traiettoria suggerita dall’internazionalismo liberale. Non, quindi, per l’ignoranza irrimediabile della barbarica provincia. Di certo, è stata respinta al mittente quella postura vanagloriosa dell’ultra-capitalismo woke che smaterializza in passatismo e in immaginario nostalgico qualsiasi dimensione esistenziale ancorata alla realtà della vita umana, così intrisa di logica dello Spettacolo e contrassegnata dalle dinamiche dell’evento e del marketing. Ma soprattutto che impartisce continue ramanzine a chi non accoglie lo spirito dei tempi incarnato dallo star system e dall’Accademia di prestigio. Un mondo dove ciò che viene premiato è il talento; tutto il resto è fentanyl. Non che Trump sia così diverso. Anzi, è del tutto speculare alla riproduzione indefinita dell’ideologia capitalista. D’altronde è un feroce capitalista, forse meno ipocrita. Trump rivernicia il vecchio mito dell’individuo proprietario ancorato all’idea rinfrancante dell’iniziativa privata virtuosa messa in pericolo dalle usure di Stato e delle banche finanziarie e gioca sulla frustrazione sociale di chi è stato sconfitto dall’illusione di una concorrenza globalizzata e ottimista. Quei gruppi sociali – i nuclei familiari della provincia, la vecchia classe ormai sottoproletaria – oltre al dato economico hanno perso ruolo e stima sociale. Sopraffatti dal culto accecato per le minoranze si sono sentite defraudate della dignità esistenziale. Quindi non sopportano in alcun modo sillabari edulcoranti ed eccessivi sulla superiorità morale di determinati stili di vita. La destra, in assenza di prospettive socialiste che puntino a unificare il tessuto sociale dei subalterni, ha ruolo facile nel ripresentare un vecchio liberismo tradizionalista in contrapposizione a quello affabulatorio della civilizzazione democratica. Poco hanno inciso le vicende di politica internazionale che seguiranno una loro logica di potenza, al di là della successione al trono. Qualcosa forse muterà nei rapporti con l’Europa, ma non è stato questo il terreno di scontro nella contesa elettorale. Certo un liberismo protezionista prevede l’imposizione di dazi e questa politica atterrisce le cancellerie europee. In una logica mutata nel commercio internazionale l’Europa si troverebbe nella particolare condizione di riavviare politiche pubbliche di incentivo alla domanda interna dei singoli stati, di nazionalizzazioni e di sviluppo industriale. Appare evidente sia l’impreparazione congenita delle classi dirigenti, del ceto politico e della struttura manageriale europea nell’affrontare un simile scenario e il panico conseguente alla necessità di sovvertire i vincoli esterni che impediscono costituzionalmente un percorso di questo tipo. Sarebbe l’occasione, questa, per rifondare una coscienza politica sulla necessità di verticalizzare il conflitto e riconsegnare ossigeno alla democrazia sostanziale e per abbandonare, a sinistra, le fascinazioni elitiste della società civile a cui è tanto cara l’illusione fantasmagorica di una collettività dove gli individui si contrappongono orizzontalmente per gruppi d’interesse e non per classi. Dall’estero ciò che colpisce è la freddezza di Putin nell’accogliere l’esito elettorale non equivalente allo smodato entusiasmo di Dugin. Si nota, dunque, una mutazione nell’impostazione grammaticale russa, ormai poco incline a farsi rappresentare dai modelli esegetici del nazionalismo spiritualista. Più concreta l’influenza del Partito comunista russo e soprattutto l’asse con la Cina condensato nel percorso politico dell’alleanza Brics. La novità intercorsa negli ultimi otto anni è l’apparizione di una realtà multipolare con la quale dovranno fare i conti Trump, le logiche imperiali statunitensi e l’Europa intera.
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