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Il punto di vista di fondo di un ampio schieramento politico sostanzialmente di destra, che governa i Paesi dell’area-euro, e che va dai socialisti europei ai vari partiti che, in Europa, fanno riferimento ai popolari, è ben noto: siamo dentro una crisi di trasformazione del capitalismo, analoga a quella degli anni Trenta, e che schumpeterianamente è condizionata, nel suo sviluppo, dall’imminenza di una ondata di grande trasformazione scientifica e tecnologica, i cui assi fondamentali sono già visibili oggi: biotecnologie, robotica, trasmissione di dati a velocità e potenze crescenti, economia verde (energia alternativa, efficienza energetica, nuovi materiali a minor impatto ambientale, nuovi processi produttivi a minore emissione, ecc.).
Questa ondata di innovazione tecnologica, ci dice l’establishment di potere, comporterà, nel medio termine, disoccupazione tecnologica (si pensi all’impatto previsionale che la robotica avrà sulla cancellazione di centinaia di figure professionali, dal soldato fino all’operatore di sportello o di call center), e maggiore pressione competitiva sulle nostre economie da parte di nuovi soggetti emergenti, in grado di collocarsi sui settori produttivi più tradizionali, sottraendoli alle economie sviluppate, e producendo quindi ulteriore disoccupazione. Le biotecnologie alimentari, aumentando la disponibilità di cibo transgenico (non importa se ciò sia pericoloso per la salute umana) trasformeranno economie ancora oggi prevalentemente agricole, come quelle di buona parte dell’Africa, di ampie zone dell’Asia centrale e sudo orientale o dell’America latina, in economie in procinto di attivare rivoluzioni industriali, quindi nuovi competitor per i Paesi capitalisticamente maturi.
Poiché per l’establishment questa rivoluzione tecnologica, con i suoi effetti economici e sociali, è inevitabile, ne deriva che le ricette siano altrettanto inevitabili: crescente precarizzazione dei mercati del lavoro nazionali, per renderli, secondo la vulgata tecnica ufficiale, più “adattabili” ai grandi cambiamenti nella struttura professionale della domanda di lavoro e per redistribuire una massa decrescente di ore di lavoro al fine di ottenere un esercito di lavoratori sottopagati e temporanei in luogo di disoccupati (il vantaggio sociale di passare da una situazione all’altra è peraltro molto limitato, ma tant’è). Privatizzazione crescente dello Stato e della società, per ridurre i costi fiscali delle imprese e renderle maggiormente in grado di resistere all’ondata di nuovi competitor internazionali in un mondo sempre più multipolare, globalizzazione crescente per far muovere con il minor grado possibile di impacci i flussi di capitali necessari per sostenere i poli produttivi innovativi che si collocheranno alla frontiera di questa rivoluzione tecnologica, e per rendere sempre più mobile (cioè di fatto sempre meno costoso, grazie all’accresciuta concorrenza fra lavoratori) il fattore lavoro. Riconduzione della funzione politica a mero facilitatore di tali processi, al limite prevedendone una marginale funzione di compensazione delle esternalità sociali negative (purché la politica non si sogni di andare ad aggredire alla radice tali esternalità) per il mezzo di una drastica semplificazione/riduzione della funzione di rappresentanza degli interessi sociali, di sintesi e di decisione, con modelli istituzionali più prossimi a quelli di un Cda che a quelli del tradizionale parlamentarismo. Solo così, ci dice il mainstream dominante, da Valls alla Merkel passando per Renzi, avremo sistemi economici sufficientemente “flessibili”, resilienti, aperti allo sfruttamento di nuovi mercati, efficienti e decisionisti per affrontare la grave crisi sociale che proseguirà, probabilmente con conseguenze anche più gravi di quelle sinora sperimentate, negli anni a venire, fintanto che la trasformazione schumpeteriana in atto non avrà fatto ripartire un nuovo ciclo di espansione capitalistico.
Certo, riconoscono i meno disonesti di questo mainstream, questa ricetta comporta sacrifici, aumenta le diseguaglianze e le povertà, produce generazioni dominate da insicurezza esistenziale, sradicamento geografico ed affettivo ed assenza di prospettive, riduce gli spazi della democrazia. Ma, ci avvertono gli intellettuali organici a tale posizione politica, l’alternativa sarebbe anche peggiore: rinchiudersi dentro il tradizionalismo politico e sociale, che ha il volto dei nazionalismi risorgenti come naturale reazione all’orrore dell’euro, del confessionalismo che imbraccia il kalashnikov, del neo-corporativismo localistico che alza muri contro i disperati alla ricerca di asilo e calore umano. Badate, ci avvertono, che se rifiutate la ricetta, la fase di trasformazione in atto comporterà nuove guerre, nuove insicurezze, nuove povertà. Insomma, tra il morire e il rimanere vivi in agonia meglio la seconda opzione. Una seconda opzione che la sinistra non può appoggiare, perché dietro i populismi di destra vi sono spezzoni di borghesia “perdente”, uscita cioè sconfitta dalle trasformazioni capitalistiche, per cui, esattamente come nel caso del fascismo sansepolcrista delle origini (che conteneva anche rivendicazioni sociali avanzatissime tipiche della sinistra, si pensi all’autogestione operaia) le destre sanno usare larghi strati di proletariato e sottoproletariato come“massa di manovra” asservita a favore di interessi politico-economici ben diversi da quelli delle classi popolari, inserendo nei loro discorsi programmatici anche elementi sovrastrutturali graditi alle classi popolari stesse, mutuandoli anche da proposte di sinistra.
Ovviamente il ruolo della sinistra è quello di uscire dalla dicotomia politica che si annuncia, fra “governasti globalismi responsabili” e “populisti di destra nazionalisti e tradizionalisti” che potrebbe diventare il leit motiv degli scenari politici dei nostri Paesi per i prossimi decenni. Uscirne significa ribadire che i processi vanno governati, non lasciati agire dal mercato. E questo significa che non è vero che l’innovazione tecnologica sia di per sé il bene assoluto. Che, peraltro come afferma addirittura la dottrina sociale della Chiesa, l’innovazione tecnologica va discussa ed incanalata per il bene dell’umanità, non solo per motivi commerciali e di profitto di pochi. Ad esempio, che si apra una discussione sulle biotecnologie e sull’idea, peraltro del tutto distorta, di vita che veicolano, come una immagine di un prodotto manipolabile e commercializzabile in base alla domanda di mercato. Che il dibattito sulla robotica sia finalizzato ad immaginare un’era di relativa liberazione dai lavori più usuranti, manuali e ripetitivi, redistribuendo la ricchezza prodotta in modo che ampie fasce di popolazione si liberino dal fardello del lavoro senza rinunciare al benessere. Che uno sviluppo socio-economico meno squilibrato fra varie aree del mondo va ricercato, anche con strumenti che vadano a colpire il dumping sociale ed ambientale praticato dai produttori emergenti, o i prodotti nocivi per la salute del consumatore proposti dai partner commerciali, perché non è un dogma che si debbano aprire le frontiere a tutto e che i flussi di interscambio di prodotti (e anche di capitali, con particolare riferimento a quelli speculativi che operano su mercati completamente deregolamentati e opachi, dove il conflitto di interesse è la regola e non la perversione) non debbano sottostare a regole e normative, nazionali ed internazionali. Che il governo efficiente dell’economia possa essere fatto anche da soggetti pubblici, dotati delle competenze e capacità decisionali per orientarlo verso il bene comune, e non di pochi, che la democrazia rappresentativa, opportunamente modernizzata ed in grado di accogliere la rinnovata voglia di partecipazione diretta che proviene dai ceti emergenti del frazionamento cognitivo e contrattuale del mercato del lavoro possa trovare un equilibrio dentro il persistere della funzione di mediazione di organizzazioni di massa. Il campo è ampio, e come si vede il lavoro politico ed analitico potenzialmente è tantissimo.