Per ragioni di natura psicologica che vengono abilmente sfruttate e manipolate dal sistema mediatico, ci sentiamo profondamente feriti quando vediamo le immagini di un attentato terroristico – i corpi straziati in seguito ad un attentato suicida in una discoteca, terroristi che travolgono i passanti con un camion oppure gli sparano da un’auto in corsa, e ora i miliziani di Hamas che uccidono o sequestrano giovani inermi durante un rave a pochi passi dalla Striscia di Gaza – ma restiamo sostanzialmente indifferenti davanti alle immagini dei bombardamenti aerei su un centro abitato o dei carri armati che entrano in una baraccopoli sparando e travolgendo tutto quello che gli sta davanti. Il fumo denso delle bombe che si alza nel cielo non ci fa nessun effetto, anche se sappiamo che sotto quelle colonne di fumo ci sono decine di corpi carbonizzati o sepolti sotto le macerie. Ma non li vediamo, o meglio, non ce li fanno vedere. Ci fanno vedere solo ciò che interessa loro mostrarci. Neanche la guerra è uguale per tutti, e tanto meno lo sono i morti.
Ricordate le immagini della guerra in Iraq e dei bombardamenti su Bagdad? Sembrava di stare in un videogame e non in una guerra, con tutte quelle luci e quei traccianti verdi che illuminavano la notte. Sembrava di assistere allo spettacolo dell’aurora boreale e invece erano bombe e missili che cadevano sulla testa della gente e, diciamoci la verità, ci divertiva anche osservare quelle immagini. I media sono riusciti a trasformare quella guerra in un videogioco. Una guerra, diciamo pure un’aggressione fondata su una menzogna (quella delle presunte armi di distruzione di massa in possesso di Saddam che in realtà non esistevano) che – è bene ricordarlo – provocò centinaia di migliaia di morti, feriti e mutilati. Ma il sistema mediatico fu abilissimo a trasformarla in una sorta di spettacolo pirotecnico di altissima tecnologia. Giornalismo embedded, veniva definito, ricordate? Tradotto, facciamo vedere solo quello che è utile che la nostra “opinione pubblica” veda, perché anche e soprattutto l’orrore deve essere sapientemente selezionato e distribuito.
Lo spartito non è cambiato, ovviamente, e allora siamo qui a scandalizzarci di fronte alle immagini brutali e scioccanti dei militanti di Hamas che sparano a ragazzi israeliani inermi che cercano di fuggire o di nascondersi disperatamente. Ma diciamoci la verità, anche i tanti di noi che da sempre simpatizzano per la causa palestinese, sono oggi disturbati da quanto accaduto perché nel loro immaginario vorrebbero sempre vedere i giovani palestinesi “armati” di fionde mentre lanciano pietre contro i carri armati e i blindati israeliani che li falciano. Quanti giovani e giovanissimi palestinesi sono stati uccisi in questo modo durante le precedenti Intifade (rivolte)? Centinaia, migliaia? Non lo sappiamo neanche, non li abbiamo contati o abbiamo perso il conto. Però ci piacevano tanto, diciamoci sempre la verità, quelle scene di ragazzini palestinesi che tiravano pietre contro i tank e gli elicotteri e venivano ammazzati come mosche, perché gratificavano la nostra coscienza di occidentali progressisti che stavano dalla parte dei più deboli, dei tanti piccoli Davide eroici e indifesi contro il gigante Golia, troppo più potente, prepotente e armato di loro.
E allora anche molti di quei “progressisti e di sinistra” sono oggi disturbati dalle scene raccapriccianti dei giovani israeliani uccisi dai palestinesi. E certo, perché per essere convinti di stare dalla parte giusta, sentirsi rassicurati e in pace con la coscienza vorrebbero che i palestinesi continuassero a farsi massacrare come avviene da più di settant’anni a questa parte. E invece no, si sono stancati e hanno deciso di restituire un po’ di quel terrore che subiscono da decenni dagli israeliani. Se ne fregano di ciò che pensa l’ “opinione pubblica” occidentale perché a loro interessa, giustamente, ciò che pensano cinquecento milioni di arabi, per lo più poveri e sfruttati, sparsi per tutto il Medioriente e il Maghreb e sottoposti da più di un secolo alla dominazione coloniale, diretta o indiretta, dell’Occidente, fin dai tempi del famoso accordo “Sykes-Picot” con il quale Francia e Gran Bretagna si spartirono il Medioriente con il righello, tot a te e tot a me, con relativo saccheggio di risorse e distruzione di intere popolazioni e comunità che si ritrovarono separate da quei confini di cui neanche riuscivano a capire il senso. E poi gli americani, e poi gli israeliani, e poi la cacciata dei palestinesi dalla loro terra nel ’48, la guerra del ’67, l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, la guerra in Algeria, l’aggressione all’ Iraq, all’ Afghanistan, alla Libia, la cacciata del popolo Saharawi per mano di quel Marocco asservito alla Francia e agli interessi occidentali, e tanto altro ancora, quella che chiamiamo la “questione araba”. Una ferita aperta che le masse popolari arabe si portano dietro da tanto tempo e che le borghesie e le classi dirigenti dei paesi arabi cosiddetti “moderati” (in diversi casi, feroci dittature) asserviti all’occidente non sono riusciti a sanare. La rivolta armata palestinese di questi giorni contro uno stato considerato invincibile e inviolabile rappresenta la loro riscossa. A queste masse arabe si rivolgono i palestinesi. Noi occidentali siamo considerati solo dei viziati che vivono in una specie di giardino fiorito senza esserne neanche consapevoli; e dal loro punto di vista hanno perfettamente ragione. E siamo talmente inconsapevoli, viziati, indifferenti e narcisisti che abbiamo anche l’ardire di organizzare un rave party a pochi passi da un luogo di dolore e di sofferenza per noi inimmaginabile, quale è la Striscia di Gaza.
Sono stato a Gaza diverse volte quando lavoravo come reporter. Dopo una sola giornata trascorsa nella Striscia ero come pervaso da una profonda angoscia e avevo voglia di scappare, di evadere. Forte del mio tesserino da giornalista e del mio passaporto italiano potevo andarmene quando volevo. Per la verità provavo anche un senso di disagio per questo mio privilegio e mi chiedevo: ”Questa gente è costretta a vivere rinchiusa come le galline in questa immensa baraccopoli fatta per lo più di campi profughi, un vero e proprio giardino zoologico per esseri umani, in condizioni che definire umane è un insulto per ogni coscienza civile, e io dopo un solo giorno passato qui non ce la faccio già più e voglio tornare alla mia quotidianità fatta di comodità e di agi neanche concepibili per un abitante della Striscia”. Ma il desiderio di tornare ad una vita normale superava in men che non si dica i miei (non so ancora se nobili o ipocriti…) sensi di colpa di cittadino occidentale provvisto di “coscienza infelice” e, tutto sommato, da un certo punto di vista, anche gratificato dal fatto di aver vissuto per poche ore quelle “emozioni forti” da poter raccontare al mio ritorno. E fui fortunato, perché ogni volta che ci sono andato non ci sono stati bombardamenti aerei o raid dell’esercito. Gaza era completamente recintata – eravamo tra il 2000 e il 2003, non si poteva entrare né uscire, era già un carcere a cielo aperto, circondata da muri, fili spinati, torrette e postazioni militari, più o meno costantemente sorvolata da cacciabombardieri che provocavano un grande frastuono e sganciavano le famose “bombe suono”, una strategia di guerra psicologica che serve a fiaccare la gente. Tantissimi bambini a Gaza, anche in età adulta, continua a farsi la pipì a letto, anche in età adulta, perché traumatizzati dalla guerra e dalle incursioni israeliane, oltre che dalle drammatiche condizioni di vita, diciamo di sopravvivenza. Le “bombe suono” provocano un fracasso terribile simile a quello delle bombe vere e seminano il panico; ricordo che i bambini erano letteralmente terrorizzati. Mi spiegava una volta una psicologa palestinese in Cisgiordania che i bambini vivono un sentimento contraddittorio, di fatto una vera e propria nevrosi. Essendo abituati a vedere i soldati israeliani fare il bello e il cattivo tempo, comandare su tutti e ovviamente anche sui loro genitori, sono come sdoppiati. Le figure genitoriali, e in particolare quella paterna, vengono inconsciamente in qualche modo rimosse e sostituite con quelle del soldato o della soldatessa israeliana che possono disporre di fatto delle loro vite, lasciarli passare ad un check point oppure bloccarli e obbligarli a tornare a casa, o perquisirli in qualsiasi momento, entrare nelle loro case, impedirgli di recarsi in un ospedale o di andare al lavoro, e via discorrendo. Tutto ciò – mi spiegava – crea un corto circuito nella mente dei giovanissimi.
Il cittadino medio occidentale non ha neanche la più pallida idea di come si vive a Gaza. Una specie di limbo, dove non c’è passato né futuro, solo una sorta di eterno presente fatto di nulla dove diventare un soldato di Hamas o di qualsiasi altra formazione armata è il massimo a cui possano aspirare i giovani palestinesi. Del resto, cos’altro potrebbero fare? Nulla, perché non c’è nulla da fare a Gaza se non vegetare fino alla morte vivendo di espedienti, di lavoretti occasionali e dell’elemosina dell’UNRWA, l’agenzia di soccorso per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite, sempre che non si venga uccisi da un bombardamento aereo o da una guardia di frontiera che si diverte a fare il tiro a segno.
Che a noi piaccia o meno, la rivolta armata palestinese di questi giorni ha riacceso una luce di speranza non solo fra i palestinesi ma fra le centinaia di milioni di arabi, mettendo contestualmente in difficoltà i governi e le classi dirigenti dei paesi arabi cosiddetti “moderati” che ora si trovano nella difficile condizione di dover mediare fra il sentimento delle popolazioni e i loro interessi di classe sovrapposti a quelli occidentali. Da un certo punto di vista, un capolavoro politico, anche se il prezzo di sangue e sofferenza che i palestinesi dovranno pagare sarà altissimo, come mai fino ad ora. Ma questo, loro lo sapevano già.