Il sogno americano, con la sua capacità persuasiva, è riuscito storicamente a uniformare la popolazione nella difesa di un modello sociale e antropologico, oltre che economico. Il mito del self made man geloso per la conquista della propria terra ha permesso all’americano di aspirare a diventare classe media anche quando la frontiera esaurì le proprietà disponibili. Oltre alla dura repressione, gli Stati Uniti hanno avuto così gioco facile nel far disperdere così precocemente il socialismo all’interno dei propri confini. Gli stessi ceti bassi, quando si cristallizzò la figura del salariato congelato nella dimensione dello sfruttamento, si sono rifugiati nell’appartenenza alla dimensione della terra promessa, legati all’idea immaginifica del villaggio pacificato e laborioso.
Questo meccanismo ha prodotto due risultati essenziali. Il primo è la difesa della libertà individuale (e quindi di libera iniziativa economica) che non può essere scalfita da alcuna autorità, il secondo è l’accettazione implicita del fallimento economico come colpa personale. La separazione in classi in America è sempre stata analizzata da un punto di vista quantitativo mai da un punto di vista legato ai rapporti di produzione. La contrapposizione è relegata al ricco contro il povero, o meglio alla separazione tra ricchi e poveri. Ma culturalmente lo stigma della povertà è funzionale al mantenimento della favola legata al paese delle grandi opportunità personali. Con la buona volontà si potrà sempre emergere.
Il paradosso è che questa mentalità ha preso piede nella terra in cui l’ascensore sociale è pressoché ghiacciato, nel quale insomma chi nasce povero morirà povero. Per questo le vedette che nascono dal basso – perlopiù cantanti e sportivi – sono estremamente mitizzate. Il conflitto negli USA è stato facilmente spostato dallo scontro di classe alla concorrenza etnica. La guerra tra poveri ha specificatamente una dimensione razziale. Così le comunità nere americane, ammassate nei ghetti, contestano giustamente la violenza poliziesca ma raramente sviluppano una critica al modello sociale. Anzi la loro cultura gangeristica – facilmente ravvisabile nella musica rap – riproduce tutta la simbologia dell’arricchimento capitalista e della società dei consumi. Le race riots – invenzione dei bianchi contro i neri – producono la distruzione sistematica della roba. La stessa che viene poi esibita in maniera particolarmente vistosa.
Colpevolizzarsi per la propria condizione insomma rappresenta l’architrave psicologico per la promozione dell’ideologia della felicità nel mondo del consumo.
All’interno del cosiddetto sogno europeo questa mentalità – sulla quale si basa l’ordo-liberismo tedesco – è promossa attraverso la vergogna per il debito. Onorare i debiti al di là delle proprie possibilità e delle condizioni sociali provocate dal modello economico, è un dovere al quale la popolazione deve essere educata in primis dai comportamenti virtuosi degli stati – anch’essi trasformati in soggetti di diritto privato. Per questo motivo l’Unione Europea appare così pervicace nella riproposizione di quelle stesse ricette già produttrici delle crisi che intenderebbe curare. La meta è raggiunta quando il conflitto sociale si anestetizza del tutto.
Per convincere gli individui – in un meccanismo manipolatorio – si utilizzano figure paradigmatiche del sacrificio soggettivo come unico mezzo per sovvertire i rapporti di forza esistenti. Il compito pedagogico assunto dalla Governance si materializza nella promozione di esistenze oggettivamente sfortunate che al di là delle proprie disgrazie eroicamente riescono ad emergere. Bebe Vio e Alex Zanardi corrispondono perfettamente a questo imperativo. Attraverso la promozione di queste vite si dice alla popolazione di non lamentarsi troppo perché il successo dipende esclusivamente dalla propria forza di volontà. Non esistono ostacoli determinanti, figuriamoci le condizioni economiche di partenza. Tutti possono accedere direttamente nel circolo aristocratico dei soggetti visibili, gli unici ai quali è concessa la dignità della parola.
L’appartenenza alla classe aristocratica non è più identificabile con il sopruso perché determinata dal “merito”, quindi da un lato diventa incontestabile e dall’altro si manifesta come degna di ammirazione incondizionata, pena l’essere archiviati nel recinto degli individui parassitari che ancora auspicano protezioni denominate novecentesche. Ma per superare l’anticaglia novecentesca la classe aristocratica definisce progressista una società nella quale i rapporti di forza ritornano ai tempi della rivoluzione industriale e lì ferma la propria macchina del tempo. Il progresso ormai sinonimo del passo in avanti personale, determina esistenze catapultate in una società che compie innumerevoli passi indietro, occultati dalla forza educativa della ricerca di una felicità immediata, da conquistare possibilmente senza guardare in faccia nessuno e senza alcun rancore sociale.
Fonte foto: MondoLiberOnline (da Google)