Se la pianificazione statale di mercato cinese ha la meglio sul libero mercato del vecchio continente


Uno degli aspetti salienti di questo Ottobre è rappresentato dall’offerta del sindacato meccanico tedesco Ig Metal alle principali case produttrici tedesche: rinunciamo al 20 per cento del salario in cambio della sospensione dei licenziamenti e in cambio di un aumento contrattuale attorno al 6\7 per cento.

A distanza di 20 giorni da questa offerta è arrivata la risposta di Wolksvagen che non solo rifiuta l’offerta sindacale ma annuncia tagli occupazionali, la chiusura di almeno 3 stabilimenti e due anni senza contrattazione e aumenti salariali.

In attesa di conoscere nel dettaglio il piano riorganizzativo aziendale è bene comprendere come l’offerta del sindacato non avesse fin dall’inizio alcuna speranza di essere accolta riproponendo in sostanza quel modello concertativo del tutto inutile alle aziende nella fase attuale. E un anno fa negli Usa il sindacato ha portato a casa un grande aumento dei salari ma in compenso ha taciuto su migliaia di esuberi che prima hanno colpito l’indotto, poi la forza lavoro interinale e precaria e oggi riguardano anche i tempi indeterminati con la chiusura di linee produttive e stabilimenti.

Non è tempo di accordi con il sindacato, anche se vantaggiosi per i padroni, i dati economici risultano impietosi e talmente preoccupanti da non lasciare dubbi sulla necessità di chiudere alcuni stabilimenti anche in terra tedesca, ridurre la produzione e la forza lavoro, tagliare innumerevoli spese e congelare intanto per due anni i salari mettendo alla porta i precari che nelle fabbriche tedesche hanno comunque un peso numerico inferiore rispetto ad altre nazioni Ue.

Perfino la Porsche sta rivedendo le proprie politiche industriali dopo il forte calo delle vendite in Cina e in Oriente, sono proprio sovrapproduzione e mancati sbocchi sul mercato a spingere il capitalismo tedesco a chiedere alla Ue di posticipare i termini entro i quali le macchine prodotte e commercializzabili nel vecchio continente saranno esclusivamente elettriche. E non è casuale che si cerchi da una parte misure protezionistiche, grandi sovvenzioni pubbliche per l’elettrico e dall’altra inizino i licenziamenti di una forza lavoro autoctona che per 30 anni ha beneficiato di condizioni retributive ed orarie di gran lunga migliori di quelle riservate alla manifattura italiana o spagnola.

Solo un terzo delle auto esportate dalla Cina sono elettriche, 10 anni fa il Governo di Pechino adottava una strategia destinata ad accrescere nell’arco di un decennio le esportazioni, i dati odierni dimostrano che sono andati ben oltre le più rosee previsioni.

Il capitalismo del vecchio continente fa i conti con i regali accordati alle imprese senza che queste abbiano intanto reinvestito parte dei loro lauti profitti in innovazione dei prodotti, quella innovazione che oggi vorrebbero finanziare con fondi comunitari dopo avere diviso tra i principali azionisti enormi ricchezze anche attraverso spericolate operazioni finanziarie.

Fonte foto: Il Fatto Quotidiano (da Google)

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